Archivio mensile:Aprile 2007

Ritorni.

Il ritorno è casa è sempre un’esperienza un po’ devastante: chiudere casa, ripulire tutto, decidere cosa può essere lasciato su e cosa deve essere invece chiuso in valigia mi mettono in agitazione.

I minuti prima della partenza seguono un rituale un po’ ossessivo: chiudere l’acqua, spegnere il riscaldamento, assicurarsi che anche il gas sia chiuso, controllare che nel frigo non sia restato nulla che possa corrermi incontro tra due settimane, chiudere serrande e ante, staccare il telefono e la luce e …finalmente chiudere la porta.

Mentre mi accingo a chiudere l’ultima finestra il mio sguardo, già malinconico, corre ai fiori sul balcone e al bosco che fa da sfondo.

Per fortuna il viaggio è breve, se si studia una partenza “intelligente” dura meno di un’ora, anche perchè la serie di tunnel, che collegano la valle a Lecco, ha ridotto notevolmente i tempi di percorrenza saltando in un sol colpo la strada tutta curve e tornanti che ha popolato i miei incubi fino a pochi anni fa.

Quando ero bambina la storia era un po’ diversa, bisognava stipare umani e bagagli su una microscopica 600 (in realtà 750, ma questo non ne aumentava la capienza), poco dopo aver lasciato le prime case del paese cominciava la coda che si protraeva, estenuante, fino al centro di Milano, dove abitavo allora, e le partenze intelligenti non esistevano, si partiva e basta.

Comunque breve o lungo che sia il viaggio di ritorno mi mette sempre un po’ di tristezza.

Tramonto al Cantello

Piani di Artavaggio.

Pasquetta tradizionalmente è il giorno della gita “fuori porta”, dopo le mangiate in famiglia del giorno di Pasqua si approfitta per organizzare picnic in campagna, in riva al mare, in montagna e uscite in trattorie caratteristiche.

Perché ho l’impressione che gran parte dei “vacanzieri” abbia deciso di passare la giornata in Valsassina? Perbacco, sono tutti qui: infinite teorie di automobili parcheggiate lungo la provinciale, le rive del torrente popolate di allegre famigliole armate di barbecue, funivie strapiene, rifugi traboccanti.

Per toglierci un po’ dalla folla, dopo mangiato, saliamo in quota con la funivia, prima corsa del pomeriggio, a quell’ora c’è poca gente: un paio di ragazzi muniti di zaini, un signore anziano con un cagnolino dallo sguardo mite, terrorizzato per i sobbalzi della cabina.

Arriviamo ai Piani di Artavaggio quando la gente comincia a scendere a valle, il cielo si rannuvola, come capita spesso nelle prime ore del pomeriggio.

Lo spettacolo è particolare: ci sono ancora vaste chiazze di neve, ma dove il ghiaccio si è sciolto i prati sono completamente fioriti di crochi bianchi e viola, non credo di aver mai visto tanti fiori tutti insieme, il disgelo crea dovunque dei rivoli che si intersecano e si uniscono a formare torrenti impetuosi.

Camminiamo sui sentieri fangosi in cerca di nuovi scorci, ogni tanto dobbiamo calpestare un tratto ancora coperto di neve, ogni tanto attraversiamo i prati fioriti: è un momento particolare dell’anno, in alta montagna il paesaggio è ancora quasi invernale, ma l’aria ha il tepore della primavera, basta una nuvola per abbassare la temperatura, ma quando si riaffaccia il sole c’è già una promessa d’estate.

Ci fermiamo al Rifugio ormai quasi vuoto, sui tavoli l’allegro disordine, traccia recente della presenza di tante persone che hanno passato qui la festa, ci basta un tavolino d’angolo, vicino a una finestra che si affaccia sui picchi, una fetta di strudel e un caffè per sentirci bene, rilassati e contenti, chiacchieriamo di cose futili, studiamo qualche nuovo sentiero, progettiamo qualche nuova escursione.

E così il pensiero corre all’estate: in fondo manca così poco….

Piani di Artavaggio

Vacanza.

E’ proprio rilassante passare qualche giorno tra le mie montagne soprattutto perché, quando sono qui, non mi aspetto mai niente di insolito o di particolarmente esaltante, così non corro il rischio di rimanere delusa.

Certamente il paese svela tutto il suo fascino quando non c’è nessuno, quando non è ancora invaso da centinaia di turisti che si aggirano tra le vecchie casupole della via centrale: ricordo certe sere, a metà febbraio, quando il paese è silenziosissimo, nevica, io mi aggiro per le strade vuote e i miei passi non fanno rumore perché sono attutiti dal leggero strato di neve che copre l’asfalto.

E’ un paese piccolo, abitato da poche centinaia di persone e io conosco quasi tutti, alcuni erano miei compagni di gioco quando ero bambina, quando il paese era minuscolo, non ancora circondato dai condomini spuntati negli anni settanta e si poteva giocare per la strada senza correre alcun pericolo perché la strada che saliva dalla valle finiva lì e passavano poche automobili.

Nei giorni canonici il paese si popola improvvisamente allora mi piace imboccare le stradine sterrate che salgono verso la montagna e si perdono nei boschi trasformandosi in sentieri tortuosi: a poche centinaia di metri dal paese la gente si dirada fino a sparire completamente e torna il silenzio, profondo e incantevole rotto solo dal mormorio delle acque dei torrenti, dai cinquettii, dai fruscii delle prime lucertole che escono a godersi il sole, dagli improvvisi ronzii degli insetti che si aggirano intorno ai primi fiori e dal suono dei passi sulle ultime foglie secche.

Le balze sono tutte fiorite di primule, anemoni e centinaia di altri fiori, minuscoli e delicatissimi, che si allargano in macchie colorate sul verde tenero: camminerei per ore per osservare tutti i dettagli fermandomi solo dove gli alberi si diradano e la valle e le montagne si spalancano nello stupendo panorama per me così abituale, ma sempre nuovo.

Tra queste montagne, tra questi boschi è trascorsa una parte significativa della mia vita, qui ho alcuni dei ricordi più miei, qui risento le voci care, rivedo volti e gesti che altrove non sono più capace di ritrovare, sarà questo il motivo che mi fa tornare qui, sarà questo il motivo che rende ogni vacanza in questa valle un’esperienza unica.

Edicola sacra

Dialoghi in automobile

Quando frequentavo l’università mio padre lavorava, come consulente, dalle parti di Viale Forlanini, a Milano.

Alla mattina molto spesso viaggiavamo insieme, così io mi risparmiavo il tragitto in metro o in autobus, percorrevamo insieme la tangenziale, che allora era un po’ meno trafficata di oggi, da Carugate fino a Linate, poi, appena entrati in città, ci salutavamo, io prendevo il tram per andare in Statale e mio padre si fermava, di lì a poco, in ufficio: cominciavamo così la nostra giornata di lavoro e di studio, ci saremmo ritrovati alla sera, a casa per cena.

Ricordo ancora i lunghissimi dialoghi che ci vedevano impegnati durante il percorso, mio padre era una persona intelligentissima, colta ed era un autentico piacere discutere con lui, anche quando le nostre idee divergevano,  perché c’era sempre tra noi un grande rispetto e una forte complicità.

Gli parlavo dei miei dubbi, delle scelte importanti che avevo di fronte, della stanchezza che ogni tanto mi prendeva all’idea dei lunghi anni di studio che mi aspettavano, dei sentimenti e lui mi era sempre vicino con la sua discreta saggezza, così rispettosa della mia libertà.

Mi parlava della sua giovinezza, delle scelte che aveva dovuto affrontare, delle paure durante gli anni della guerra e della prigionia, delle responsabilità che si era assunto quando era ancora poco più che un ragazzo: raccontava con pacatezza, come se quei ricordi non fossero suoi, come se avesse rimosso l’emozione e forse era veramente così, aveva imparato a guardare dal di fuori le sue gioie e i suoi dolori, come se non gli appartenessero più.

Era un uomo positivo, sereno, forte ed emanava forza e serenità, per me spesso era la roccia alla quale ancorarmi nei momenti difficili.

Poi mi sono laureata, mi sono sposata (non in questo ordine), lui ha finalmente smesso di lavorare e ha cominciato a fare il nonno a tempo pieno, con lo stesso entusiasmo e la stessa disponibilità che avevano caratterizzato la sua figura di padre.

Oggi mi mancano quei dialoghi, anche perché quindici anni fa mio padre se n’è andato, oggi sarebbe quasi novantenne, alla sua mente così lucida e razionale sono state risparmiate le “ingiurie degli anni”, ma a me è rimasto il rimpianto di qualcosa di inespresso di non detto e, nello stesso tempo, il ricordo dolcissimo dei nostri lunghissimi dialoghi in automobile.

Educare alla diversità.

Di nuovo la scuola nell’occhio del ciclone: i media hanno diffuso la notizia di un adolescente di Torino che ha deciso di togliersi la vita , dopo ingiurie e dileggi reiterati fino al punto di diventare insopportabili, benchè la famiglia, alla quale il ragazzo si era rivolto per chiedere aiuto, avesse allertato gli insegnanti.

Non credo che il corpo docente abbia sottovalutato il problema, se succedono episodi simili di solito gli insegnanti si attivano tempestivamente, proprio per evitare che la situazione incancrenisca.

Tuttavia non è sempre facile trovare la strategia giusta: è inutile e controproducente percorrere un percorso di tipo punitivo, può essere anche pericoloso prendere le difese di chi è oggetto di attacchi da parte dei compagni, perché si rischia di isolarlo ulteriormente, spesso persino parlarne in classe può lasciare il tempo che trova.

D’altra parte capita spesso, penso che capiti in tutte le classi, che qualcuno venga preso di mira dai compagni perché diverso, si tratta di una legge tacita: il corpo “estraneo” va emarginato perché non si integra, perché mette in qualche modo in crisi l’identità del gruppo, perché confrontarsi con la diversità non è facile, neppure per gli adulti, immaginiamo quanto sia difficile per i ragazzi, perché “sparare sulla Croce Rossa” è crudelmente divertente.

Intendiamoci sul concetto di diversità, non si tratta solo e sempre di omosessualità vera o presunta: diverso è il “secchione”, diverso è chi non veste come gli altri, diverso è chi è in sovrappeso, quando la pubblicità e la televisione veicolano un modello di bellezza differente, diverso è chi proviene da un altro paese, diverso è il disabile, diverso è chi non sa giocare a calcio, diverso è il timido, diverso è chi non ha il telefonino di ultima generazione, diverso è chi non scende a compromessi per adeguarsi alle leggi del gruppo.

Forse la strada giusta, anche se non sempre facilmente percorribile, è quella di prevenire certe situazioni d’emergenza lavorando, con grande sensibilità e attenzione, su un percorso che metta la “diversità”, intesa come “individualità”, al centro del progetto educativo.

E’ necessario far capire i ragazzi che tutti noi siamo diversi in quanto individui e che la diversità, lungi dall’essere un ostacolo, è una grande ricchezza che va apprezzata in quanto la crescita e la maturazione di un uomo avvengono proprio grazie all’incontro e al confronto con le diversità degli altri.

Prima pagina…

Sulla prima pagina del quotidiano Liberazione di ieri è comparso un articolo che è una sintesi di due post comparsi su Kblog e sul mio blog (l’articolo è firmato Sciura Pina con l’indicazione del Link di questo blog mentre manca quella di Kblog).

Inutile dire che la cosa mi ha fatto piacere, anche se mi ha spinto ad una serie di riflessioni (si sa, sono un tipo riflessivo, nonché riflettente).

La prima riflessione è che la scelta di lasciare a casa i cellulari, in occasione di una gita scolastica, non mi sembrava particolarmente originale: anche in altre occasioni abbiamo chiesto ai ragazzi di farne a meno, soprattutto in caso di spettacoli teatrali o di visite a musei, dove il telefonino, magari tenuto acceso inavvertitamente, avrebbe potuto creare particolare disturbo.

La risonanza che la notizia ha avuto sui media mi fa pensare che ormai siamo talmente abituati a dipendere da questo strumento che la decisione (peraltro ovvia) di non usarlo potrebbe rappresentare veramente un gesto rivoluzionario.

D’altra parte però sono contenta che la notizia di questa decisione sia stata divulgata perchè spero che altre scuole la adottino, non come mezzo punitivo o limitativo della libertà dei ragazzi, ma come scelta educativa consapevole, condivisa dai docenti, dai ragazzi e dalle famiglie.

Coraggio, lasciamo a casa tutti quanti il cellulare, si può vivere anche senza…

Da oggi…

Da oggi e per otto giorni sono ufficialmente in vacanza: ho chiuso il registro, i libri, il cassetto in aula professori e il mio cervello, per una settimana non se ne parla più.

Tra non molto comincerò ad occuparmi dei bagagli per la montagna, ma non mi preoccupo molto, la mia casa lassù (sì, sempre quella in Valsassina) ha quasi tutto quello che mi serve: maglioni vecchi che qui non metterei più, scarponi, qualche buon libro, musica da ascoltare nei momenti di relax…ho bisogno veramente di poco per sentirmi in vacanza.

Devo ricordarmi la mia macchina fotografica, che mi segue praticamente dovunque, perché ho intenzione di camminare un po’ e di cercare qualche dettaglio piacevole da mettere sui miei post nostalgici.

Nei momenti liberi ho intenzione di accudire le piante sul balcone, potare i gerani dopo il riposo invernale, ripulire la mia radice popolata di piantine di roccia, sistemare i bulbi e seminare i fiori per l’estate.

Di solito quando sono libera dagli impegni di lavoro mi piace anche cucinare, in genere mi produco in dolci ad altissimo tasso di colesterolo e zuccheri con buona pace degli esami del sangue e delle raccomandazioni del cardiologo, ma non si può stare a stecchetto tutto l’anno.

Avrò anche un po’ di tempo da dedicare ai miei cari che, quando sono impegnata col lavoro, trascuro un po’: farò lunghe passeggiate con mio marito, chiacchiererò un po’ con mia madre, che ormai è quasi cieca e ha bisogno di compagnia, e coccolerò un po’ mio figlio, che non vedo quasi più, perché i nostri orari di lavoro tendono a non coincidere.

Insomma la mia vita non cambierà molto, ma cambierà il ritmo e, sicuramente, il panorama.

E se dovesse piovere e fare freddo?

Meglio, camino acceso e cioccolata a gogò, alla linea ci penserò al ritorno.

pieno sole

Estinzioni.

Riprendo l’interessante post di Miky che parla dell’estinzione dei cavallucci marini perchè, leggendolo, sono stata spinta ad una riflessione su come molti ricordi della mia infanzia siano ormai, purtroppo, solo un ricordo.

Quando ero bambina, più o meno in questa stagione, mio padre mi portava sulle montagne vicine a Erba, in provincia di Como, perchè spuntavano i narcisi.

I declivi erbosi erano pieni di fiori candidi, a perdita d’occhio i prati erano praticamente imbiancati, come per una nevicata leggera e mi piaceva camminare facendo attenzione a non calpestarli.

C’erano però comitive numerose che ne raccoglievano mazzi enormi e scendevano a valle esibendo come un trofeo le centinaia di corolle ormai sgualcite: già allora, nella mia mente di bambina, mi chiedevo a cosa servisse raccogliere tanti fiori che sarebbero presto appassiti.

Oggi non si vedono più le immense distese di narcisi, solo qualche fiore occhieggia timidamente qua e là nei prati, forse la scomparsa non è da attribuirsi alle massicce raccolte degli anni sessanta, ma sta di fatto che narcisi non se ne trovano praticamente più, neanche a pagarli a peso d’oro.

E che dire delle stelle alpine che abbondavano sui pendii erbosi ed impervi della Grigna?

Mi ricordo che la salita durissima era rallegrata dalla vista del fiore che è così tipico della montagna da esserne diventato il simbolo.

Se vedevamo un esemplare particolarmente bello, mio padre me lo additava e magari deviavamo dal sentiero per osservarlo da vicino, raccoglierlo sarebbe stata una colpa gravissima e allora ci limitavamo ad ammirarlo, in silenzio, perchè alla stella alpina si doveva grande rispetto.

Oggi anche le stelle alpine, benchè dichiarate flora protetta, sono diventate rare, se ne trovano ancora nelle zone più pericolose e quindi meno battute, dove non passano gli escursionisti, dove nessuno si sognerebbe di coglierle, piccoli fiori che strappano alla roccia la loro sopravvivenza.

Forse dovremmo riflettere sul fatto che il patrimonio naturale, una volta distrutto, non si rinnova tanto facilmente ed è insensato fare man bassa di tutto ciò che ora ci sembra abbondare, perchè spesso è solo un’illusione.

Leontopodium alpinum

Il miglior amico dell’uomo (…e pure della donna)

In questi giorni continuo ad incontrare genitori di ragazzi della mia scuola ( non necessariamente di miei allievi) muniti di guinzaglio, più o meno lungo, con relativo cane al seguito.

Talora si tratta di bestiole vezzose (e ferocissime) delle dimensioni di un grosso topo, talora di simpatici mezza-taglia e mezzo-sangue, che caracollano giocherelloni annusando l’universo, talora invece si tratta di vere e proprie belve dall’aspetto più o meno imponente e scorbutico che procedono ad andatura sostenuta trascinando il malcapitato umano dove vogliono loro.

I genitori presentano alcune inquietanti costanti, hanno quasi tutti un’espressione infelice e rassegnata, alcuni, i più civili, esibiscono con aria vagamente schifata, il sacchettino e la paletta, mentre gli altri ostentano di ignorare l’espletamento delle necessità fisiologiche degli animali al seguito.

Il ripetersi di questi incontri ha stimolato la mia curiosità, allora ho abbordato una mamma, con la quale sono in confidenza, e ho chiesto notizie del cane.

Il breve la storia è questa: a Natale (o per il compleanno, l’onomastico, la promozione, la cresima e compagnia bella) il pargolo (pargola), sentendosi solo e senza uno scopo nella vita, ha chiesto ed ottenuto in regalo un cucciolo, poi, passato il primo momento di entusiasmo (che varia dai quindici minuti ai quindici giorni), ha osservato che fra scuola, compiti, calcio, danza, pianoforte e palestra non ha certo il tempo di occuparsi dell’animale e quindi….

Non vorrei sembrare pedante, ma credo che, una volta che un ragazzo ha chiesto e ricevuto in dono un animale, dovrebbe essere moralmente impegnato a prendersene cura, sia per sviluppare il senso di responsabilità che per arricchire la propria affettività, e i genitori dovrebbero farsi carico di richiamarlo ai propri doveri.

Un cucciolo non è un giocattolo del quale ci si può stancare impunemente, è un essere vivente che in buona misura dipende da noi e che richiede amore e cure.

In caso contrario temo che continuerò ad incontrare genitori con aria infelice a spasso per il parco in ore improbabili, logicamente con cane al seguito.

cane