Archivio mensile:Maggio 2007

L’ultima settimana.

Sta per cominciare l’ultima settimana di scuola, la madre di tutte le settimane: ieri ho definitivamente chiuso, dopo quello di storia, anche il programma di geografia, da oggi si ripassa e si simula (non si tratta di “far finta”, ma di simulare la prova d’esame perchè i ragazzi riescano a gestire la paura).

E’ il periodo dei tornei: le ragazze hanno vinto quello di pallavolo, i maschi hanno perso e continuano a recriminare accusandosi a vicenda, non riesco a capire se siano più arrabbiati per la sconfitta o invidiosi della vittoria delle compagne, che li osservano con un misto di ironia e compatimento.

E’ anche il periodo della “pizzata” con gli insegnanti e qualche genitore volonteroso (…e mal sopportato dai ragazzi, ma un mezzo di trasporto è quasi indispensabile): ci sono grandi sussurri e febbrili consultazioni, qualcuno timidamente si informa se i prof. devono essere invitati proprio tutti, ma, con l’esame alle porte, può essere altamente controproducente scontentare qualcuno.

La paranoia da esame sta salendo come un’onda di marea, veloce e inarrestabile, anche i più studiosi ne vengono colpiti e si pongono interrogativi assurdi, gli altri, quelli che hanno vissuto come “gli uccelli del cielo e i gigli nei campi” si crogiolano nella loro beata ignoranza, socraticamente sanno di non sapere e sono rassegnati al peggio.

Da parte mia sono sommersa dalle cartacce e, come succede sempre in questi momenti, sono stata abbandonata dalla stampante che ha scelto proprio il periodo di maggiore attività per defungere: pazienza! Scriverò tutto quello che devo e me lo porterò a scuola, rassegnata anch’io a mettermi in coda per usare le stampanti antidiluviane del laboratorio di informatica.

Oggi, ultimo incontro del laboratorio teatrale prima della serata alla presenza dei genitori, abbiamo usato le due ore per fare una prova un po’ speciale: abbiamo deciso di mettere in scena lo spettacolo nella locale “Residenza per Anziani”.

Come sempre succede in questi casi i ragazzi hanno dato un po’ di gioia e in cambio hanno ricevuto tantissimo affetto: sicuramente un’esperienza da ripetere.

La ghiacciaia di Moncodeno.

Per chi, come me, ha passato una vita in Valsassina le montagne che la circondano non dovrebbero avere più segreti, eppure capita spesso di imbattersi in qualcosa di nuovo, infatti, qualche anno fa, ho sentito parlare di questa interessantissima grotta, descritta, pare, anche da Leonardo da Vinci e ho deciso che era il caso di visitarla.

Non conoscendo l’ubicazione dell’entrata e le eventuali difficoltà ho preferito affidarmi ad una guida esperta che ha provveduto a portare anche il materiale necessario per compiere l’escursione in sicurezza (imbrago, caschetto) e mi ha dato dei consigli sull’abbigliamento (praticamente invernale benchè fossimo in piena estate).

Siamo partiti dal passo del Cainallo, ai piedi della Cresta di Piancaformia che porta in vetta alla Grigna Settentrionale e abbiamo imboccato il sentiero per il rifugio Bogani, poco prima di giungere al rifugio, in prossimità delle baite di Moncodeno, si segue una traccia che conduce all’ingresso della ghiacciaia, dove una scaletta metallica consente di entrare nella grotta.

Dopo esserci vestiti di tutto punto, con maglioni, guanti e berretto, ed aver indossato imbrago e casco siamo scesi nella ghiacciaia, dove la temperatura era di parecchi gradi sotto lo zero.

All’interno, in una saletta dall’andamento circolare, si elevano stalagmiti di ghiaccio di grandi dimensioni che sembrano figure arcane e un po’ misteriose, soprattutto se illuminate dalle lampade dei caschi, è uno spettacolo quasi irreale e fiabesco, assolutamente imprevedibile dall’esterno.

E’ stata un’esperienza fantastica, anche se la guida ci ha fatto notare che l’accesso dovrebbe essere limitato per conservare il microclima ed evitare il riscaldamento della grotta con conseguente scioglimento delle formazioni di ghiaccio, per questo motivo ho evitato di tornare a visitare la ghiacciaia, penso che certi luoghi vadano salvaguardati dal turismo di massa che ne potrebbero distruggere l’integrità.

Comunque, poco più sopra, in mezzo al bosco c’è il rifugio Bogani che, se non altro, merita una visita per la splendida ospitalità e per la cucina di buon livello e rappresenta una meta apprezzabile per una escursione non estremamente impegnativa e un punto di partenza per l’ascensione alla vetta della Grigna attraverso la cresta o la via del nevaio.

Rifugio Bogani

La prima volta.

Come si fa a non ricordare la prima volta: il senso di euforia e insieme di smarrimento, l’impressione profonda di trovarsi in una situazione tante volte immaginata, ma mai vissuta, qualcosa di cui hai sentito parlare, ma che in realtà non conosci e, anche se ti sei preparata, hai letto ciò che c’era da leggere, hai ascoltato attentamente i racconti di chi ci è passato prima, riesci solo vagamente a intuire, capisci che cambierà radicalmente la tua vita, ma hai il timore del cambiamento.

Avevo ventitré anni quando, stringendo fra le mani la nomina del preside, mi sono trovata faccia a faccia con la mia prima classe: insegnante precaria quant’altri mai, titolare di una supplenza di quindici giorni, non ancora laureata (perchè negli anni settanta, in Lombardia, c’era posto anche per chi stava ancora frequentando l’Università, soprattutto per le supplenze brevi).

Il primo impatto col mondo della scuola è stata la vista di un ragazzino che arrivava dal fondo del corridoio, con un taglio profondo nel braccio (aveva appena sfondato il vetro della porta dei bagni: allora nella scuola la sicurezza era un optional).

Mi ero presentata puntuale, con un batticuore da far paura e mi ritrovavo catapultata in un film di Dario Argento: per qualche minuto mi sono chiesta se quella era proprio la professione che intendevo intraprendere, mi sono sentita in trappola, spaventata, dubbiosa, con una voglia irrefrenabile di scappare.

Non sono scappata e non sono scappata neppure davanti a una classe di ventisette ragazzini pronti a mangiarsi la supplente in insalata, ho inalberato il cipiglio delle grandi occasioni, ho spiegato per due ore senza mai sedermi (non mi siedo mai neanche adesso), ho imparato i nomi a memoria a tempo di record, ho intuito quali ragazzi avrei potuto “tirare dalla mia parte” per farmi aiutare nella gestione della classe: in pratica ho capito quasi subito che quello era proprio il mio mestiere.

Poi la supplenza, per quelle strane alchimie che capitano, a volte, nella scuola italiana, è durata per tutto l’anno, rinnovata di volta in volta ogni due settimane e, nonostante gli inevitabili errori causati dall’inesperienza, ho portato la classe agli esami.

Ogni tanto li incontro ancora quei ragazzi, mi vogliono un bene dell’anima anche ora che sono dei quarantenni padri e madri di famiglia: qualcuno è diventato architetto, qualcuno medico o farmacista, qualcuno avvocato, ma anche chi non è arrivato all’università è riuscito a realizzarsi nel proprio lavoro o nell’impegno sociale e politico.

Oggi non si entra più così impreparati nelle classi, oggi gli insegnanti sono dotati di strumenti adatti allo svolgimento della professione e, probabilmente, procedono molto meno di me per tentativi ed errori, ma io so che è grazie a quella “leggendaria” prima volta che ho imparato il mio mestiere e quando incontro i miei ragazzi di allora provo ancora una gratitudine immensa per quanto mi hanno insegnato.

Mal d’Africa.

Ieri, come accade spesso nella nostra scuola, i ragazzi di terza hanno avuto l’opportunità di vivere una lezione molto particolare, nell’ambito dei progetti di interculura e di educazione musicale.

In un pomeriggio, caratterizzato da una pioggia quasi tropicale, sessanta ragazzi delle terze, stipati nell’aula più capiente della scuola, hanno potuto assistere alla performance di un Griot proveniente dal Burkina Faso, ma che ormai vive stabilmente nel nostro paese: Karamoko Diarra detto Baba.

musica

Non mi dilungherò sulle funzioni storiche e sociali del Griot nelle diverse culture africane: un po’ musicista, un po’ messaggero, un po’ cantastorie il Griot è il depositario della tradizione orale, fin da bambino impara a suonare i diversi strumenti imitando gli adulti e suonando a sua volta.

Quello che mi preme sottolineare è la reazione dei ragazzi che di solito sono piuttosto annoiati e distratti e accolgono le diverse proposte educative con un misto di diffidenza e sufficienza.

Ieri, invece, sono stati prontamente catturati dalla magia della musica e dall’intensa capacità comunicativa del Griot che trasmetteva energia e suggestioni forti.

Anche se un po’ riluttanti prima hanno fatto domande, poi hanno cominciato a seguire il ritmo, hanno cantato una melodia africana, hanno provato a suonare gli strumenti lasciandosi andare e rompendo, per una volta, la corazza impenetrabile che indossano quando sono in presenza degli adulti.

Così si sono fatti contagiare dal ritmo, hanno dimostrato un entusiasmo da stadio al termine di ogni performance: in una parola hanno compreso il linguaggio universale della musica e hanno gettato un timido sguardo su una realtà così lontana e affascinante.

musica

Dolci pensieri.

Adoro i dolci, soprattutto quelli stracarichi di crema e cioccolato, quelli che basta guardarli per alzare a livelli stratosferici il tasso di colesterolo e glicemia: per questo motivo amo tantissimo l’Austria perchè in quel paese felice mi sono imbattuta in alcune delle pasticcerie più ricche e lussureggianti di torte e cioccolatini d’Europa.

A Vienna c’è una pasticceria, proprio dietro la cattedrale di Santo Stefano, dove, quando soggiornavo nella città, o ero di passaggio, andavo ogni giorno e pranzavo con due fette di torta (una di crema e una di frutta), accompagnate da una tazza di caffè e poi me ne stavo lì a dare un’occhiata ai giornali, infilati sui lunghi bastoni ancorati ai tavoli, oppure osservavo attraverso la vetrina la vita della città e il tempo trascorreva lento e sereno.

Ma la torta viennese che amo di più è la Sacher (ricordate Nanni Moretti nel film Bianca?) perchè la Sacher con l’amaro del cioccolato e il dolce della confettura di albicocche è il vero simbolo di Vienna e dell’Austria: un misto di fasto e malinconia, un valzer viennese, gioioso, ma con un retrogusto di sottile decadenza.

Ormai tutte le pasticcerie del mondo confezionano questo dolce prelibato, ma l’originale è veramente unico e l’originale si può assaggiare solo lì, a Vienna (o nelle pasticcerie Sacher di Salisburgo ed Innsbruck), quando mi capita di passare acquisto la torta nella sua caratteristica scatola di legno (da viaggio) confezionata nella carta marrone che ha lo stesso colore degli arredi del locale e mi porto a casa un pezzetto d’Austria.

A Innsbruck l’Hotel Sacher è all’inizio dell’isola pedonale, a pochi metri dal centro, l’interno è sobrio e raffinato, le cameriere discrete ed elegantissime, scivolano fra i tavoli con un fruscio di grembiuli inamidati, la fetta di torta arriva in un piccolo piatto di porcellana dai decori essenziali, accompagnata da un ciuffo di panna montata e io provo la strana sensazione che il tempo si sia fermato, che nella saletta ci sia un’atmosfera ovattata, lontana dal mondo.

Peccato dover scontare questa gioia sublime con un incontro umiliante con la bilancia.

Innsbruck

No, le mucche no…

Qualche giorno fa affermavo di non capire certe manifestazioni di tifo che nulla hanno a che fare con la passione sportiva, non capisco gli atti di vandalismo, non capisco i branchi di scalmanati pronti a mettere a ferro e fuoco i dintorni degli stadi, non capisco gli slogan offensivi, gli striscioni deliranti i cori intimidatori, il lancio di fumogeni e tutto l’armamentario di stupidità che accompagna le partite di calcio.

Per questo motivo mi ha particolarmente infastidito il comportamento dei tifosi del Milan che, dopo la conquista della coppa, mercoledì notte, non hanno trovato di meglio da fare, per festeggiare la vittoria, che abbandonarsi ad atti di inciviltà.

Le vittime incolpevoli dei festeggiamenti sono state le mucche della “Cow Parade” che popolano (forse è meglio dire “popolavano”) il centro cittadino: gli scalmanati le hanno prese di mira distruggendone alcune e danneggiandone altre.

Purtroppo le sculture (perché le mucche, nonostante l’ironia, i sorrisi e la curiosità che hanno suscitato sono pur sempre opere d’arte) dovevano andare all’asta per raccogliere fondi destinati alla Fondazione onlus “Champions for Childrens” fondata dal giocatore del Milan Seedorf, che ha duramente stigmatizzato l’accaduto.

Come sempre succede le foto e i filmati dello scempio hanno fatto il giro del mondo e, naturalmente, non hanno contribuito a dare un’immagine lusinghiera del nostro Paese.

Da campioni d’Europa a campioni di stupidità purtroppo il passo è breve.

Milano mucca zebra

Il gioco dei ruoli.

Mentre leggevo il post di Silvia, che si lamentava dell’invadenza della madre nella sua vita familiare, ripensavo alla mia e a tutte le volte che, con alcuni atteggiamenti da chioccia, mi ha fatto innervosire.

Ho più di cinquant’anni, ho una laurea (non conta però…ce la metto ugualmente), ho una famiglia, ho una professione che svolgo con passione eppure mia madre, fino a un anno fa, mi trattava come se fossi una bambina ancora bisognosa dei suoi insegnamenti.

Non so più quante volte mi ha detto “saluta!” o “ringrazia!” (anche quando lo avevo già fatto) esattamente come quando avevo tre anni e ogni tanto mi dimenticavo le buone maniere (talvolta volutamente: fin da piccola ho nutrito simpatie ed antipatie molto spiccate).

Logicamente ci restavo male, soprattutto perchè leggevo un’ombra di benevolo compatimento negli occhi dei miei interlocutori, ma mi ero rassegnata all’idea che una mamma è una mamma per sempre e tende a trattare la figlia (ormai in età quasi pensionabile) come se fosse una bimba, mi dicevo: “invecchierai anche tu e chissà quante volte romperai le scatole a tuo figlio ormai uomo”.
…e poi…

e poi è successo che una malattia rara del sistema immunitario, improvvisa quanto mal diagnosticata, ha reso la mia mamma completamente cieca letteralmente dalla sera alla mattina ed i ruoli si sono improvvisamente invertiti: ora IO la accudisco, la tengo per mano, mi prendo cura di lei, le do saggi consigli, la sgrido quando fa i “capricci”.

Ora sono io che passo le notti insonni, che mi preoccupo quando sento un fruscio nella sua stanza, che tendo l’orecchio ad ogni minimo rumore inusuale, che cerco di prevedere e prevenire le sue richieste…e lei si affida a me, con la fiducia di un bambino, cerca a tentoni il mio braccio e si aggrappa come a qualcosa che le dà sicurezza.

La vita è proprio strana.

Partecipo…

le mani dei blogger

E va bene, lo confesso, non me ne perdo una: catene, meme e quant’altro mi vedono sempre presente…e allora?

La mia Ombra ha lanciato l’iniziativa Le mani dei blogger che consiste nel raccogliere le foto delle mani con le quali, più o meno quotidianamente, scriviamo i nostri post partendo dall’idea che, non solo gli occhi, ma anche le mani sono lo specchio dell’anima.

Devo dire, dopo aver scattato la foto, che le mie mani sono uno specchio piuttosto sinistrato, ho letto da qualche parte che nessuna parte del corpo denuncia così spietatamente i segni del tempo trascorso, infatti si può fare il lifting quasi a tutto, ma le mani…

D’altra parte le mie mani sono delle mature cinquantenni, che lavorano, mandano avanti una casa e una classe, non si può pretendere anche che siano giovani e pimpanti.

Comunque invito tutti a partecipare all’iniziativa, così, dopo le faccine dei blogger, avremo anche le manine…

Sul tetto d’Europa.

Non amo particolarmente il calcio e, in fondo, non lo capisco molto, non mi piace il clima di violenza fuori e dentro gli stadi, non mi piace il tifo cieco e sfrenato, non mi piace l’ambiente di intrallazzi e scorrettezze che spesso circonda questo sport, ma l’amore per il Milan è tutta un’altra cosa.

E’ un amore a prescindere, un amore che risale alla mia infanzia, quando mio padre mi portava a San Siro, una domenica sì e una no, con qualsiasi clima, con qualsiasi temperatura, per vedere la partita e io ne approfittavo per scroccare bibite e gelati.

Mio padre era stato selezionato, da ragazzino, per giocare in una squadra giovanile che allora alimentava il vivaio del Milan, poi era venuta la guerra che aveva cancellato tutti i suoi sogni di gloria, ma al suo ritorno, dalla prigionia in Sudafrica, aveva ritrovato intatta la sua passione sportiva.

L’unico lusso che si poteva permettere era un abbonamento annuale per lo stadio (logicamente nei “popolari”), allora San Siro (che non era ancora il “Meazza”) era uno stadio piccolo, senza le assurde divisioni tra le due tifoserie contrapposte, certo qualche volte volava qualche parola grossa, ma tutto finiva lì, Milano allora era divisa tra i “casciavit” (letteralmente cacciaviti) nomignolo che in qualche modo richiamava la vocazione proletaria dei tifosi milanisti, e i “bauscia” (termine praticamente intraducibile che significa letteralmente “saliva” e sta ad indicare delle persone che “se la tirano”), perchè la tifoseria interista era di estrazione tradizionalmente più borghese.

Ho visto giocare grandi campioni come Trapattoni, Rivera, Maldini (padre logicamente), Prati, Baresi e tanti altri che ricordo ancora vividamente, poi, un po’ per i costi eccessivi, un po’ per il clima sempre più teso che si respirava negli stadi abbiamo smesso di andare alla partita, ma il cuore è rimasto rossonero e in serate come questa provo una fortissima quanto irrazionale ed inspiegabile emozione.

AnCH’io….

Sto leggendo, in questi giorni, i miniblog dei miei allievi e mi sento in dovere di ribadire il concetto formulato da Alessio nel suo post (anche se con un po’ di ritardo).
Anch’io sono contro, è ora di finirla….
Io sono contro l'uso delle K al posto della C