Archivio mensile:Novembre 2007

Una finestra sul Paradiso.

E’ incredibile come la televisione riesca a donare emozione e bellezza ed è triste che lo faccia così raramente, ma quando succede che nel marasma mediocre dei palinsesti televisivi si incastona una gemma allora è un vero godimento per la mente e per lo spirito.

A meno di un mese dallo spettacolo di Marco Paolini è andata in onda la straordinaria performance di Roberto Benigni che ha interpretato da par suo il canto V dell’inferno, quello di Paolo e Francesca, per intenderci.

Come era successo nel 2002 per “L’ultimo del Paradiso” la lettura dantesca è stata ospitata in primissima serata sulla rete ammiraglia della Rai e ha monopolizzato l’intera programmazione della rete, ritagliandosi uno spazio non interrotto dalla pubblicità, che francamente sarebbe stata insopportabile.

Dopo una divertente e irriverente introduzione sulla situazione italiana, che, come sempre capita quando è in scena Benigni, non ha risparmiato niente e nessuno, l’attore toscano ha improvvisamente cambiato registro e ha iniziato una minuziosa spiegazione del canto dell’inferno che si è tradotta in un inno alla vita e all’amore, appassionato ed emozionante, e all’improvviso il linguaggio di Dante è parso chiaro e comprensibile a tutti.

Al termine della parte quasi didascalica Benigni ha mutato di nuovo registro e ha recitato con lo sguardo fisso nella telecamera, con voce chiara, ma commossa il canto, sfiorando toni di particolare tenerezza nella parte conclusiva, quando Francesca tace e ci si accorge, all’improvviso, che Paolo è sempre stato lì, vicino alla donna amata, abbandonato ad un pianto muto.

Le ultime parole “…e caddi come corpo morto cade” sono scese in un silenzio palpabile ed emozionato, quasi religioso, a suggellare un momento di arte e di poesia di livello altissimo.

Ogni tanto anche la televisione sa aprire una finestra sul paradiso.

strane nubi

Consigli per gli acquisti.

Chi ha letto il post di ieri sicuramente si è reso conto che scherzavo, tuttavia in rete, oltre a tante idee francamente improponibili, si può trovare qualche proposta veramente interessante.

Premetto che tra le mie colleghe c’è una giovane insegnante di educazione musicale, molto estroversa, dinamica ed energica che, nel tempo libero, dirige un coro del quale fa parte anche una collega di lettere dalla voce molto suggestiva.

Ieri, in aula professori, è comparso un cd musicale dal titolo “Incanto di Natale”, con musiche natalizie tradizionali, che ha attirato l’interesse e la curiosità di tutti, poi timidamente e non senza qualche imbarazzo, le due colleghe hanno spiegato che è stato inciso dal loro coro, in occasione del centenario della fondazione, e che, eventualmente, c’è l’opportunità di acquistarlo, direttamente o online, ma “senza impegno, per carità”.

Logicamente l’ho acquistato e l’ho ascoltato quasi subito e posso affermare che si tratta di musica molto coinvolgente, eseguita con emozione e professionalità: insomma proprio un cd adatto a fare da colonna sonora ad un giorno di Natale trascorso nella serena intimità della famiglia.

Mi sembra giusto fare un po’ di pubblicità a due “brave ragazze” che hanno contribuito a creare un prodotto di qualità: chi fosse interessato può dare un’occhiata qui.

Mai più senza.

Una volta capitava, in prossimità delle feste natalizie, di trovare nella cassetta delle lettere degli opuscoli, in realtà si trattava di minuscoli cataloghi, sui quali comparivano gadget francamente agghiaccianti o semplicemente inutili, offerti a prezzi concorrenziali.

Qualche volta sono stata presa, per una frazione di secondo, dall’insano desiderio di acquistare qualcosa, magari la lavalamp in miniatura o il portauovo a forma di tartaruga o la carta igienica decorata con le bandierine o il portacenere a forma di water.

Purtroppo negli ultimi anni i cataloghi di vendita per corrispondenza si sono diradati, ma niente paura ho visto sul Corriere che ora gli stessi oggetti, altrettanto fantasiosi e inutili, si possono trovare senza fatica online.

Nell’articolo si parla di un sito dove si possono trovare uno schiaccianoci a forma di Hilary Clinton, un separatore di uova dall’aspetto inquietante, le maniche decoratissime per chi vuole evitare i disagi dei tatuaggi e tanti altri simpatici oggetti che possono permetterci di risolvere il problema dei regali natalizi e le crisi di fantasia.

Mi sa che quest’anno, invece di perdermi in estenuanti week end di shopping, mi farò un tranquillo giretto in rete.

Innaturale.

Siamo abituati a pensare che chi è nato prima, prima se ne andrà: ci sembra giusto così, ci sembra normale, ci stupiamo e ci arrabbiamo quando, a causa di una malattia, succede il contrario, eppure la malattia è parte della vita, può sembrarci ingiusta, ma capita, allora lottiamo, cerchiamo di non arrenderci, facciamo appello all’istinto di sopravvivenza, ma in qualche modo ci facciamo una ragione, fatalmente passiamo all’accettazione.

E’ innaturale che i padri sopravvivano ai figli, non è solo profondamente ingiusto, capita di solito durante le guerre, quando sono i giovani di una nazione a partire per il fronte, è capitato a migliaia di famiglie, durante le due guerre mondiali, di vedersi private del futuro e capita nell’assurda “guerra” che viene contrabbandata con il nome di “strage del sabato sera”.

Quanti genitori hanno subito l’atroce mutilazione di perdere un figlio che esce di casa per passare un’allegra serata di svago e non fa ritorno?

Ci si può rassegnare alla malattia, si può cercare di accettare una morte in guerra, ma perdere qualcuno che amiamo per un incidente d’auto è assurdo e inconcepibile.

Vorrei stringere in un abbraccio muto e solidale tutte quelle mamme e quei padri che non riescono a rassegnarsi, vorrei trovare le parole per consolarli, per stare loro vicina.

tramonto

Tredici a tavola.

Nel mio paese, ma credo in tutte le piccole comunità, capita ogni tanto di uscire a cena con la “leva”, cioè con i coetanei, quelli che sono stati i tuoi compagni di giochi, di scuola, che magari hai perso di vista perché abiti altrove o hai orari di lavoro proibitivi, ma che ritrovi a cadenze più o meno fisse: il trentesimo, il quarantesimo, il cinquantesimo e via dicendo.

Sabato scorso siamo usciti insieme, anche se non si trattava di un decennale, perché, tutto sommato, abbiamo pensato che forse vale la pena di ritrovarsi un po’ più spesso e così, abbastanza arbitrariamente, abbiamo festeggiato i cinquantaquattro anni: siamo andati, nonostante il clima inclemente, in un accogliente locale dalle parti dell’Adda, un ristorante sobrio, ma elegante, dove abbiamo mangiato veramente bene, ma il cibo è un pretesto, tante volte basta una pizza, l’importante è stare insieme, chiacchierare un po’, rinsaldare dei rapporti piacevoli.

A causa di qualche defezione, provocata più che altro dai malanni di stagione, ci siamo ritrovati in tredici a tavola, ma che importa? Non siamo superstiziosi noi! Così, sotto lo sguardo un po’ perplesso dei camerieri, ci siamo accomodati e, mentre assaporavamo i cibi, annaffiati di buon vino, abbiamo amabilmente chiacchierato del più e del meno.

In realtà qualcuno ha notato, con un po’ di amarezza, che vent’anni fa si parlava di lavoro e problemi legati all’educazione dei figli, oggi invece parliamo dei piccoli o grandi disturbi dell’età e di pensioni, ma si sa: il tempo passa inesorabile per tutti.

Eppure, mentre mangiavo di buon appetito, mi sono estraniata per un attimo e mi sono guardata intorno: nonostante qualche capello grigio e qualche ruga e a dispetto di qualche chilo di troppo e di qualche capello in meno siamo sempre noi, siamo i ragazzi di una volta.

Forse sono un’illusa, ma che importa? L’importante è continuare a crederci.

Giornata piovosa

In queste giornate fredde e umide, mentre le luci natalizie accendono l’asfalto lucido di pioggia mi è tornata in mente questa poesia che mi sembra riflettere bene il mio stato d’animo:

Natale

Non ho voglia

di tuffarmi

in un gomitolo

di strade

Ho tanta

stanchezza

sulle spalle

Lasciatemi così

come una

cosa

posata

in un

angolo

e dimenticata

Qui

non si sente

altro

che il caldo buono

Sto

con le quattro

capriole di fumo

del focolare

Giuseppe Ungaretti 1916

Basta.

Nella mia esperienza la violenza, quella che si scatena fra le mura domestiche, è un’idea inconcepibile, un pensiero che non mi ha mai neppure sfiorata.

Sono nata e cresciuta in una famiglia nella quale mia madre ha sempre avuto pari dignità con mio padre (ben prima della parità riconosciuta per legge), una famiglia nella quale le decisioni, le responsabilità, le scelte avvenivano di comune accordo, dove c’erano discussioni su molti argomenti, magari accese, ma civili nelle quali mia madre, alla lunga, riusciva sempre a spuntarla.

Anche la mia famiglia è così: ci amiamo, ci rispettiamo, condividiamo i problemi e le scelte, decidiamo insieme.

Forse non riuscirei neppure a vivere accanto ad un uomo violento, non lo so, bisogna trovarsi in mezzo a certe situazioni per capire e per sapere quali potrebbero essere le mie reazioni:  so solo che sono troppo indipendente per accettare che qualcuno decida della mia vita e della mia felicità.

Idealmente mi sento vicina a tutte quelle donne che faticosamente stanno cercando dentro di sè la forza di reagire: non devono essere lasciate sole.

E all’improvviso….

Sotto la pioggia battente due operai stanno istallando, all’angolo della strada, le luminarie natalizie, non ci vuole molto per capire, anche per un tipo sempre un po’ distratto come me, che sta arrivando il Natale.

In realtà mi sembrava che, anni fa, il tempo natalizio con la frenesia degli acquisti, le liste dei regali, i pomeriggi estenuanti passati di negozio in negozio, arrivasse un po’ più tardi, più o meno per Sant’Ambrogio, quando si approfittava di quello che a Milano è il giorno della festa patronale per cominciare a pensare ai regali e agli addobbi della casa.

Intorno alla splendida chiesa romanica dedicata al santo si stendeva un mercatino colorato e luminoso, pervaso da profumi dolci e caratteristici, quando ero bambina era una festa andare in cerca delle figurine di gesso e delle decorazioni di vetro soffiato per allestire presepe ed albero, le bancarelle brillavano nella tenebra precoce dell’inverno e le luci si riflettevano nelle immancabili pozzanghere del selciato.

Ho ritrovato un’atmosfera simile solo nei mercatini natalizi dell’Alto Adige o della vicina Austria, ma i profumi sono diversi, per le strade si spande un profumo di pan pepato e di vino caldo, mentre nei quartieri spagnoli di Napoli ho ritrovato la stessa allegra confusione della mia infanzia.

Quest’anno il Natale mi sembra più imminente del solito, ma non ho ancora voglia di cercare i regali, di solito ne faccio pochi, solo per le persone che mi sono veramente care, ma mi piace scegliere qualcosa di adatto, qualcosa che possa far piacere a chi lo riceve: per me un regalo non è un atto formale o dovuto, ma simboleggia l’affetto, la gratitudine, il piacere di donare innanzitutto gioia, per questo motivo mi piace scegliere senza fretta, mi piace scegliere la cosa “giusta”.

Forse è ora di cominciare a guardarmi intorno.

Ricordi in bianco e nero.

In bianco e nero sono le mie vecchie fotografie, in bianco e nero erano le trasmissioni televisive e mi rendo conto che la mia memoria è in bianco e nero e mi stupisco di quanto mi sembri naturale l’assenza del colore.

Sfoglio l’album di matrimonio dei miei genitori, un matrimonio del dopoguerra, povero ma dignitoso: vedo mio padre, reduce dalla prigionia in Sud Africa, magrissimo, ancora più filiforme nel suo vestito scuro, mia madre con un tailleur grigio, un velo di pizzo bianco sul capo, gli occhi vivacissimi modestamente abbassati sui fiorellini bianchi che stringe nelle mani: sono giovani e belli, un po’ impacciati, stretti in mezzo ad un nugolo di parenti, buffi nei loro vestiti eleganti.

La mia nonna è un po’ defilata, tiene la schiena dritta che la fa sembrare più alta di quanto non fosse in realtà, sui capelli bianchissimi, raccolti in una crocchia voluminosa, inalbera un vezzoso cappellino con tanto di veletta che scende sugli occhi cerulei: non si vede il colore, ma si intuisce che sono chiarissimi e luminosi.

Nella grande scatola di cartone raccolgo altre fotografie alla rinfusa, dovrei trovare il tempo di riordinarle, osservo le foto della mia infanzia: ne amo una in particolare, scattata più di cinquantanni fa in una vecchia casa di ringhiera in via Paolo Sarpi a Milano (oggi in piena Chinatown).

Allora non ero solo una figlia unica, ma anche una nipotina unica, coccolata e viziata (per quanto potevo esserlo nella sobria austerità della mia famiglia, che sfiorava la povertà) amatissima dalle nonne e dai fratelli dei miei genitori, l’immagine mi ritrae mentre guardo curiosa la macchina fotografica e stringo tra le braccia una bambola con la quale ho trascorso tanta parte dell’infanzia.

Non ricordo il colore della mia casa o del mio vestitino, ricordo però benissimo la bambola vestita di giallo, con degli splendidi occhi verdi, stranamente nei miei ricordi solo i giocattoli sono a colori.

Mi piace perdermi nei meandri della memoria, mi piace immergermi in quella realtà che ormai, anche per me, ha il sapore di qualcosa di remoto.

io

Tragico fatto di sangue: tutti i particolari in cronaca.

Una volta, tanto tanto tempo fa, gli strilloni, per le strade, urlavano questa frase per attirare l’attenzione dei passanti distratti, che si avviavano frettolosi verso casa dopo la giornata di lavoro, perché allora la “nera” era appannaggio della seconda edizione, quella del pomeriggio, le notizie importanti, quelle sulle quali si cimentavano i giornalisti di razza riempivano i giornali del mattino.

Come è potuto succedere che la cronaca nera abbia preso piede in maniera così preponderante nei telegiornali e sulla carta stampata? In fondo un omicidio, anche il più efferato, può incuriosirci per gli aspetti truculenti o per i misteri connessi all’indagine, ma non tocca la nostra vita, altre sono le notizie che ci coinvolgono in prima persona il costo del greggio, per esempio, o il welfare, il debito pubblico, l’inquinamento, le politiche energetiche, le scelte di politica economica, le guerre vicine e lontane e le loro conseguenze nell’economia mondiale, un omicidio, invece, tocca da vicino la vittima, il suo carnefice, i familiari e gli amici e ci riguarda molto poco (a meno di non abitare nello stesso quartiere di un serial killer).

Eppure i giornali, i telegiornali e i programmi di approfondimento hanno fatto del delitto il loro cavallo di battaglia, ce lo propinano, talora a reti unificate, con dovizia di particolari, ricostruzioni, documenti, cronisti appostati davanti alle villette di Cogne o di Garlasco, piuttosto che a Erba o Perugia, dove intervistano ignari passanti, improbabili testimoni, vicini di casa intimiditi e infastiditi da tanto clamore, giornalisti che sono sbiaditi eredi di quel Paolo Brosio che, in tempi ormai lontani, scriveva una pagina nodale della storia del nostro paese, raccontando Tangentopoli davanti al palazzo di Giustizia di Milano, esposto all’inclemenza del tempo e al rischio concreto di finire sotto un tram.

Si celebrano i processi in tempo reale, in un clima da “panem et circenses” che mi sembra veramente poco civile, si sbatte il mostro in prima pagina e lo si sostituisce, con un altro mostro, in tempi da record, ci si abbevera morbosamente alle sempre vituperate fughe di notizie o alle fonti ben informate, in un crescendo rossiniano di “splatter”, sacrificando professionalità e buon gusto sull’altare dell’audience.

E’ ora che l’informazione torni a fare informazione.