Archivio mensile:Ottobre 2007

Di corsa.

Sveglia alle sei e rotti, caffè, doccia, colazione per il resto della famiglia, un’occhiata distratta allo specchio, preparo i libri, controllo la borsa: chiavi, cellulare, fazzoletti (non di carta mi raccomando), l’astuccio con la matita rosso-blu (così retrò), infilo le scale perchè l’ascensore è occupato (o guasto, dipende) galoppo verso la scuola (che per fortuna è solo a centocinquanta metri), spiego i Longobardi, introduco il congiuntivo, raccolgo le autorizzazioni per la gita a Pavia, fisso gli appuntamenti per i colloqui con i genitori.

Intervallo.

Si torna in classe, lettura ed esercizi di comprensione, campanella, galoppo verso casa, cucino, mangio, caffè, lavo i piatti, scrivo questo post e poi di nuovo a scuola per le due ore di laboratorio pomeridiane.

Uscirò alle sedici e trenta, galoppo a casa, preparo la cena da infilare nel microonde e poi, alle diciotto, tutta in ghingheri ho l’appuntamento per andare alla Scala.

Mi sa che non posso continuare con questi ritmi, meno male che la prossima settimana c’è il ponte.

Nostalgia…continua

Continuo l’elenco di Sw4n, ma siccome sono decisamente più attempata le mie nostalgie sono più datate:

la stufa a legna, Chissà chi lo sa?, il Musichiere, Domenica è sempre domenica, Coppi e Bartali, Rivera e Prati, paron Rocco, Lascia o Raddoppia, Nunzio Filogamo, Nicolò Carosio, quasi goal, la seicento con le portiere controvento, l’ovomaltina, Giovanna la nonna del Corsaro Nero, il tenente Sheridan, Carosello, la penna con i pennini, le macchie d’inchiostro sul dito indice, il fiocco azzurro sul grembiulino bianco, le Olimpiadi di Roma, il muro di Berlino, Kennedy e Papa Giovanni, il Settebello (inteso il primo treno superveloce), la prima lavatrice che andava in giro da sola, la mattina di Natale, la bambola con la testa di porcellana e gli occhi di vetro azzurro, le vacanze in montagna, gli sci di legno lunghi come il braccio teso, la prima volta che ho sciato a Cervinia, Bandiera Gialla, Alto Gradimento, lo Scarpantibus, le mani in seconda, pane burro e zucchero….

,,,chi continua?

La giacca stregata.

E’ uno dei racconti di Buzzati che preferisco in assoluto, la trama è semplice e, al tempo stesso, intrigante: un uomo si reca da un sarto, che gli è stato consigliato da un amico, e gli ordina un abito nuovo.

Benché provi un vago disagio e sia tentato di rinunciare al vestito si trova, quasi senza volerlo, ad indossarlo e scopre che gli va a pennello, anche se non gli riesce di pagare il conto perché il sarto si rivela inaspettatamente elusivo.

Appena indossata la giacca avverte che nella tasca si materializza una banconota e così si getta a capofitto ad estrarre ingenti quantità di denaro che, tuttavia, coincidono misteriosamente con cifre sparite in sanguinose rapine, furti, incendi e disastri di varia natura, tutti conclusisi tragicamente.

In breve il protagonista scopre di aver stretto un patto col diavolo anche se, a livello razionale, non riesce a considerarsi responsabile delle tragedie avvenute.

Logicamente la lettura di questo brano suscita in classe un po’ di sconcerto e grandi dibattiti, perché i ragazzi, nell’immedesimarsi nel protagonista, sono naturalmente portati a chiedersi quale sarebbe il loro comportamento in una situazione analoga e ad interrogarsi sul concetto di responsabilità (che, come sa chi legge spesso questo blog, è uno dei miei pallini).

Lascio volutamente in sospeso il finale….

Nei meandri.

Ogni tanto mi vengono in mente quei film “made in U.S.A.” nei quali, all’improvviso, un omino perfettamente normale, magari con qualche trascurabile turba mentale derivata dall’essere reduce di una delle tante guerre degli ultimi tempi, sale sul tetto di un edificio e comincia a sparare a tutto ciò che si muove….beh ho capito perchè l’omino è così esasperato: sicuramente ha avuto a che fare con un’Asl.

Se non salgo anch’io armata sul tetto di un edificio è semplicemente perchè sono pigra, altrimenti sarebbero guai per tutti.

Il lunedì mattina, visto che entro in servizio solo nel pomeriggio, lo dedico all’amena occupazione di sbrigare le numerose pratiche burocratiche che ormai affliggono la mia vita, tra poco mi attaccherò al telefono per cercare di capire che fine ha fatto la pratica per il riconoscimento dello “provvidenze economiche” di mia madre: so già che dovrò sorbirmi segnali di occupato e musichette, ma non demordo, ormai si tratta di una questione di principio.

E’ ormai più di un anno che vago per uffici, raccattando le risposte più improbabili e le proposte più indecenti:

  • Perchè sua madre non ha firmato la domanda per il riconoscimento della cecità?
  • Perchè è cieca!
  • Ma lo deve firmare ugualmente.
  • Come fa se non vede nemmeno il foglio? Qui c’è scritto che può firmare un congiunto!
  • Ma solo se è impossibilitata a firmare!
  • Ma è impossibilitata a firmare, è cieca!.

E così via per ore, fino a quando ho trascinato mia madre davanti ad un’impiegata del comune (peraltro gentilissima) che ha certificato che non poteva firmare (evidentemente la diagnosi dell’oculista non era sufficiente).

E poi tre mesi per aspettare la visita della commissione, e altri quattro per aspettare la risposta, poi si è trattato di compilare un altro documento (logicamente mi hanno mandato il modulo sbagliato) e di inviarlo ad un ufficio dove, essendo sbagliato il modulo, si è arenato per tre mesi, alle mie domande di chiarimenti hanno spiegato che “ci vogliono tre mesi per trattare la pratica” (praticamente ci vogliono tre mesi per fare una semplice moltiplicazione) e così siamo ancora in attesa che succeda qualcosa e io passo i lunedì a telefonare ormai ovunque.

Capisco che, visti i numerosi abusi del passato, siano necessari dei controlli, riconosco di aver trovato, nella mia odissea, impiegati gentili e disponibili, ma mi chiedo: cosa sarebbe successo se mia madre non avesse potuto contare sull’aiuto dei suoi figli?

Possibile che non esista un modo per rendere l’iter di una pratica un po’ più snello?

Ripeto sono troppo pigra (…e troppo rispettosa della vita umana) per salire sul tetto di un edificio e mettermi a sparare, ma ogni tanto mi verrebbe proprio voglia di farlo.

finestre

Canzone d’autunno.

Singhiozzi lunghi
dai violini
dell’autunno
mordono il cuore
con monotono
languore.

Ecco ansimando
e smorto, quando
suona l’ora,
io mi ricordo
gli antichi giorni
e piango

e me ne vado
nel vento ingrato
che mi porta
di qua di la’
come fa la
foglia morta.

Paul Verlaine

pozzanghera

Dalla parte delle bambine.

Sul Corriere di oggi leggo una notizia preoccupante: in una scuola del Maine si è scelto di distribuire contraccettivi alle undicenni per ovviare al fenomeno dei numerosi casi di gravidanze indesiderate (…e come potrebbe essere diversamente) verificatisi, il provvedimento ha logicamente suscitato polemiche e provocato posizioni diametralmente opposte nel mondo adulto.

Penso alle ragazzine della mia classe, anch’esse undicenni, e non posso fare altro che schierarmi dalla loro parte: sono ancora bambine, anche se alcune sembrano, almeno fisicamente, più mature, spaventate, ma anche lusingate dalle attenzioni dei compagni più grandi, nell’età in cui ci si apre alla vita, bombardate, attraverso i mass media, da modelli di comportamento contraddittori e spesso discutibili.

Come le loro compagne americane hanno bisogno di adulti che non si limitino a proibire o ad assecondare, ma che si impegnino nel non facile compito di educare, adulti che sappiano schierarsi contro la mentalità, spesso vincente, del sesso “usa e getta”, adulti che sappiano condividere con loro i valori sui quali hanno fondato la loro vita.

Da parte della scuola, ormai da diversi anni, abbiamo scelto di abbandonare l’educazione sessuale (che spesso si limitava alla mera informazione sulla fisiologia e la contraccezione) per fare un discorso più ampio: quello dell’educazione all’affettività, affrontando, parallelamente ad argomenti di carattere scientifico e medico, il complesso discorso dei rapporti fra le persone, della riscoperta dei sentimenti, del valore della scelta.

Come sempre educare non è facile e richiede impegno e coinvolgimento.

Per pensare un po’.

Qualche anno fa sono stata in Normandia e, visitando le zone dello sbarco alleato, mi sono soffermata nel cimitero militare americano di Omaha Beach ( per intenderci, quello rappresentato all’inizio del film “Salvate il soldato Ryan“).

Ricordo ancora l’emozione provata nel passeggiare tra le interminabili file di croci bianchissime, allineate con precisione geometrica sul prato verde, ricordo ancora di essermi soffermata a leggere qualche nome, qualche data di nascita e ricordo distintamente di aver pensato che quella lunghissima teoria di nomi, per me sconosciuti, corrispondeva ad altrettante persone, che erano vissute, erano figli di qualcuno, avevano qualcuno che li amava, che ne aveva atteso il ritorno e forse non si era rassegnato all’idea che ciò non avvenisse.

Ho letto da qualche parte che fino alla prima guerra mondiale la proporzione fra i morti civili e militari nelle guerre è nettamente a favore degli ultimi, la seconda guerra mondiale grosso modo pareggia i conti, ma da quel momento in poi il numero delle vittime civili supera di gran lunga quello dei militari.

Poi oggi do un’occhiata a Peacereporter e leggo il bollettino dei caduti della settimana nelle varie guerre, più o meno dimenticate, sparse per il mondo: si tratta di 1026 persone che hanno perso la vita.

Per dirla come Prévert: Quelle connerie la guerre!

omaha beach

Il ragazzo è intelligente, ma non si impegna.

Mi ha lasciata molto perplessa la notizia (comparsa sul Corriere della Sera) che riporta le affermazioni del premio Nobel per la medicina Watson, secondo il quale i bianchi occidentali sarebbero più intelligenti dei “negri africani” (lo so che l’espressione “negro” non è politically correct, ma visto il tenore delle affermazioni dello scienziato mi sembra azzeccata).

Premesso che vincere il premio Nobel non fa di uno studioso un “tuttologo”, bisognerebbe capire cosa si intenda per “intelligenza” e come si arrivi a misurarla.

Mi sembra evidente che i test per misurare il QI si basano su presupposti culturali ed esperienziali che, di fatto, li rendono inapplicabili a tutto il genere umano.

Mi sembra altrettanto evidente che quando si parla di aspirazione all’uguaglianza:

…Il premio Nobel riconosce come naturale l’aspirazione umana all’uguaglianza degli uomini, ma «le persone che hanno avuto a che fare con dipendenti neri sostengono che non è vero….

si debba intendere uguaglianza di diritti e di opportunità, non certo di “intelligenza” o di stili di apprendimento o di capacità di risolvere problemi o di esperienza o di cultura, fermo restando che le diseguaglianze non costituiscono giudizi di merito.

Mi sembra inoltre incredibile che un uomo razionale sia caduto banalmente nella trappola degli stereotipi e dei luoghi comuni (gli italiani suonano il mandolino, i francesi mangiano rane,  gli inglesi indossano la bombetta e i neri corrono veloci): da uno studioso, avvezzo a decodificare con “intelligenza” la realtà mi sarei aspettata di meglio.

Ho l’impressione che questo tipo di affermazioni serva solo a richiamare l’attenzione, in sostanza a “sparala grossa” per far parlare di sè anche perchè nell’articolo si allude chiaramente all’arrivo a Londra dello scienziato in occasione della presentazione del suo ultimo libro (un po’ di battage pubblicitario non guasta…).

Vincere un Nobel non fa di uno studioso una persona migliore.

Quel mattacchione di Alessandro Dumas.

Cito testualmente da “La signora dalle Camelie” di alessandro Dumas (da cui è stata liberamente tratta l’opera lirica “La traviata” di Giuseppe Verdi:

Per venticinque giorni del mese le camelie erano bianche, e per cinque erano rosse; non si è mai conosciuta la ragione di questo cambiamento di colore, che io racconto senza saperlo spiegare, e che era stato notato anche dai suoi amici e dai frequentatori abituali dei teatri dove si recava più spesso.”

Su coraggio fai un piccolo sforzo di immaginazione.

(in linea con il post di Elena)