Archivio mensile:Settembre 2007

Parole per pensare.

La scala di cristallo

“Bene, figliolo, voglio dirti una cosa:

la vita per me non è stata una scala di cristallo.


Ci furono chiodi
e schegge
e assi sconnesse
e tratti senza tappeti sul pavimento.

Ma per tutto il tempo
ho continuato a salire
e ho raggiunto pianerottoli
voltato angoli
e qualche volta ho camminato nel buio.

Quindi, ragazzo, non tornare indietro.
Non fermarti sui gradini
perche’ trovi che salire e’ difficile.
Non cadere adesso
perche’ io vado avanti.
Sali con me..

La vita per me
non è stata una scala di cristallo.”

Langston Hughes

Ogni tanto vale la pena di fermarsi a riflettere.

La forza del pregiudizio.

Spesso crediamo di conoscere la realtà semplicemente perché siamo bombardati quotidianamente da informazioni, immagini, notizie che, tuttavia, ci danno del mondo solo alcuni dettagli.

Spesso pensiamo di conoscere la complessità di un paese lontano (o di un popolo) perché lo abbiamo “visto” in televisione, sui giornali, nei depliant di un’agenzia di viaggi, nella pubblicità, o magari perchè lo abbiamo visitato durante le vacanze.

Anche i ragazzini non sono immuni da questo comportamento, anzi spesso si formano un giudizio (o un pregiudizio) anche sulla base di discorsi che sentono in famiglia e tendono a semplificare: perciò sono molto recisi nelle loro affermazioni e poco inclini a metterle in discussione.

Penso che uno dei compiti della scuola sia proprio quello di aiutare i ragazzi a uscire dalla logica dei luoghi comuni e a cercare di formarsi giudizi in modo libero, aperto al dubbio e al cambiamento.

Due anni fa fu inserita nella mia classe una splendida ragazzina giunta dal Ghana da pochi giorni che aveva suscitato, nei compagni, un atteggiamento a metà strada tra la curiosità e la diffidenza.

Per favorire la convivenza avevamo avviato (insieme agli operatori messi a disposizione dal Comune) un progetto che favorisse la reciproca conoscenza: così, una mattina, arrivò in classe un educatore, munito di un cartellone che rappresentava una cartina stilizzata dell’Africa, e chiese ai ragazzi di disegnare all’interno della sagoma ciò che, secondo le loro conoscenze, rappresentava meglio la realtà del continente.

Ne uscì una rappresentazione fantasiosa con persone vestite con gonnellini e piume, leoni, elefanti, capanne primitive, piramidi, stregoni, che la ragazzina ghanese osservava con un’espressione sempre più perplessa (sembrava un po’ la antica rappresentazione cartografica con la scritta “hic sunt leones” che ingenuamente veniva usata per definire una realtà sconosciuta).

Quando i compagni ebbero finito la ragazza (che per inciso proveniva da Accra, la capitale, e aveva studiato per sei anni in una scuola inglese con tanto di divisa e cravatta) si avvicinò alla cartina e disegnò la “sua” realtà: i grattacieli, la scuola, la chiesa, il mare e i diamanti.

Lo scambio di opinioni che ne seguì fu molto costruttivo: in breve i ragazzi compresero che la compagna, pur provenendo da tanto lontano, aveva avuto esperienze molto simili alle loro e, soprattutto, non aveva mai visto un leone (se non allo zoo).

Credo che esperienze del genere aiutino veramente i ragazzi a crescere e a diventare persone che pensano liberamente e col proprio cervello.

Una maglietta rossa per la Birmania.

Anche se un po’ in ritardo raccolgo l’invito di indossare una maglietta rossa per testimoniare la mia solidarietà col popolo birmano.

Poiché credo che sia intollerabile che di certe situazioni i nostri giornali e le televisioni non parlino, se non quando succede qualcosa che fa “audience”, mi impegno sin da ora a dedicare una maggiore attenzione a fonti di informazione alternative (per esempio).

Azioni e azionisti.

Poco prima dello scorso Natale avevo dedicato un post ad un’iniziativa che mi sembrava interessante, ripromettendomi di verificare nel tempo la sua effettiva validità.

Si trattava e si tratta di un sito che organizza e gestisce microfinanziamenti (sotto forma di “debiti d’onore”) rivolti a persone che vivono in paesi poveri e intendono, con un aiuto finanziario, avviare una piccola impresa con la quale sostenere se stessi e la propria famiglia.

Allora avevo aderito con una cifra modesta (25 dollari) contribuendo a finanziare l’idea di una signora bulgara che intendeva ampliare il proprio negozio.

A quasi un anno dal mio esperimento ho potuto verificare che il prestito è stato erogato, utilizzato e in buona parte restituito perciò, visto che il sistema funziona, ho deciso di sottoscrivere un altro prestito, questa volta a favore di una signora nepalese, che intende risistemare il suo piccolo negozio.

Penso che, come spesso accade, con poco si può fare veramente molto, inoltre il “prestito d’onore” non è una forma di beneficenza, ma un aiuto concreto che salvaguarda la dignità di chi lo riceve.

Invito tutti quanti a dare un’occhiata al sito e, se vi pare il caso, ad aderire.


Kiva - loans that change lives

Perplessità.

Mi ha molto colpita la nuova campagna pubblicitaria, lanciata da Oliviero Toscani, comparsa sui muri di molte città italiane.

Che il famoso fotografo faccia discutere non è una novità. spesso, anche nel passato, ha realizzato campagne pubblicitarie basate su immagini drammatiche e provocatorie.

Questa volta però sono perplessa: se, da un lato, mi sembra opportuno che se ne parli, dall’altro conosco bene i rischi dell’emulazione e l’estrema difficoltà di affrontare un simile tema in modo corretto e non controproducente.

Anche nella minuscola realtà del mio paese e della scuola dove insegno si è verificato qualche caso di anoressia e tutto il corpo docente ha imparato a osservare le abitudini alimentari dei ragazzi in mensa, a segnalare ai genitori e allo psicopedagogista i casi sospetti, muovendosi sempre con estrema cautela, senza inutili clamori, senza pericolosi allarmismi, ma in modo continuo ed attento.

Purtroppo le campagne pubblicitarie, così come l’attenzione dei mass media, rischiano di sfiorare soltanto la superficie del problema, accendendo un riflettore luminosissimo, ma effimero, poi, quando le luci della ribalta si affievoliscono, i problemi delle famiglie, degli educatori e dei medici e operatori sanitari rimangono, talvolta addirittura ingigantiti dal clamore  e dalla curiosità, perchè il rischio dell’emulazione, per quanto autodistruttiva ed assurda possa sembrare, c’è sempre.

Il buio.

Una delle mie passioni è il cinema, anche se ormai ho poco tempo per frequentare i numerosi “multisala” che affollano l’angolo di Lombardia dove vivo, tuttavia non rinuncio ad andare a caccia di DVD di film, possibilmente datati, ma, a mio parere, significativi, che poi finiscono fatalmente per intasare la mia personale, fornitissima e, per certi aspetti, sorprendente videoteca.

Quando ero bambina e abitavo in un quartiere popolare di Milano, c’erano numerose sale cinematografiche e i miei genitori mi portavano abbastanza spesso ad assistere alla proiezione di film che avevano appena lasciato le sale di prima visione: ricordo un interminabile “Il Gigante“, anche perchè, per lungo tempo, mi è rimasta impressa nella memoria l’immagine di un giovanissimo James Dean, bello e dannato, che, con le mani imbrattate di petrolio, sporca la camicia immacolata di un altrettanto giovane Rock Hudson, sotto gli occhi splendidi ed impauriti di una inarrivabile Liz Taylor.

Nella mia appassionata ed instancabile “ricerca del tempo perduto” cinematografico ho da poco ritrovato, acquistato e prontamente divorato “Il buio oltre la siepe” , lo splendido film tratto dal romanzo di Harper Lee, interpretato da un gigantesco Gregory Peck, rigorosamente in bianco e nero.

Del film, come del romanzo ripreso quasi fedelmente, mi affascinano l’atmosfera sonnolenta della cittadina del sud, il tema della discriminazione razziale, il percorso di crescita dei figli dell’avvocato e in particolare della piccola Scout, la voce narrante.

Ma c’è un particolare che mi colpisce profondamente ed è la percezione della diversità, vissuta per quasi tutto il film come un pericolo, incarnata nella figura del “pazzo” del paese, un inquietante Boo Radley, impersonato da un giovanissimo Robert Duvall, praticamente agli esordi.

Insomma un gran bel film (e un gran bel romanzo) che ogni tanto è piacevole rivedere.

Assenteismi.

Qualche giorno fa ho incontrato un preside furibondo: aveva chiesto una visita fiscale per accertare lo stato di malattia per un insegnante, assentatosi in un periodo strategico, stranamente coincidente con l’inizio della stagione balneare, e l’Asl di competenza (appartenente ad un’altra regione) aveva comunicato che la visita sarebbe stata effettuata a spese dell’istituto.

Visto il budget striminzito della scuola il dirigente aveva dovuto rinunciare ad effettuare il controllo (a meno di non pagarselo di tasca propria) e questa circostanza rischiava di provocargli un travaso acuto di bile.

Purtroppo nella scuola succede spesso così: le normative ci sono, gli strumenti ci sono, c’è persino tanta buona volontà…ma non si può sempre combattere contro i mulini a vento.

Tradizioni.

In casa mia conserviamo ancora alcune tradizioni ereditate dai nonni: gesti semplici, talvolta scaramantici, piccoli ingenui rimedi senza alcun fondamento scientifico o razionale che, visto che non fanno male, qualche volta, probabilmente per la legge dei grandi numeri, sembrano funzionare.

E allora perché no?

Mio padre portava sempre in tasca una “castagna matta” (il frutto dell’ippocastano) perchè, dalle mie parti, si ritiene che salvaguardi dai raffreddori invernali.

Così ieri ho fatto una passeggiata nei boschi intorno al paese in cerca del mio talismano e l’ho trovato: una bella castagna di piccole dimensioni, lucida, soda e tondeggiante.

L’ho infilata in tasca e ce la terrò fino a primavera…perché no?

ippocastano

Fatemi capire.

Se stai male, hai un dolore improvviso, un capogiro inaspettato, un sintomo che non riesci a spiegarti ti fiondi dal medico.

Se qualcuno ti ha fatto un torto e pensi di non essere sufficientemente tutelato ti rivolgi all’avvocato.

Se devi comprare casa ti tocca andare dal notaio.

Se ti si allaga la casa chiami l’idraulico (il quale si fa attendere come un neurochirurgo).

Se resti al buio per un corto circuito supplichi l’elettricista di dedicarti il suo tempo.

E allora perché, quando si tratta dell’istruzione di tuo figlio, pensi che non ci sia bisogno di un professionista, ma hai già tutte le risposte e cerchi solo chi esegua le tue istruzioni?

Già, perché?

Fast food.

Raramente mi fermo a mangiare in un fast food (è proprio il concetto di fast che mi disturba), ma ieri sera, incastrata tra un problema di lenti e una riunione, avendo poco meno di un’ora per raggiungere il centro commerciale, portare gli occhiali ad aggiustare, mangiare, ritirare gli occhiali e fiondarmi alla suddetta riunione, ho deciso che, per una volta, potevo anche piegarmi alla logica del fast.

Espletate le formalità di rito (ritirato il vassoio con cibarie e bevande dall’aspetto abbastanza sintetico) ho cercato un tavolino dove poter consumare la cena indisturbata.

Il problema è proprio questo, a parte la musica tenuta ad un livello che sfiora l’insopportabilità,  a parte i rumori di fondo di un centro commerciale che si fondono in un unico sordo boato, mi sono ritrovata a pochi metri da un simpatico frugoletto, dall’età apparente di quattro anni, che correva urlando tra i tavoli rovesciando bicchieri, posando le manine grondanti maionese su ogni oggetto animato e inanimato e intercettando, nella propria folle corsa, tutti i malcapitati che si trovavano a passare di lì rischiando di mandarli a gambe levate.

Nell’angolo più remoto della saletta, seduti ad un tavolo, i genitori continuavano imperterriti a consumare il loro pasto come se il pargolo non li riguardasse, ogni tanto gettavano un’occhiata annoiata per intercettarlo, in questo sicuramente guidati dal clamore delle collisioni, e poi tornavano indisturbati (loro!) ad occuparsi del cibo.

Alla fine hanno raccolto sacchetti e borse, hanno recuperato il piccolo e se ne sono andati seguiti da un muto quanto vano coro di proteste.

In queste circostanze mi sento idealmente molto vicina ad Erode.