Archivio mensile:Marzo 2016

Kurtoskalacs.

Kurtoskalacs è una parola ungherese di incerta etimologia (potrebbe derivare tanto dalla parola “camino” quanto dal corno, lo strumento musicale per capirsi) che si riferisce ad un dolce tanto goloso quanto semplice.

Si tratta di una striscia di pasta lievitata avvolta intorno ad un rullo che viene poi passato su un piano coperto di burro e zucchero, dopo la preparazione il rullo, simile ad un grosso spiedo, passa in forno dove la pasta cuoce e lo zucchero in superficie si caramella rendendo il dolce, simile ad un cannolo di ragguardevoli dimensioni, morbido all’interno e croccante (e appiccicoso) all’esterno.

Prima di consumarlo si fa rotolare su un piano coperto di cacao, o granella di mandorle o nocciole, papavero o cannella.

Il Kurtoskalacs è una specialità ungherese originaria della Transilvania (che un tempo faceva parte dell’Ungheria) che si trova elle pasticcerie di Budapest, ma durate le feste viene preparato anche nelle bancarelle per strada.

E’ un  dolce goloso, semplice, profumato che ha  un sapore di antico.

Milano - Expo 2015

Comfort food.

Il “Comfort food”, non è semplicemente cibo, ma è un sapore, un profumo, un aroma capace di darci conforto, di coccolarci, di richiamare alla nostra mente un’emozione, magari legata ad un momento felice, a un ricordo dell’infanzia a sensazioni che ci aiutano a stare meglio quando siamo un po’ giù.

Il più noto esempio di “Comfort food”  della letteratura di tutti i tempi è la celebre “madeleine” di Proust al quale bastò assaporare il dolcetto, morbido e burroso, dal sottile sentore di limone e dalla caratteristica forma a conchiglia per ritrovare intatti i ricordi dell’infanzia.

Uno dei sapori della mia infanzia, che mi piacerebbe ritrovare nei momenti difficili, era quello di una merenda che mi preparava la mia mamma, sbattendo energicamente un uovo con lo zucchero, in dialetto si chiama “rusumada”  e la ricetta originale prevede l’aggiunta di vino rosso (che logicamente mia madre si guardava bene dal darmi, ma lo sostituiva con un bicchiere di latte).

Nei mesi invernali la mamma aggiungeva una spruzzata di Marsala e metteva il tutto a scaldare sul fuoco e allora la mia merenda diventava un ricco zabaione che sorbivo intingendo dei biscotti nella tazza.

E’ il profumo dello zabaione che risveglia i miei ricordi, dolce come una carezza.

Torino 2011

Correzioni.

Correggere i temi dei miei ragazzi (di tutti i ragazzi presenti e passati) è un lavoro che richiede attenzione e calma, bisogna trovare un angolino tranquillo, fare silenzio, magari dotarsi di una tazza (o di una moka di caffè) che aiuta la concentrazione e cominciare a leggere e poi rileggere.

Di solito cerco di non guardare il nome nell’intestazione per non farmi influenzare in nessun modo da qualche preconcetto che, non si sa mai, potrebbe albergare nella mia mente.

Leggo, sottolineo, riscrivo le frasi, dopo averle corrette, nello spazio sulla destra del foglio, raccolgo le idee e poi stilo un giudizio, scrivo un voto, firmo e archivio momentaneamente tutta la faccenda.

Alla fine della correzione, quando ormai tutti i fogli sono impilati in bell’ordine sul tavolo, riprendo il plico e do un’ultima lettura per essere sicura di non aver tralasciato nulla.

I miei insegnanti usavano la matita rossa e blu: gli errori sottolineati in rosso erano veniali, per lo più semplici imprecisioni, gli errori più gravi erano sottolineati con un segnaccio blu molto imperioso, ma per fortuna i segni blu erano rari, io uso una penna rossa, molto meno imperiosa, ma nel cassetto conservo anch’io una matita rossa e blu, ma non amo usarla.

Correggere i temi non è solo un compito istituzionale, spesso la lettura rivela molto di ciò che passa per la testa dei miei ragazzi, mi permette di conoscerli meglio, qualche volta di comprendere meglio i loro pensieri, i loro desideri, le loro paure, il loro cuore.

Correzione

 

Le belle famiglie di una volta.

Si scatena la polemica contro “Kung fu Panda” colpevole di instillare la teoria “gender” nelle menti indifese dei nostri bambini: il Panda Po, infatti, avrebbe un padre adottivo che lo alleva da solo in mancanza della madre morta  per salvarlo, ma scopre, nello svolgimento della storia, di avere “anche” un padre biologico e si sa il fatto di avere due padri non va giù a molti.

E’ una triste storia, quella del Panda Po, ma tutt’altro che inaudita.

Altre storie, ben più vicine al nostro immaginario collettivo, andrebbero indagate attentamente e, nel caso, severamente censurate.

Vogliamo, una buona volta, squarciare il velo dell’omertà sulla famiglia di Paperino?

Paperino, o per l’esattezza “zio Paperino”,  ha tre nipoti che alleva più o meno amorevolmente nella propria casa , tre gemelli evidentemente omozigoti che si differenziano solo per il colore degli indumenti e rispondono ai nomi di Qui, Quo e Qua.

Anche nella famiglia dei paperi non esiste una madre anche se, a onor del vero, la madre nell’albero genealogico c’è e sarebbe una certa Della, sorella di Paperino, che avrebbe affidato i figli al fratello dopo che questi, mettendo un petardo sotto la poltrona del padre biologico, lo avrebbero ferito in maniera tanto grave da costringerlo ad un lungo periodo di degenza ospedaliera (vista la gravità dei fatti il condizionale è d’obbligo).

Sta di fatto che la madre è scomparsa dalle storie, quasi si trattasse di un caso di “utero” (pardon, di uova) in affitto.

I tre gemellini sono cresciuti (non troppo per la verità) allevati da uno zio e dal “Manuale delle Giovani Marmotte” in un universo quasi prevalentemente maschile, se non fosse per “zia” Paperina (l’eterna fidanzata di Paperino), più attenta  agli abiti e ai picnic che alla loro educazione, e per nonna Papera (in che senso “nonna” ? E’ la nonna di Paperino, ma anche di Qui Quo e Qua e persino zio Paperone la chiama “nonna”) che, per forza di cose, deve essere centenaria e poi deve occuparsi a tempo pieno della fattoria, delle torte e di Ciccio che certamente un’aquila non è.

E dire che questa famiglia, che definire strana è dir poco, viene raccontata ai nostri bambini fin dal lontano 1937.

Forse è il caso di prendere provvedimenti.

Cavenago Le foppe
 

La valigia sotto il letto.

Una volta un’amica, scherzando sulla nostra passione per i viaggi, ipotizzò che mio marito ed io avessimo sempre una valigia pronta alloggiata sotto il letto, pronta per ogni evenienza, pronta per un viaggio breve o lungo, per una fuga in una città d’arte o per una settimana di scarpinate nei boschi.

La valigia, in realtà, non c’era (sotto il letto voglio dire), ma la voglia di partire c’era sempre e, non appena si presentava l’occasione, non ci pensavamo su troppo.

Eravamo giovani allora, viaggiavamo spendendo poco e quando eravamo in giro non badavamo alle comodità degli alberghi di lusso o ai cibi raffinati, l’unica nostra preoccupazione era di non sprecare nemmeno un minuto della vacanza (breve o lunga che fosse) e di riempirci gli occhi di paesaggi, di monumenti, di impressioni.

Sapevamo che ad ogni passo, ad ogni sguardo stavamo costruendoci un castello di ricordi che ci avrebbero accompagnato negli anni in cui non si ha più tanta voglia di viaggiare.

Poi, quando siamo invecchiati un po’, abbiamo cominciato a viaggiare in modo più tranquillo, senza lo zaino, ma con un comodo trolley, prenotando per tempo alberghi confortevoli e treni superveloci, magari concedendoci qualche passaggio in taxi e qualche sosta un po’ più lunga, seduti su una panchina a veder passare il mondo o a un tavolino di un caffè.

Ma lo sguardo attento e il desiderio di vedere, di conoscere, di capire non sono invecchiati e fino a quando è stato possibile abbiamo continuato a partire insieme e a viaggiare insieme.

Vicenza

 

“Casta fuit, domum servavit, lanam fecit”

Una famosa epigrafe funebre del II sec. a.C. elogia una defunta della quale ci sono giunte, attraverso i secoli, le preclare virtù domestiche: “Fu casta, governò la casa, lavorò la lana”, che suona un po’ come l’impietoso “vai a casa a fare la maglia” che ogni tanto sfugge a qualche ometto a corto di argomenti dialettici.

A ben guardare l’invito rivolto a Giorgia Meloni (“Pensi a fare la mamma”) rientra in questa logica, la logica che vorrebbe le donne sempre relegate ad un ruolo di second’ordine come se le donne non avessero più volte dimostrato di essere multitasking, di saper governare la casa, allevare i figli, prendersi cura degli anziani e dei malati e intanto svolgere una professione a tempo pieno.

Una donna può essere impegnata in un lavoro magari di responsabilità, magari fino a sessantasei anni, ma è meglio che non si cimenti in compiti di governo, in ruoli di potere: quelli toccano di diritto agli uomini (che possono sempre contare su una donna che mandi avanti la casa, allevi i figli, curi anziani e malati eccetera eccetera).

“Che la tasa, che la piasa, che la staga a casa”…

… quanta strada devono fare ancora le donne…

Milano-Expo 2015

Ankara.

Nel mio viaggio in Turchia ho visitato Ankara solo di sfuggita, provenendo da Istanbul e poco prima di prendere la strada per la Cappadocia, ma, mentre l’aereo sorvolava il centro abitato, ho avuto l’impressione di una città più ordinata e meno fantasiosamente esuberante  di Istanbul, una città nel centro della steppa anatolica eppure ricca di spazi verdi.

Ho visitato il “Museo delle Civiltà Anatoliche” che  si trova non lontano dalla Cittadella e ospita una ricchissima collezione ittita, assira, frigia e romana, nonché’ reperti che risalgono al paleolitico e al neolitico, un museo ben organizzato e molto fruibile tanto è vero che nel 1997 è stato premiato come ” museo europeo dell’anno“.

Poi prima di partire ho potuto vedere il Mausoleo di Ataturk, monumentale e un po’ trionfalistico, ma impressionante e comunque utile per conoscere lo spirito di un popolo.

Il poco che ho visto di Ankara mi è piaciuto e mi spiace che, oggi, anche questa grande città sia stata oggetto di un gravissimo attentato terroristico, come purtroppo è successo molte volte negli ultimi tempi nei luoghi più affollati della Turchia, un attentato che rende la nazione una meta sconsigliabile per chi voglia viaggiare in tutta serenità.

Provo cordoglio per le vittime e dolore per un paese che ho visitato di recente e che mi è entrato nel cuore per la bellezza dei suoi paesaggi, per l’importanza della sua storia e della sua civiltà e per la cordiale accoglienza dei suoi abitanti.

Ankara

Atmosfere Art Nouveau.

Alfons Mucha, l’artista di origine morava a cui è dedicata una ricca mostra a Palazzo Reale, è uno dei più rappresentativi protagonisti dell’Art Nouveau, il movimento artistico nato tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento che in Italia prese il nome di Liberty o Stile Floreale.

Il movimento trae le sue origini dall’ideologia  anglosassone delle “Arts and_Crafts“, che esaltava la creazione dell’artigiano  come unica alternativa alla meccanizzazione e alla produzione industriale in serie di oggetti considerati dozzinali. L’Art Nouveau partendo da questa idea aprì la strada al design e all’architettura moderna.

L’opera di Mucha, che va dalla cartellonistica pubblicitaria, ai pannelli decorativi, al design di gioielli, all’allestimento di interni, pone al centro delle creazioni grafiche la linea curva e sinuosa che disegna figure femminili eleganti ed eteree, abbigliate con lunghe vesti fluttuanti, come fluttuanti sono le chiome che diventano, a loro volta, elementi decorativi.

Soprattutto nei manifesti pubblicitari i colori sono tenui, le scritte studiate nei minimi particolari ed è evidente una grande cura dell’autore nella supervisione del processo di stampa.

Le sue figure femminili, mai volgari, ma anzi quasi “angelicate” sono entrate nell’immaginario collettivo con i puzzle, coloratissimi e complessi” ispirati alla sua opera che andavano di moda qualche anno fa.

La mostra, molto affollata ed allestita purtroppo in uno spazio piuttosto ristretto che non consente di poter ammirare le opere come meriterebbero, chiuderà il 20 marzo.

Milano

Storie.

Ogni tanto, quando passeggio per le vie di una città, mi ritrovo ad osservare le facciate degli edifici, affascinata dalle finestre che si aprono sulle pareti come tanti occhi: occhi spalancati o socchiusi, occhi che ammiccano al sole, occhi nei quali si riflette il mondo e che mutano di colore al mutare del colore del cielo.

Mi piace guardare le finestre e raccontarmi storie, le storie delle persone che dietro quelle finestre vivono e attraverso quei vetri si affacciano sul mondo che ruota intorno a loro.

Immagino esistenze, storie di dolore, piccoli grandi drammi quotidiani, vite quiete e tranquille che scorrono calme come un grande fiume, sorrisi e giochi di bambini, occhi che scrutano la via in attesa di un ritorno.

Qualche volta una tendina di merletto, un vetro opaco, un fiore al davanzale, una persiana scrostata mi raccontano qualche particolare in più, mi regalano qualche indizio che confermi il racconto che si va dipanando nella mia fantasia.

La mia non è curiosità, non ho il desiderio di trovare conferme alle mie storie, anzi forse conoscere la realtà toglierebbe un po’ di fascino alla magia dell’immaginare, alla magia di quel lampo che attraversa veloce la mente e costruisce, in una frazione di secondo, un racconto lungo una vita.

Roncole Verdi
 

Ave Cesare.

La Hollywood del 1951, il nuoto sincronizzato alla Ester Williams, i peplum con i fondali di cartapesta (sullo stile “La tunica” o “Ben Hur” per intendersi), un George Clooney in costume da centurione per tutta la durata del film, la coreografia dei marinaretti in stile Gene Kelly, il gossip asfissiante, le dive capricciose, il cowboy rozzo e imbranato e, a legare il tutto, una giornata di lavoro di un tuttofare, Eddie Mannix,  capace di risolvere ogni problema, capace di  affrontare ogni capriccio, ogni pettegolezzo, ogni inghippo, salvo poi confessarsi di continuo per ripulire la coscienza: questo è l’ amaro ed esilarante film “Ave Cesare“.

Restano impressi gli occhi vuoti e assolutamente inespressivi di George Clooney, il divo rapito da una improbabile cellula di sceneggiatori comunisti non ancora colpiti dalla scure del maccartismo, che remano, nella notte illuminata dalla luna, verso un sommergibile sovietico che emerge dai flutti accompagnato da una musica in stile coro dell’Armata Rossa.

Non c’è nostalgia, non c’è il ricordo dei bei tempi andati, c’è lo sguardo irriverente e cinico dei fratelli Coen, c’è un’incredibile abilità nel ricreare un mondo finto che più finto non si può.

Si ride, in sala, ma si ride amaro.