Archivio mensile:Febbraio 2016

Finalmente… l’oscar.

Finalmente l’oscar per la migliore colonna sonora premia Ennio Morricone (che pure nel 2007 era stato insignito dell’oscar alla carriera) e lo premia per una musica importante, per un film importante, come ha chiosato il Maestro stesso nel breve discorso di ringraziamento.

Ma come dimenticare che, forse, avrebbe meritato il tanto ambito riconoscimento anche per la colonna sonora di Mission o  per le musiche de “Gli Intoccabili“?

L’oscar assegnato questa notte ha un po’ il gusto del risarcimento per tante occasioni mancate, per un riconoscimento meritato già in passato, per le nomination senza coronamento ed il pubblico, tutto in piedi, ha sottolineato la stima e l’affetto che circondano il grande musicista italiano giunto ai sessantanni di carriera.

Ma nella notte degli oscar c’è stato un altro “finalmente”: quello per il premio al miglior attore assegnato a Leonardo Di Caprio, un premio spesso sfuggito ad un artista di talento, che ha dimostrato di sapersi calare in ruoli difficili ed impegnati (come quello di ” The Aviator“, uno dei miei preferiti) e che forse è stato troppo a lungo penalizzato dall’aspetto di ragazzino “bello e basta”.

Decisamente non sono molto “social”.

Mi sono iscritta a Facebook diversi anni fa (credo nel 2008) più che altro perchè mi sembrava un buon mezzo per ritrovare persone di cui avevo perso le tracce come vecchi compagni di liceo e di università o colleghi trasferiti in altre scuole, amici andati a vivere lontano, ex allievi ormai cresciuti.

Facebook mi ha permesso di riallacciare qualche legame sfilacciato, ma anche di restare in contatto con le persone che vivono vicino a me, ma che non ho occasione di incontrare spesso.

Benché frequenti la mia pagina abbastanza assiduamente in realtà mi rendo conto di non essere molto social: in generale pubblico solo i post del mio blog, condivido pochissimi post (quelli che mi sembrano veramente interessanti o divertenti), pubblico poche foto, di solito non racconto dove mi trovo, cosa faccio, cosa sto mangiando o bevendo (a meno che non stia facendo qualcosa di particolarmente originale, come imbarcarmi su una mongolfiera in Cappadocia, per esempio) e gli auguri di buon compleanno preferisco farli di persona (se posso).

Soprattutto non amo copiare e incollare messaggi vagamente minacciosi con i quali si sollecita una prova della mia amicizia: se ho accettato la tua amicizia vuol dire che mi interessi, che ti seguo, che leggo quello che scrivi (se ho tempo) e tanto dovrebbe bastarti, se invece hai bisogno di vedere un tuo post copiato e incollato per essere sicuro che ti sono amica, allora cancellami pure dai tuoi contatti.

Non amo nemmeno partecipare a discussioni su notizie più o meno sensazionali (spesso al sapore di “bufala”), prima, di solito, preferisco verificarne la fondatezza.

In fondo credo di vivere la realtà parallela di Facebook un po’ come vivo la mia vita di tutti i giorni: mi interesso alle persone, mi piace avere rapporti con gli altri, mi piace ascoltare, ma sono abbastanza riservata e cerco di non essere molto invadente, penso di avere delle idee (qualche volta) interessanti e degne di essere condivise, ma non credo che tutto quello che penso e che sento debba essere per forza condiviso.

Soprattutto ogni tanto mi piace starmene da sola, in silenzio per pensare ai fatti miei.

profilo

 

Mi sa che Di Caprio…

Temo che anche quest’anno Leonardo di Caprio rischi di non vincere l’oscar come migliore attore e un po’ mi dispiace perché ormai da molti anni ha dimostrato, con interpretazioni come nel film Aviator, di non essere un attore “bello e basta”, ma un interprete sensibile e attento.

Quest’anno ha ottenuto la nomination dell’Academy per  l’interpretazione del cacciatore Hugh Glass nel film Revenant e, probabilmente, l’oscar lo meriterebbe, ma c’è un “ma”.

Ieri sera ho assistito alla proiezione di “The danish girl”, film che mi è piaciuto molto per come tratta il tema della transessualità, per la fotografia veramente suggestiva, ma soprattutto per l’interpretazione di Eddie Redmayne che ha saputo rendere la delicatezza del personaggio, la sua trasformazione, il mutamento che prima è interiore e solo in un secondo momento fisico e visibile con una abilità e una sensibilità davvero incredibili, riuscendo a rendere quasi con naturalezza il travaglio della ricerca e della scoperta della propria identità da parte del protagonista.

Come lo scorso anno, con l’interpretazione del fisico Stephen Hawking, che pure gli valse l’oscar come protagonista del film “La teoria del tutto“, l’attore britannico ha saputo entrare nel personaggio rendendolo assolutamente credibile, senza mai forzare, senza mai recitare sopra le righe.

Penso che Di Caprio possa solo contare sul fatto che è molto raro che un attore riesca a vincere l’oscar per due anni consecutivi per la stessa categoria.

Senza tempo.

Far digerire l’Iliade a dei ragazzini di undici anni che vivono in questa epoca, tra smartphone e videogames, non è facile: il linguaggio (soprattutto quello della traduzione di Vincenzo Monti) è oscuro quasi come una lingua straniera, la costruzione dei periodi è ardita e anche la storia, in sè, è lontana dai loro interessi e dalla loro sensibilità

L’ira di Achille, offeso dalla prepotenza di Agamennone, non li appassiona, gli infiniti duelli a lungo andare li annoiano, il senso del destino incombente è lontano anni luce dalla loro sensibilità.

Nel mare magnum del poema omerico c’è però una gemma senza tempo che riesce sempre ad affascinare anche i ragazzini di oggi: l’episodio di Ettore che, presso le porte Scee, incontra per l’ultima volta la moglie Andromaca e il figlio Astianatte poco prima di gettarsi di nuovo nella mischia.

Il breve dialogo crea una specie di cerchio magico: intorno c’è la guerra, ci sono le urla dei combattenti e i gemiti dei moribondi, ci sono sangue e dolore, ma lì, nell’occhio del ciclone, c’è un attimo di affetto, di tenerezza e di quiete, c’è un padre che si toglie l’elmo per non spaventare il suo bambino prima di prenderlo tra le braccia, c’è la speranza di riuscire, con la forza dell’amore, a scongiurare un destino ormai scritto.

Ettore per un attimo non è più un personaggio, ma una persona in carne, ossa ed emozioni.

Poi ricomincia la lotta, Ettore torna ad essere il guerriero fortissimo e spietato che guida l’estrema resistenza del suo popolo, torna ad essere una figura lontana e difficile da comprendere, ma l’eco delle sue parole e dei suoi gesti lo accompagna fino alla fine del poema.

Laodicea (Turchia)

Memoria e migrazioni.

Il “Galata, Museo del mare” di Genova dedica una sezione, intitolata “Memoria e migrazioni” alle storie dei migranti di oggi e di ieri(la conclusione dei lavori di riallestimento è prevista per il mese giugno 2016).

Si tratta di una raccolta di documenti sulle vite di quanti lasciano il loro paese in cerca di un futuro e di una vita migliore, come succede oggi a tanti che sfidano il mare per raggiungere le nostre coste, come succedeva ai nostri connazionali nel secolo scorso.

Possiamo  trovare fotografie e memorie degli italiani emigrati all’estero  anche attraverso la documentazione di chi, a Ellis Island, decise di raccogliere e catalogare le testimonianze, le immagini e le storie di quelli che venivano descritti dalle cronache dell’epoca come clandestini “mafiosi, dediti all’ozio e alla malavita”.

Leggendo le testimonianze di allora e di oggi scopriamo che la storia si ripete, le speranze, le aspirazioni, i sogni sono gli stessi.

E genova, città di mare, porto di partenza per un viaggio verso il futuro è la sede ideale per raccontare questa storia.

Le note tristi di “Ma se ghe penso“, la celebre canzone dialettale ligure, raccontano, con struggente malinconia, la povertà, la necessità di partire, il desiderio di tornare a casa che pervade la mente e il cuore di tutti i migranti.

Milano - Expo 2015

Mani in seconda.

“Mani in seconda” era l’ordine perentorio che ci impartiva la maestra una volta che, dopo essere entrate silenziosamente in classe, dopo aver recitato le preghiere, in piedi sull’attenti di fianco al banco, finalmente ci sistemavamo sui sedili, aprivamo la ribaltina del tavolo per sistemare i quaderni e i libri, infilavamo il pennino nella cannuccia e la posizionavamo nell’apposita scanalatura vicina al calamaio, che una mano misteriosa aveva riempito fino all’orlo.

“Mani in seconda” e noi sedevamo impettite, bocca chiusa e sguardo fisso in avanti, con le dita intrecciate dietro la schiena.

Ma l’immobilità durava poco: eravamo una trentina di bambine, tutte vestite con il grembiulino bianco e il fiocco azzurro, allineate come tanti soldatini, addestrate alla disciplina, ma, dopo poco, con la coda dell’occhio cercavamo le amichette con cui scambiare sguardi complici e sorridenti, cercando di non farci contagiare dalla voglia matta di scoppiare in una risata irrefrenabile, perchè nessuna di noi avrebbe mai accettato di essere la prima a rompere il silenzio e l’immobilità.

Daniela, Lauretta, Wally, Marina erano lì, vicinissime a me, avremmo voluto chiacchierare, continuare i racconti che riempivano i nostri pomeriggi quando, con la scusa di fare i compiti insieme, ci trovavamo a casa dell’una o dell’altra e poi finivamo per inventare storie incredibili ed infinite attorno ai biscotti che la mamma di turno ci aveva portato per merenda, avremmo voluto chiacchierare, ma ce ne stavamo quiete, fermissime, impegnate in quel “gioco del silenzio” che la maestra ci sfidava ad osservare.

Poi la maestra ordinava “Mani in prima” e le nostre mani scivolavano sul banco, pronte ad afferrare la penna o la matita, pronte ad iniziare una nuova giornata di lavoro.

milano scuola elementare 1963 64

Passi.

Tutti sanno che camminare fa bene e secondo studi recenti basterebbero diecimila passi al giorno perchè  l’intero sistema cardiovascolare si mantenga in  equilibrio.

Non so se sia vero che diecimila passi al giorno, tutti i giorni, senza forzare troppo, siano  un toccasana, so però che quando riesco a trovare il tempo per camminare un po’ (per un’ora più o meno) poi mi sento di buon umore, mi sembra di avere più energia, mi sento magari un po’ stanca, ma contenta.

Se poi mi trovo a camminare in un paesaggio piacevole, al cospetto di un panorama che cattura lo sguardo, allora i passi si susseguono senza sforzo e la mente può vagare libera.

L’esercizio fisico fa bene, aiuta il corpo a mantenersi in forma, ma la bellezza fa bene agli occhi e alla mente e aiuta a mantenere in forma l’umore e la gioia di vivere (e scusate se è poco).

Piani di Artavaggio

Milanes arius.

“L’è un milanes arius”, sussurrava la mia nonna, sempre un po’ tranchant, quando al suo orecchio allenato (e un po’ snob) di meneghina doc arrivava per caso qualche frase pronunciata da una persona arrivata in città dalla provincia, dalla campagna, magari dalla Brianza.

Anch’io mi accorgevo delle differenze nei dialetti, apparentemente, ma solo apparentemente, simili, sentivo le vocali pronunciate in modo diverso e capivo che, anche se comprendevo le parole, quello non era il dialetto che si parlava in casa mia.

Erano i dialetti leggermente diversi dei milanesi “arius” (ariosi) e a me quell’aggettivo “arius” faceva un effetto particolare, mi parlava di campagna, di campi bordati di filari di alberi, di aria aperta, di quell’aria aperta che a me, bambina di città, mancava sempre un po’ e che ritrovavo quando mio padre ci portava a trovare i suoi amici d’infanzia che vivevano in una grande cascina dalle parti di Inverigo.

Allora correvo sui prati, rotolavo giù dalle balze delle colline e mi sporcavo di fango, di terra e di erba e respiravo a pieni polmoni quell’aria libera e aperta, profumata dei mille odori della campagna.

Le vicende del lavoro e della vita mi hanno portato a vivere fuori dalla città e così oggi sono anch’io un po’ “ariosa”: lo comprendo veramente solo in giornate come questa, con il cielo limpido e i primi tepori e la campagna che si spalanca fino all’orizzonte, bordata dalle montagne ancora coperte di neve.

Cambiago

Mancanze.

Nella mia storia di lettrice ci sono libri che ho amato particolarmente e ho letto e riletto tante di quelle volte da renderli praticamente inutilizzabili.

Tra questi uno è “Il nome della rosa” il giallo storico dove i personaggi vengono assassinati con la feroce regolarità di un romanzo di Agatha Christie, mentre il detective è lo splendido Guglielmo da Bskerville (…da Baskerville! appunto), uno Scherlock Holmes in abiti monastici, acuto e intelligente, ma anche ironico e compiaciuto della propria capacità deduttiva.

Ma “Il nome della rosa” non è solo questo,  è anche una enorme biblioteca, come quella dell’abazia che brucerà alla fine della storia, in cui echeggiano citazioni e suggestioni di altri libri, che si susseguono e dialogano fra loro,  che appaiono via via più nitide ad ogni nuova rilettura, quando la suspense lascia il posto al piacere dell’intelletto.

Un altro romanzo che ho amato tantissimo è “Il buio oltre la siepe“,  la narrazione di una vicenda di razzismo e pregiudizio, ambientata a Maycomb, una sonnolenta ed immaginaria cittadina di una altrettanto sonnolenta e conformista contea dell’Alabama, narrata con la voce attenta di una bambina, Scout, che proprio nello svolgimento del racconto si affaccia al modo degli adulti e impara a comprendere i meccanismi.

Che nello stesso giorno siano mancati Harper Lee e Umberto Eco mi lascia un incredibile senso di vuoto.

Sacra di San Michele

 

Nel ghetto.

Il Ghetto di Venezia celebrerà, nel futuro mese di marzo, il mezzo millennio di storia visto che, proprio il 29 marzo 1516, il Senato della Serenissima stabilì che i numerosi ebrei, giunti in città in seguito alla guerra della lega di Cambrai, che avevano aumentato considerevolmente la comunità ebraica già esistente in città destando sospetto e preoccupazione fra i cittadini, dovessero essere confinati in un’area, nel sestiere di Cannaregio, dove precedentemente sorgevano le fonderie.

La zona, in origine chiamata “getto” (“ghetto” nella pronuncia degli ebrei di origine tedesca), è praticamente un’isola dove furono relegati gli ebrei e che fu chiusa da cancelli, ma questo non ne impedì la crescita demografica  per cui, oggi, il ghetto presenta un aspetto caratteristico con edifici alti anche otto piani addossati uno all’altro.

Il Ghetto ha un fascino particolare perchè, ancora oggi, ha l’aspetto di una zona tranquilla e silenziosa, quasi isolata dal resto della città, un po’ defilata rispetto ai più tipici itinerari turistici, ma merita una visita sia per il Museo ebraico, sia per le numerose sinagoghe, sia per l’atmosfera che si respira non appena si passa il sottoportico che conduce dalla Fondamenta Pescaria al quartiere e che porta ancora i segni dei cardini dei cancelli che venivano chiusi al tramonto.

Proprio per la sua antichità e per la sua peculiarità il quartiere ha dato il nome a quelle zone  delle città in cui, in molti luoghi e in molti tempi, sono relegate minoranze etniche o sociali emarginate: in qualche modo il Ghetto di Venezia è l’archetipo di tutti i ghetti della storia.

Penso che a breve tornerò a fare un giro da quelle parti.

Venezia Il Ghetto