Archivio mensile:Febbraio 2019

Sono solo canzonette.

Il dopo festival, come tutti gli anni, è il momento non solo dei commenti, più o meno taglienti, ma anche delle recriminazioni, delle ripicche, delle discussioni infinite (nei salotti televisivi) su chi doveva vincere e non ha vinto e viceversa.

In alcune occasioni, nella platea dell’ Ariston, nella sala stampa e fuori ci sono stati momenti di clima da stadio, come ormai troppo spesso succede in tante situazioni in cui si evidenzia una contrapposizione, quando chi la vede in modo diverso da noi diventa non solo un avversario, ma un nemico da ridicolizzare, da offendere, da demonizzare.

In fondo Sanremo è una competizione tra canzoni (e non tra cantanti) con un regolamento precise, la canzone vincitrice lo è secondo le regole ed è una inutile immaginare esiti diversi con regole diverse.

Lo scalpore sollevato dall’esito del festival mi sembra, francamente, degno di miglior causa, in fondo, per dirla con Bennato, “sono solo canzonette”.

Mucca musicale

Una tentazione.

Lo ammetto: anche se non guardo spesso la televisione sono una delle migliaia di fan del commissario Montalbano, il personaggio di Camilleri che, per me, ha il volto, la voce e le espressioni di Luca Zingaretti tanto che, anche quando leggo i romanzi, non riesco ad immaginare un altro volto.

Vedo volentieri gli episodi (e ogni nuova stagione è un vero e proprio regalo) anche perchè ritrovo alcuni angoli di Sicilia di cui mi sono innamorata nel mio recente viaggio nell’Isola e risento il calore e i profumi di quella terra magica.

Durante il viaggio ho visitato i luoghi di Montalbano, la casa di Punta Secca, gli angoli di Ibla e il Municipio di Scicli dove è ambientato il commissariato.

La porta dell’ufficio di Montalbano reca, sugli stipiti sbeccati, i segni del passaggio del mitico Catarella e devo confessare che, durante la visita, ho provato la forte tentazione di catapultarmi contro quella porta.

Ma forse gli altri visitatori mi avrebbero guardato male.

Scicli (Sicilia)

Pensionate d’assalto.

Raggiunto l’agognato traguardo della pensione, dopo un primo momento di straniamento, si comincia a capire che è il caso di organizzare il tempo a disposizione che, all’improvviso, si dilata e sembra quasi rallentare.

Ci si sveglia un po’ più tardi, si può indugiare un po’ al bar davanti ad un caffè in compagnia di qualche amica, si può leggere qualche libro in più, si può passeggiare e ci si può dedicare finalmente alle attività e agli interessi trascurati durante gli anni di studio e di lavoro.

E così abbiamo creato un gruppetto di ex colleghe che, più o meno ogni due settimane, calano a Milano per visitare mostre e musei o, più semplicemente, per godersi l’atmosfera della città.

Con l’Abbonamento dei Musei della Lombardia in tasca si spalancano molte porte e allora si parte alla mattina (non troppo presto, mi raccomando) si raggiunge una stazione della metropolitana e poi ci si riempie gli occhi di bellezza.

Intorno a mezzogiorno si cerca una trattoria o qualche locale storico per un pranzetto veloce e rilassato e si riparte per un’altra visita.

E’ piacevole avere del tempo per scoprire le bellezze della città così vicina, ma spesso così sconosciuta.

Milano - Villa Necchi Campiglio

Nel Quadrilatero del Silenzio.

A Milano tutti, anche i turisti “mordi e fuggi”, conoscono il “Quadrilatero della Moda”, le vie eleganti su cui si affacciano le vetrine dei negozi più prestigiosi, ma pochi hanno dimestichezza con il “Quadrilatero del Silenzio”.

Si tratta di un quartiere, parallelo a Corso Venezia, lontano dal traffico e dai rumori della città, quieto e tranquillo, ricco di una ricchezza discreta, celata dietro alle fitte siepi che costeggiano via Mozart, via Vivaio,, via Cappuccini e via Serbelloni.

Qui sorgono edifici liberty di rara bellezza, la Villa Necchi Campiglio, raffinata e modernissima, anche se risale agli anni ’30, Palazzo Serbelloni con l’ orecchio di Wildt che funge da citofono e, soprattutto, il giardino segreto di villa Invernizzi con i suoi fenicotteri rosa.

Non è raro incontrare, lungo la cancellata, i passanti che si trattengono, incantati, ad ammirare gli uccelli che zampettano pieni di sussiego intorno ad una vasca.

Vale la pena di fare quattro passi tra queste vie che offrono un’immagine della città così insolita, lontana anni luce dalla “Milano da bere” di buona memoria.

Milano - Fenicotteri a Porta Venezia

Vestivano alla marinara.

“Vestivamo alla marinara” è un libro che amo molto, scritto da Susanna Agnelli racconta gli anni dell’infanzia e della giovinezza sua e dei fratelli, che, vestiti rigorosamente alla marinara, passeggiavano sotto i portici di Torino senza farsi distrarre dalle vetrine delle lussuose pasticcerie, senza ciondolare, allineati e composti, guidati dall’inflessibile Miss Parker che ripeteva come un mantra “Don’t forget you are an Agnelli”.

Mi affascinano questi ricordi dei primi anni del secolo scorso in cui i bambini non erano veramente bambini, ma “piccoli” adulti, non erano al centro del mondo come oggi, non avevano molti diritti, non dovevano parlare se non interrogati, dovevano stare seduti composti ed imparare a muoversi con disinvoltura in un mondo fatto di molte regole.

Quando riguardo le vecchie foto mi soffermo sempre su un cartoncino un po’ opaco che ritrae mio nonno all’età di sette o otto anni, con il faccino serio serio, un vestito buffo nella sua pomposa eleganza, il cappello alla marinara, il cerchio in una mano e l’altra posata languidamente su una roccia di cartapesta che forse, nelle intenzioni del fotografo, doveva conferire all’immagine un’atmosfera di romanticismo, solo le scarpe, un po’ consunte, raccontano di un’agiatezza solo simulata (spesso mi chiedo quanto sia costata quella foto scattata nei primi anni del secolo scorso).

Lo sfondo, evidentemente posticcio, raffigura una balaustra affacciata sul nulla.

So, dalle storie di famiglia, che mio nonno era un bambino amatissimo (figlio unico di una giovane coppia che avrebbe voluto una prole ben più numerosa) eppure la sua espressione non ha nulla di allegro e di spontaneo, la sua postura un po’ rigida tradisce un certo imbarazzo.

Spesso mi chiedo come reagirebbero i bambini di oggi in questa situazione.

nonno

Un mondo di dolcezza.

In genere tra “dolce” e “salato” preferisco di gran lunga il salato, tra una fetta di torta e un trancio di pizza non ho dubbi, ma qualche volta mi capita di entrare in una pasticceria, magari in un locale storico di grande tradizione, e allora mi lascio stregare non tanto e non solo dai sapori, ma soprattutto dai profumi, dai colori, dalle forme eleganti dei dolci .

Mi incanto davanti alle vetrinette dove i dolci sono allineati con perizia e, anche se non mi lascio tentare e non acquisto nulla, mi piace ammirare i pasticcini, soprattutto a base di cioccolato e frutta secca o canditi, così lucidi ed aromatici.

Mi piace immaginare la passione, la creatività e l’abilità delle persone che, celate in un laboratorio del retrobottega, preparano le prelibatezze che si offrono agli occhi e al palato.

Milano

Ai tempi della carta.

Quando gli smartphone erano di là da venire, prima che i navigatori satellitari e le app come “Google Maps” entrassero nella nostra vita quotidiana, per orientarsi in un luogo ignoto c’erano le mappe e gli atlanti stradali, rigorosamente cartacei.

L’esperienza di consultare una mappa spalancata fra le mani, fermi all’angolo di due strade di una città straniera, tra i passanti incuriositi e un po’ seccati, nel vano tentativo di decifrare i nomi delle vie ( più si viaggiava verso est, più la cosa si faceva interessante) è unica e irripetibile e un po’ mi dispiace che i “nativi digitali” ne siano privati.

Oggi basta impostare la destinazione e seguire le indicazioni, senza alzare gli occhi dallo schermo dello smartphone per non rischiare di perdersi, una volta invece bisognava squadernare la mappa (ripiegarla poi era un altro paio di maniche, quando mi cimentavo nell’impresa invariabilmente producevo dei fantasiosi origami ), individuare la propria posizione, orientare il foglio e procedere per tentativi (ed errori).

Nelle città fondate dai Romani il gioco era abbastanza semplice, perché i fondatori tracciavano un cardo e un decumano e poi tutte le altre strade rigorosamente perpendicolari e parallele e, di conseguenza, risulta facile orientarsi in una scacchiera.

Le città medievali, invece, rappresentavano una sfida continua con le loro viuzze tortuose, ma perdersi in certi quartieri dall’aspetto quasi magico era piacevole.

Oggi il progresso ha eliminato quasi completamente la possibilità di smarrirsi sempre che, ben inteso, la batteria dello smartphone non ci abbandoni.

Verso Venezia - Treno storico

Baggage claim.

Si tratta di una sorta di gioco di società, inevitabile quando si viaggia e la vacanza è troppo lunga per accontentarsi del bagaglio a mano (che per alcune compagnie aeree diventa sempre più microscopico).

La scena è sempre la stessa: l’aereo tocca terra, non si è ancora fermato del tutto, l’indicazione di “cinture allacciate” è ancora accesa, ma tutti sono già in piedi e intasano lo stretto corridoio della cabina, tolgono il bagaglio a mano dalle cappelliere e si precipitano, incastrandosi inevitabilmente, verso le uscite.

Poi c’è l’assalto al bus navetta che, tanto, anche se si corre non parte prima, prima che sia salito anche l’ultimo passeggero del volo.

Finalmente si entra in aeroporto e, se non si deve fare la fila per il controllo documenti, c’è l’assalto al nastro trasportatore per ritirare i bagagli.

Negli aeroporti più piccoli i nastri sono pochi, recano sullo schermo il numero del volo e la provenienza e sono sempre inesorabilmente immobili, negli aeroporti più grandi trovare il nastro giusto è una specie di caccia al tesoro.

Alla fine, individuato il nastro trasportatore giusto, comincia l’attesa che è sempre accompagnata da una sottile inquietudine: il timore che tutti nutrono, infatti, è che l’agognata valigia sia andata a farsi un giro turistico in un aeroporto a migliaia di chilometri di distanza.

Poi il nastro, con una lentezza struggente, comincia a muoversi e cominciano ad apparire le prime valigie che hanno sempre un aspetto dimesso, come se fossero arrivate a destinazione a piedi.

C’è una sorta di gioia irrefrenabile nell’individuare il proprio bagaglio (le mie valigie sono quasi sempre le ultime ad arrivare, quando ormai il traguardo è stato smontato) e chi ha questa fortuna afferra l’oggetto del desiderio e si allontana dal nastro con aria trionfante.

Quando ormai sono rassegnata all’idea di individuare un negozio di biancheria e una farmacia arriva anche la mia valigia, tiro un sospiro di sollievo e guadagno l’uscita.

Aeroporto di Orio al Serio

Il fascino dei souvenir.

La parola, in francese, significa ricordo, memoria ed effettivamente gli oggetti, qualche volta inesorabilmente kitsch, che chiudiamo in valigia al termine del viaggio sono ganci per la memoria, che dovrebbero, nelle nostre intenzioni, farci rivivere le emozioni dei luoghi che abbiamo visitato e delle esperienze che abbiamo vissuto.

Gli oggetti che acquistiamo e che lontano da casa ci sembrano così appetibili spesso, al nostro ritorno, restano un po’ negletti su uno scaffale a coprirsi di polvere.

Alzi la mano chi non è mai stato tentato da un cavallino di Murano, da un magnete multicolore, da un piatto in ceramica fabbricato in serie in una industria a migliaia di chilometri.

Dopo tanti anni ho imparato a controllare lo shopping compulsivo, al massimo mi limito ad acquistare qualcosa da mangiare (o da bere) che mi riporti i sapori del viaggio e una piccola palla di vetro, con la neve, che però non è un souvenir vero e proprio, ma un oggetto da collezione (inesorabilmente kitsch, d’accordo, ma nessuno è perfetto).

Tra le sfere che occupano una mensola della casa in montagna ce n’è una particolare che mi è stata regalata da un’amica proprietaria di un negozio di souvenir: si tratta di un oggetto di grandi dimensioni che contiene una replica del David di Michelangelo su cui si posa una coltre di neve.

Peccato che sul basamento ci sia scritto “Venezia”

Venezia Maschere