Archivio mensile:Novembre 2014

Pioggia e ancora pioggia.

Continua a piovere su tutto il nord, ormai da giorni, piove ancora dopo una brevissima tregua e la fugace apparizione di qualche ora di sole, piove come se non dovesse smettere più e il rumore delle gocce che rimbalzano sull’asfalto lucido, sui tetti, sulle foglie secche è diventato la colonna sonora di queste giornate.

Ogni tanto, in fondo, il suono acuto di una sirena interrompe la monotonia della pioggia.

I corsi d’acqua, anche quelli che, di solito, sono poco più che rigagnoli, si ingrossano e tracimano invadendo le strade, ad ogni passaggio le automobili sollevano ondate e i tergicristalli non riescono più a consentire un po’ di visibilità.

Ogni tragitto, anche breve, diventa una vera e propria avventura e a poco valgono i consigli di usare i mezzi pubblici visti i problemi di Milano con le strade invase dall’acqua, le stazioni della metropolitana inagibili i tram e gli autobus costretti a procedere a passo d’uomo.

Sicuramente si tratta di una situazione meteorologica eccezionale, ma è inammissibile che buona parte del nord Italia sia paralizzata, con l’incubo di frane, crolli e alluvioni.

Cavenago di Brianza - Autunno

C’erano un inglese, un tedesco e un italiano.

Ci sono centinaia di barzellette che cominciano così, ma oggi non si tratta di una barzelletta, si tratta di un grande trionfo della ricerca e della scienza, per una volta ancora sono europei i protagonisti di questa impresa e gli italiani sono in prima fila.

Al di là dell’importanza scientifica e tecnica della missione Rosetta, che pure è di grande rilievo e la cui portata storica forse non è stata ancora ben compresa, c’è un altro aspetto di questa impresa che mi ha colpito.

Cento anni fa e poi settanta anni fa gli europei erano impegnati in altre faccende, sicuramente più cruente, cento anni fa si sparavano addosso, oggi invece collaborano e riescono ad ottenere insieme grandi successi come, per esempio, scendere sul cuore di una cometa a 511 milioni di chilometri dalla Terra.

E’ un successo di quella “cosa” strana e un po’ misconosciuta che chiamiamo Europa.

Strasburgo (Francia)

Come un geroglifico.

Quando fu scoperta la stele di Rosetta, la pietra che reca incisa un’iscrizione  in geroglifico, demotico e greco, si spalancò per gli studiosi la strada per interpretare gli ideogrammi egizi, molto probabilmente senza quel ritrovamento oggi gli egittologi brancolerebbero ancora nel buio.

Sarà per questo motivo che la sonda lanciata il 2 marzo 2004 dall’Esa è stata battezzata Rosetta.

La sonda Rosetta ha compiuto  viaggio di più di 6 miliardi di chilometri per raggiungere la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko  che ha incontrato, nello spazio, il 6 agosto di quest’anno.

La missione  consiste nel tallonare  la cometa nella sua orbita intorno al Sole, per studiarne la struttura e composizione e tentare di decifrare i meccanismi che causarono la nascita del sole e dei pianeti del sistema solare.

Domattina la sonda sgancerà un modulo automatico che andrà a posarsi sul nucleo della cometa, la discesa durerà quasi sette ore e rappresenterà una delle operazioni nello spazio più complesse mai tentate anche a causa della enorme distanza che impedisce al controllo della missione di operare in diretta (i comandi inviati dalla terra impiegheranno infatti più di mezz’ora per raggiungere quel puntino sperduto nello spazio).

Se l’operazione andrà come si spera il modulo inizierà a raccogliere ed inviare dati preziosissimi sulle comete, silenziosi, antichissimi testimoni dell’origine del nostro sistema planetario.

La sonda Rosetta, come la stele omonima, potrà forse aiutare gli studiosi a comprendere l’origine del nostro mondo e della vita.

Forse il misterioso geroglifico della origine di ciò che conosciamo sta per essere decifrato: buon lavoro Rosetta.

 

Ris, erburin e curada.

Gironzolando qua e là per la rete ho trovato la ricetta di un piatto della mia infanzia che avevo completamente dimenticato, un piatto che cucinava mia nonna alla sera e che mi piaceva molto: “ris, erburin e curada” (per chi non è nato sotto la Madonnina “riso, prezzemolo e polmone”).

Ero una bambina minuscola e dall’appetito adeguato alla mia mole per cui i miei genitori e i nonni facevano a gara per scovare qualche cibo che scatenasse il mio entusiasmo a tavola (impresa tutt’altro che semplice), inspiegabilmente la minestra della nonna, saporita e dall’aspetto invitante, mi piaceva e ne facevo vere e proprie scorpacciate anche se, probabilmente, non ho mai saputo, o non mi sono mai chiesta, che cosa diavolo fosse la “curada” che galleggiava nel brodo: mi piaceva e tanto bastava.

Si tratta di un piatto della tradizione meneghina che è scomparso dalle nostre tavole poco avvezze ad imbandire vivande considerate “povere”, così come sono scomparsi altri cibi che mangiavo abitualmente da bambina come il rognone trifolato o la cervella impanata, piatti scomparsi anche perché richiedevano una preparazione forse troppo lunga ed accurata per i nostri giorni.

D’altra parte non riesco ad immaginare i nostri ragazzini, assuefatti ai sapori da fast food, appassionarsi ad un piatto di cervella o ad una minestra a base di riso e polmone.

Io li ricordo ancora, con un filo di nostalgia, la nostalgia per un passato che era forse più povero, più semplice, più genuino.

Montevecchia
 

La notte dei cristalli.

Oggi Berlino festeggia il venticinquesimo anniversario della caduta del muro e l’inizio del cammino di riunificazione della Germania, si tratta di una giornata e  di una notte di festa, di una giornata e di una notte di palloncini luminosi, di luci e di suoni.

Si tratta anche di una giornata di pensieri e di parole importanti, come quelle pronunciate dalla cancelliera Merkel: «Noi abbiamo la forza di volgere le cose al bene: questo è il messaggio del Muro di Berlino».

Ben altri suoni, ben altre luci, ben altri pensieri attraversavano la Germania nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938: i suoni delle vetrine di settemila e cinquecento negozi ebraici ridotte in frantumi, le urla che possiamo immaginare di rabbia e di terrore, la luce sinistra degli incendi appiccati alle sinagoghe.

Quella notte fu tra i primi passi sul cammino di un orrore indicibile, il male più cupo che sembra impossibile poter volgere al bene, ma che sta là, nel passato del nostro continente come un monito oscuro, ma carico di significato.

Anche questo è un anniversario da ricordare, perché dal ricordo di quanto è successo possiamo trarre la forza per costruire un futuro di giustizia e di vera pace.

Campo di concentramento di Struthof (Francia)

Te lo ricordi quel muro?

La prima volta che vidi Berlino fu nell’agosto del 1971, avevo diciotto anni e la convinzione un po’ ingenua che la mia generazione avrebbe cambiato il mondo: lo dicevano le canzoni che cantavamo e gli slogan che urlavamo nelle piazze.

Il muro che attraversava la città mi colpì come uno schiaffo, non sopportavo quella striscia di cemento che, allora attraversava Berlino come una ferita, non sopportavo le strade che si interrompevano all’improvviso contro la barriera invalicabile, non sopportavo neppure l’allegra vivacità un po’ posticcia della parte occidentale della città.

Attraversare il muro implicava una lunga attesa per i controlli minuziosi, quanto inutili, dei nostri documenti e dei nostri effetti personali, quasi una punizione inflitta alla nostra curiosità di vedere il mondo dall’altra parte.

E dall’altra parte il mondo era grigio e vuoto, le strade e gli edifici dai colori spenti davano l’impressione di essere scivolati in uno specchio oscuro.

Conoscemmo dei giovani berlinesi, così simili a noi, in fondo cantavamo le stesse canzoni e vestivamo indumenti quasi uguali, ma così diversi nei modi di progettare il futuro.

Quando alla sera ci accompagnavano alla frontiera (perché i visti scadevano a mezzanotte) i loro occhi si perdevano dietro i nostri passi, c’era una tristezza un po’ rassegnata e non si trattava solo della tristezza della separazione, ma della consapevolezza che la loro strada si fermava lì contro quel muro che sembrava eterno e invalicabile.

Poi il muro crollò, il 9 novembre 1989, trascinato giù dal moto irrefrenabile della storia.

Io guardavo le immagini alla televisione e pensavo a loro, alla loro gioia, ma anche al loro improvviso smarrimento di fronte ad un mondo nuovo.

Oggi uno di quei giovani, ormai sessantenne come me, ogni tanto capita a casa mia nelle sue interminabili scorribande attraverso l’Italia che adora, e, davanti ad un bicchiere di buon vino, chiacchieriamo fino a tarda notte delle paure e delle speranze di oggi e di allora e di quel muro che tante sofferenze ha provocato e che oggi è solo una pagina dei libri di storia.

Passaporto

Einstein non ci sapeva fare col gelato.

Nel romanzo “Se il sole muore” di Oriana Fallaci, l’astronauta Pete Conrad racconta, alla giornalista che, quando era uno studente all’Università di Princeton, gli era capitato spesso di incrociare Albert Einstein.

Tra il divertito e il compiaciuto l’astronauta ricorda che una volta gli capitò di incontrarlo mentre passeggiava per il campus assaporando un enorme cono gelato ornato da una fragola matura, purtroppo, a causa di un movimento sbagliato, il gelato gli cadde di mano spiaccicandosi sul marciapiede, mentre il celeberrimo scienziato continuava a fissare il suo gelato ormai ridotto ad una miseranda brodaglia continuando ad imprecare.

Che Einstein non ci sapesse fare troppo con un cono gelato può essere una notizia divertente o curiosa o interessante, ma credo che nessun rotocalco dell’epoca abbia dedicato all’episodio un titolo, o un servizio fotografico o un trafiletto nelle ultime pagine.

Che un  ministro italiano, casualmente donna, casualmente giovane, casualmente graziosa, sia in grado di consumare senza difficoltà un gelato non mi sembra una notizia di rilievo, anzi, a ben guardare, non mi sembra neppure una notizia.

Che poi si approfitti di qualche scatto fotografico per imbastire un servizio “giornalistico” tanto volgarotto quanto inconsistente non mi sembra un fatto che meriti alcuna rilevanza.

Forse sarebbe stato preferibile ignorare il “reportage” , il rotocalco e la evidente provocazione.

Tutto il clamore che ha circondato la vicenda ha avuto, come unico risultato, di dare dignità di notizia ad una “cosa” (non saprei come definirla) che notizia non è.

Varenna

Lungo il fiume.

All’inizio della terza è ormai tradizione andare a visitare il villaggio operaio di Crespi d’Adda  camminando lungo il fiume a partire dalla splendida centrale idroelettrica Taccani di Trezzo.

Ieri la giornata era freddina e piovosa, i ragazzi procedevano lentamente lungo l’argine un po’ lamentosi, come succede spesso per i giovani virgulti quando sono costretti a muovere qualche passo a piedi, camminavano in gruppo chiacchierando e scherzando tra loro senza prestare troppa attenzione al paesaggio circostante preoccupandosi quasi unicamente della lunghezza del tragitto e della distanza dalla meta.

Ad un certo punto ho allungato il passo, lasciandoli un po’ indietro, non solo per costringerli a darsi una mossa, ma soprattutto perché mi piace camminare lungo il fiume accompagnata dai miei pensieri, perdendomi a contemplare gli scorci più pittoreschi,  rapita dalla bellezza dei riflessi che splende anche quando la giornata è piovosa e i colori sono spenti.

Così ho potuto scoprire ciò che i miei ragazzi, distratti dal loro stare insieme, non potevano vedere: la struggente bellezza del fiume in una mattina d’autunno.

Trezzo sull'Adda

Dal libro al film.

Non amo le trasposizioni cinematografiche dei romanzi di Agatha Christie (e mi risulta che non le amasse neppure la celebre scrittrice), mentre ho letto e riletto più volte le sue storie appassionandomi ogni volta alla incredibile attività di creare intrecci geniali ed atmosfere ricche di suggestioni.

Sono proprio le atmosfere che i film non riescono a riprodurre: non è facile infatti ricreare la quieta banalità di un salotto vittoriano, di una grande villa di campagna, di un albergo antiquato nel cuore di Londra dove sembra che nulla succeda, che la vita trascorra tra un tè delle cinque e un pranzo in famiglia nella più assoluta normalità, anche se le relazioni tra le persone raramente sono quelle che sembrano e sotto la quiete  apparente si agitano tensioni e malvagità che, fatalmente, portano al delitto.

L’autrice prende  per mano il lettore e lo guida attraverso il racconto senza nascondere nulla, ma barando senza alcuna clemenza così, alla fine, il povero malcapitato, irretito tra colonnelli in pensione e vecchiette zuccherose, tra giovani scapestrati e vicari un po’ svaniti, si trova improvvisamente al cospetto della soluzione del delitto assolutamente logica, ma altrettanto assolutamente inaspettata.

Sono convinta che le immagini siano poco adatte per raccontare il complesso districarsi della storia, le infinite sfaccettature dei personaggi (che rischiano di ridursi a grottesche macchiette), i profumi stantii e i colori un po’ spenti degli ambienti.

Per questo continuo a leggere i libri.

Omate Villa Trivulzio

Dachau.

La scorsa notte è stato perpetrato il furto della scritta “Arbeit Macht Frei” (il tristmente famoso “il lavoro rende liberi”) che si trovava sul cancello pedonale di Dachau, il lager a pochi chilometri da Monaco di Baviera.

Un fatto analogo  era già accaduto cinque anni fa per la scritta posta all’entrata del campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia, ad opera, si disse, di alcuni neonazisti con l’appoggio della piccola criminalità locale.

Che l’atto spregevole sia stato compiuto per rivendere l’insegna a qualche collezionista dell’orrore oppure per volontà di profanare la memoria della Shoah, poco importa.

Quello che importa è che non basta far sparire la scritta per cancellarne il ricordo, perchè è una scritta incisa nella mente e nel cuore di quanti perseguono la pace e la giustizia.

Dachau