Archivio mensile:Ottobre 2014

Rompicapo.

Quelli della mia generazione credo che se lo ricordino tutti: prima che venissero alla luce i giochi elettronici uno dei passatempo più diffusi era il malefico “Gioco del Quindici” (credo che si chiamasse così).

Si trattava di una tavoletta quadrata di plastica di pochi centimetri con una cornice che racchiudeva appunto quindici tesserine (anch’esse quadrate) numerate ed allineate in quattro righe e quattro colonne; si giocava rispettando una sola regola: utilizzando lo spazio libero si doveva far scivolare le tessere in modo da disporle in ordine numerico crescente.

Anche se non ho ricordi precisi mi sembra di averci giocato spesso, utilizzando strategie sempre più raffinate per muovere le tessere in modo da preparare la strada al risultato finale: in pratica disponevo le tessere dall’uno al quattro (ovviamente si trattava delle mosse più semplici) tenendo d’occhio già l’allineamento delle tessere seguenti.

Ci voleva una buona dose di pazienza e di autostima per contrastare il senso di frustrazione che sopraggiungeva allorquando, quasi alla fine delle operazioni, la tesserina con il numero quindici si infilava in una posizione sbagliata e per spostarla da lì bisognava rivoluzionare l’ordine costruito con tanta fatica.

Provavo e riprovavo senza cedere alla tentazione di far saltar fuori dalla sua sede una tessera e di infilarla poi al posto giusto, come qualcuno preso dalla disperazione faceva, perchè una specie di “senso dell’onore” mi impediva di barare.

Era un gioco un po’ sciocco, ma che ha contribuito ad insegnarmi che per ottenere il risultato desiderato (qualunque esso sia) non si possono prendere scorciatoie e bisogna metterci pazienza e impegno.

Poi è arrivato il “Cubo di Rubik“, ma ormai ero grande e non ho voluto neanche mai provarci a risolverlo (tanto ho sempre saputo che non ce l’avrei fatta).

In metropolitana.

Ora che è tornata l’ora solare la sera scende presto, quasi inaspettata per i nostri occhi abituati alla luce: l’orologio segna un’ora ancora pomeridiana, ma le ombre si allungano nella luce un po’ spenta del tramonto.

La metropolitana, all’improvviso, corre nel buio e il paesaggio si confonde e si impasta, ravvivato dalle finestre illuminate, dalle teorie di fanali e, più lontano, dai bagliori di qualche centro commerciale illuminato a giorno.

Nel vagone che corre la luce è giallastra, i rari viaggiatori, infreddoliti dai primi brividi autunnali, si dedicano alle più svariate attività: c’è chi legge, chi parla ad altissima voce al telefono, chi ha lo sguardo incollato allo schermo dello smartphone e ogni tanto sorride da solo o corruga la fronte, forse turbato o divertito da una ininterrotta sequela di messaggini, chi guarda fuori con lo sguardo perso nel nulla.

I volti sono stanchi e un po’ tesi: la giornata di lavoro in città, soprattutto se si tratta di un lunedì, non passa quasi mai in modo indolore.

Io macino capitoli senza quasi alzare lo sguardo dal mio Kobo, la lettura mi assorbe e mi distrae, non mi curo di guardare i nomi delle fermate, tanto so che la mia è l’ultima e un lieve rallentamento dovuto all’ennesimo lavoro in corso mi avviserà dell’arrivo imminente.

Con gesti misurati ripongo in borsa l’ebook reader e gli occhiali e mi avvio con passi lenti alle porte scorrevoli: il viaggio anche oggi è finito.

Milano metrò
 

Il diritto di difendersi.

Reyhaneh Jabbari è stata impiccata a Teheran; era stata condannata a morte, cinque anni fa, per aver ucciso l’uomo che aveva tentato di stuprarla, un ex agente dei servizi segreti, che l’aveva attirata nel suo appartamento con la promessa di offrirle un impiego.

Nonostante la solidarietà internazionale la sentenza è stata eseguita inesorabilmente, non c’è stata alcuna clemenza per la giovane che, forse, avrebbe potuto ottenere il perdono della famiglia dell’ucciso se avesse negato la violenza.

Forse la menzogna le avrebbe salvato la vita, ma avrebbe annullato la sua dignità di donna.

L’articolo usa il termine “giustiziare”, ma mi sembra inadeguato e grottesco perché non c’è giustizia in una decisione che nega ad una giovane donna il sua diritto alla legittima difesa e all’inviolabilità della sua persona.

Reyhaneh Jabbari è l simbolo del lungo cammino che le donne devono ancora percorrere, in oriente e in occidente, per affermare il loro diritto alla dignità, alla libertà, a poter scegliere autonomamente della propria vita.

A questo piccolo fiore d’acciaio fermo sul proprio stelo sottile va il mio pensiero commosso e solidale.

Cremeno 2010

Buio.

C’è buio fuori e dentro di me, un buio spesso, palpabile, che nessuna luce sembra poter attenuare.

E’ un buio freddo e avvolgente e, per trovare conforto, mi viene quasi voglia di raggomitolarmi e chiudere gli occhi nella speranza di riaprirli e scoprire che si è dileguato.

Non riesco a guardare avanti nel buio, perché non ho punti di riferimento: sento solo una pena infinita che mi lascia senza fiato.

L’unica speranza è che si accenda, là in fondo, una tremula luce.

Mi aggrappo a questa speranza e aspetto.

Ore e minuti.

Ai nativi digitali non serve imparare a leggere un orologio (di quelli a lancette per intenderci), i nativi digitali hanno sempre a portata di mano un display con l’orario ben visibile e leggibile (in fondo si tratta solo di saper decifrare quattro cifre e le sigle “a.m” o “p.m” per riuscire ad orientarsi nel tempo).

Non si sognerebbero mai di lanciare un’occhiata all’orologio del campanile, attraversando la piazza, anche perché, per farlo, dovrebbero alzare lo sguardo dallo schermo dello smartphone che tengono religiosamente in mano e poi perché mai  dovrebbero guardare quell’oggetto misterioso?

Così può succedere che durante la lezione di lingua straniera non riescano a tradurre dei semplici orari e non perché non sappiano farlo, ma perché non sono in grado di interpretare la posizione delle lancette disegnate da una mano del secolo scorso sul libro degli esercizi.

Anche i loro nonni (o meglio i loro bisnonni) non avevano un orologio al polso e non sapevano leggere le ore, ma a questa mancanza provvedeva la “signora maestra” che li guidava sul balconcino della classe prospiciente la chiesa e spiegava loro con pazienza come decifrare il misterioso linguaggio delle lancette.

Decifrare un orologio è una abilità che i nostri ragazzini hanno perso (probabilmente in modo irrimediabile) perché è una conoscenza che a loro non serve più.

A meno che, da grandi,  non decidano di acquistare un Rolex.

Temo che lo infileranno al polso e lo esibiranno come un costoso bracciale chiedendosi a cosa mai servano quei numeretti sul quadrante.

Cavenago di Brianza

 

Come le foglie.

C’è vento, oggi, il cielo è terso e le chiome degli alberi, ancora adorne di foglie che non si decidono ad ingiallire in questo autunno così poco autunnale, ondeggiano frusciando percosse con violenza dalle raffiche che hanno iniziato a soffiare inaspettatamente nella notte.

Le prime foglie secche, però, si sono già staccate, primizia della stagione, e volano danzando nell’aria portate da misteriose correnti che le innalzano da terra, le fanno cadere a spirale, le costringono in infinite, impensabili traiettorie, le allontanano dal ramo al quale, fino a poco fa, aderivano legate da una forza sottile come una tela di ragno.

Tornando a casa le ritrovo tutte lì, ammucchiate in un angolo di quiete tra il muro ed il cancello dove ad una ad una sono arrivate da molti luoghi e da molti rami e dove, grazie alla calma del vento che non riesce ad insinuarsi nello spazio ristretto, sembrano riposare esauste per il lungo cammino.

E mi vien da pensare che anche per noi esseri umani è un po’ la stessa cosa: il vento ci trascina per strade impensate, lunghe o brevi, tormentate o serene, ma ci ritroviamo poi in alcuni spazi che sono gli stessi per tutti noi e ci posiamo come per cercare conforto.

Sono gli angoli di quiete dopo i percorsi di gioie e di dolori e tutti noi, prima o poi, approdiamo ad un attimo di serenità dove il vento della vita non può insinuarsi.

Poi basta un soffio un po’ più deciso e la danza ricomincia.

Foglie e acqua

In classe.

Entrare in classe è una faccenda seria perché ogni giorno ho (abbiamo noi insegnanti) a che fare con una storia diversa e non può essere che così visto che una classe è composta da persone che ogni giorno si ritrovano “liberamente obbligate” a condividere uno spazio e un tempo, ma si portano appresso il loro vissuto quotidiano fatto di gioie, dolori, frustrazioni, speranze, aspettative, pregiudizi, esigenze, curiosità, indifferenze e sensibilità tutte molto “personali”.

Non c’è una formula, non c’è una regola che permetta a me insegnante di entrare in classe ogni giorno e di svolgere il mio lavoro con efficienza ed efficacia, posso preparare i contenuti, ma non posso indovinare quale “chiave” mi permetterà di trasmetterli (quante volte ho messo da parte una lezione preparata magari con fatica perché non era il momento “giusto”) , posso conoscere “tutto” delle materie che insegno, ma non riuscire a creare quella sintonia che rende il mio lavoro così bello e affascinante.

Sì perché l’insegnamento è affascinante, perché ha a che fare  con le persone, che sono tutte diverse, perché ogni giorno è un incontro con l’altro (con tanti altri) con cui condividere un cammino, con cui fare nuove scoperte (sì, anche noi insegnanti possiamo imparare tanto lavorando con i ragazzi).

La classe è un microcosmo in cui ho imparato ad entrare in punta di piedi, in cui ho imparato a leggere sguardi, a respirare atmosfere, ad adeguarmi alla situazione che trovo ogni mattina affinché le ore che trascorro lì dentro siano ricche di stimoli, di emozioni e di conoscenze per i miei ragazzi e per me.

 

Consigli di classe.

Un articolo apparso sul  Corriere critica l’abitudine delle scuole di fissare le riunioni con i genitori alle diciassette, con conseguente latitanza dei genitori lavoratori (e non), e suggerisce una soluzione che sembra l’uovo di Colombo: spostare le riunioni alle venti.

Ho dei seri dubbi che la partecipazione, in questo caso, aumenterebbe di molto, ma, in fondo, basterebbe provare.

Lo scorso martedì, ad esempio, sono entrata a scuola alle 8, 00 per uscirne alle 13, 45, sono rientrata alle 14, 30 per la riunione dei coordinatori che si è protratta fino alle fatidiche 17 quando era indetta l’assemblea dei genitori (alla quale hanno partecipato cinque mamme volonterose) per l’elezione degli organi collegiali e me ne sono andata, definitivamente, alle 18, 30.

Comprendo che per i genitori, impegnati nel lavoro, nelle molteplici attività dei figli, nella cura della famiglia non sia facile presentarsi a scuola alle diciassette.

Forse anch’io avrei preferito che la riunione si svolgesse dopo cena, in fondo abito a cinquanta metri dalla scuola, ho una persona che si preoccupa di cucinare le cena per mio marito e di metterlo a letto e, alla sera, non ho altra occupazione se non correggere qualche compito, preparare le lezioni del giorno seguente, organizzare la giornata e, magari, rilassarmi un po’ sul divano con la televisione accesa che nessuno si impegna a guardare.

Mi chiedo, però, come se la potrebbero cavare quelle colleghe e quei colleghi che abitano lontano e hanno una famiglia (eh sì, anche loro) a cui badare, dei figli con cui trascorrere qualche ora, le faccende domestiche, la spesa e, alla fine, la necessità legittima di rilassarsi un po’

Blog action day 2014

Oggi è il “Blog Action Day 2014” dedicato alla disuguaglianza, in questa occasione migliaia di persone in tutto il mondo pubblicano, nel loro blog o sui social network, un pensiero per attirare l’attenzione su questo tema.

Anch’io partecipo semplicemente con una citazione dalla Costituzione della Repubblica Italiana:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

(art.3)

Ringraziamenti.

Un grazie di cuore va ad Armin Zoeggeler, il campione altoatesino dello slittino che, dopo una carriera costellata di successi, di medaglie in ben sei  Olimpiadi invernali da Lillehammer ’94 a Sochi 2014, di coppe del mondo ha deciso di ritirarsi.

Ci ha regalato emozioni in uno sport difficile e poco conosciuto, del quale ci ricordiamo a malapena ogni quattro anni, tra una gara di slalom e una danza sul ghiaccio, ha vinto per sé stesso, per l’arma dei Carabinieri sotto i cui colori gareggia e per il nostro Paese anche se a leggere il nome in basso sullo schermo si poteva essere indotti in errore e pensare che si trattasse di un atleta tedesco o austriaco se non fosse stato per il piccolo tricolore accanto alla scritta “ITA” messo lì a ricordarci che quell’atleta con la faccia da gigante buono gareggia per l’Italia.

Il suo non è un addio malinconico, è la decisione di uno sportivo ancora all’apice della carriera, nonostante l’età non verdissima, è una porta che si chiude per aprirne un’altra: sicuramente lo vedremo con la sua grinta e la sua esperienza accanto a giovani atleti pronti a seguire le sue orme.