Archivio mensile:Maggio 2013

Omofobia.

Al termine della giornata mondiale contro l’omofobia, dopo tanti discorsi meritevoli di attenzione e rispetto, vorrei  sottolineare un aspetto sul quale oggi ho avuto occasione di riflettere.

L’etimologia del termine “omofobia” ha a che fare con la parola “fobia” che indica una paura irrazionale che genera il panico, una paura malata che si rivolge a qualcosa che non dovrebbe fare paura.

L’aggressività nei confronti degli omosessuali in fondo è questo: è la paura irrazionale di ciò che non riusciamo o non vogliamo comprendere in nome di una tranquillizzante normalità.

Conosco diverse persone  ormai di una certa età che hanno vissuto un’intera esistenza di disagio, un’esistenza nell’ombra, nel nascondimento dei propri desideri e delle proprie inclinazioni sessuali in nome di quella “tranquillizzante normalità”.

Credo che sia giunto il momento in cui ogni persona possa vivere come crede, sforzandosi di cercare quella felicità che dovrebbe essere un diritto di tutti e che il pregiudizio e la paura scompaiano.

Purtroppo contro l’omofobia non bastano le leggi, ci vuole una rivoluzione culturale.

Tra critiche e insulti.

Forse l’articolo 290 del codice penale (Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate) è una norma datata che potrebbe configurare una limitazione  della libertà di espressione, ma è una norma prevista, esistente e quindi va rispettata (in attesa di trovare, eventualmente, la volontà e la forza per modificarla).

Tuttavia credo che, prima di stracciarsi le vesti, bisognerebbe fare un po’ i chiarezza tra cosa significa “critica” e ciò che significa “insulto”.

Non credo che l’articolo 290 punisca la critica civile e democratica all’operato delle massime cariche dello Stato, penso invece che serva a tutelare le stesse dagli insulti gratuiti, dalle ingiurie, dalle illazioni, dalle accuse infamanti senza alcun fondamento.

Ho letto, anche di recente, espressioni ingiuriose nei confronti del Capo dello Stato (sia nei commenti ai blog sia su facebook) che nulla hanno a che fare con la critica, magari aspra, ma che sono improntate ad una violenza verbale che sarebbe inaccettabile nei confronti di chiunque (non solo del Presidente della Repubblica) e che nessuna lotta politica può giustificare.

In passato ho già avuto modo di osservare che il confronto politico ormai ricorda più il tifo da stadio (con minacce e insulti annessi e connessi) che non il dibattito: in sostanza la lotta politica si è spostata sulle persone e non sul merito delle idee e questo fatto segna una triste involuzione nel nostro vivere insieme, nel nostro essere Nazione.

Il reato di vilipendio non dovrebbe esistere, in un Paese civile, perchè il vilipendio non dovrebbe neppure entrare per sbaglio nel nostro linguaggio politico o quotidiano.

 

Contraddizioni.

Non voglio (almeno per ora) entrare nel merito della proposta del ministro Kyenge di concedere la cittadinanza per nascita ai figli di stranieri stabilizzati in Italia perchè la materia mi sembra complessa e meritevole di un’attenta riflessione.

Quello che mi lascia perplessa è l’atteggiamento degli esponenti della Lega che si oppongono strenuamente a questa idea in nome di un’appartenenza (solo per sangue) al popolo italiano, popolo del quale molto spesso hanno dichiarato, almeno con atteggiamenti chiari, di non voler appartenere.

Gli italiani, di solito, amano il proprio paese (tutto intero), si riconoscono nel tricolore, cantano l’inno nazionale e non propongono di staccarsi dall’Italia e di creare un’altra nazione.

Il ginocchio della lavandaia.

All’inizio del suo divertente romanzo “Tre uomini in barcaJerome racconta di essersi imbattuto per caso in un’enciclopedia medica, di averla sfogliata prima oziosamente, poi in modo scientifico e di aver scoperto, dopo la lettura dei sintomi, di avere tutte le malattie elencate tranne “il ginocchio della lavandaia“.

Si tratta di banale ipocondria della quale anch’io (essendo talora un po’ ipocondriaca) sono affetta.

Di solito mi guardo bene dallo sfogliare enciclopedie mediche, ma ogni tanto mi succede di buttare un occhio su qualche articolo di giornale nel quale si tratta di qualche disturbo (solitamente compulsivo) legato all’uso dei computer e dei social network e, generalmente, scopro di esserne affetta nella forma più virulenta.

Ieri, per esempio, leggendo un articolo sull’abitudine (che in qualche misura mi appartiene) di fotografare il cibo ho scoperto che questa pratica potrebbe essere sintomo di disturbi alimentari e, logicamente, ho cominciato a preoccuparmi.

Poi però mi sono rasserenata: in fondo fotografo il cibo solo raramente e lo faccio se si tratta di un piatto particolarmente fantasioso o colorato e, soprattutto, per fissare una sensazione legata ad un viaggio o ad una esperienza piacevole.

E poi non condivido le immagini (almeno quasi mai).

Forse il mio stato non è così grave come potrebbe sembrare a prima vista e comunque non mi sembra il caso di catapultarmi da uno strizzacervelli (almeno per ora).

Ornago - Cascina Rossino

Cordialità (… e un po’ di orgoglio).

Si chiamano “città di fondazione” quei nuclei urbani nati, nei diversi periodi storici, dal nulla sulla base di un progetto: vi sono esempi illustri come Brasilia, Crespi o le città sorte sui terreni ricavati dalla bonifica dell’Agro Pontino.

Durante il week end siamo andati a visitare Tresigallo, un paesino ricostruito negli anni trenta in stile razionalista, su impulso del ministro Rossoni (che era originario del luogo), ed è stata proprio una bella esperienza anche perchè il paese è rimasto pressoché intatto e si respira un’atmosfera strana che dà un po’ la sensazione di trovarsi su un set cinematografico.

Ma l’esperienza più bella è stata  chiacchierare con alcuni cittadini che, vedendo il nostro aspetto da turisti (la fotocamera è un sicuro indizio) ci fermavano per raccontarci la storia del paese un po’ stupiti del nostro interesse, molto cordiali e simpatici e con una punta di orgoglio per la loro cittadina così originale.

E’ stato molto confortante sentirsi accolti.

Tresigallo

Tresigallo

Un giorno per ricordare.

Che Italia era quella del 1978?

Che Italia era quella che iniziò la sua giornata con l’immagine della Renault 4 rossa, parcheggiata in via Caetani, vicina a Piazza del Gesù, che era la sede della Democrazia Cristiana e via delle Botteghe Oscure che era la sede del Partito Comunista Italiano?

Chi ha visto quell’auto, chi c’era ricorda ancora i poveri resti di Aldo Moro gettati nel bagagliaio, sotto una coperta e nella mente rivede quella fotografia sgranata che si sovrappone all’immagine dello statista, in maniche di camicia, seduto davanti ad una parete scura dove campeggia la stella a cinque punte delle brigate rosse.

Quello che l’Italia di allora non ricorda (perché nell’immaginario collettivo non c’è) è l’immagine dei poveri resti di un’altra persona, ritrovata proprio nelle stesse ore lungo una ferrovia siciliana,  morta mentre, a quanto pareva (e a quanto si voleva far credere),  stava compiendo un attentato terroristico: una morte che il ritrovamento del cadavere di Moro ha oscurato, allora, ma che oggi possiamo leggere come un altro aspetto di quell’Italia violenta, di quel tempo difficile e doloroso che chiamiamo “anni di piombo”.

Oggi è un buon giorno per rendere onore ad entrambi.

Perdono.

Spesso, in occasione di fatti di sangue, c’è qualcuno che immancabilmente chiede alle vittime, o ai loro familiari, se hanno perdonato il colpevole del gesto, come se il perdono fosse una reazione semplice, quasi scontata, quasi dovuta.

L’ho sentito chiedere anche alla figliola del carabiniere colpito davanti a Palazzo Chigi,  e l’ho vista nascondere con un sorriso un moto di ribellione.

Sì perchè il perdono non è necessariamente un atto dovuto, non è il suggello dolce che chiude una vicenda dolorosa: il perdono prima di essere concesso deve essere chiesto e magari anche meritato, il perdono è un atto altissimo, quasi sublime, che non viene spontaneo neppure agli dei.

Per questo comprendo l’uscita dall’aula di Umberto Ambrosoli, durante la commemorazione del sanatore Andreotti, uscita peraltro discreta e senza clamore, che però ha suscitato clamore e scandalo e sterili diatribe.

Forse restare in aula sarebbe stato un gesto più ipocrita che magnanimo perchè immagino che nella coscienza di Ambrosoli risuonino ancora delle parole impietose che un figlio difficilmente può dimenticare e perdonare.

Il Divo Giulio.

Aveva accompagnato la storia della Repubblica fin dalla Costituente, è stato un uomo contestato, a tratti odiato, oggetto di critiche, satire e imitazioni spesso impietose anche se dava l’impressione che gli scivolassero addosso senza neppure scalfirlo.

Era il nome più scandito nelle manifestazioni studentesche, forse proprio perchè simbolo di quel potere che logora “chi non ce l’ha”.

Nella buona e nella cattiva sorte ha scritto la storia del nostro Paese e alla storia tocca, ormai, giudicare la sua figura di politico e di statista (perchè forse si tratta dell’ultimo statista della nostra storia politica).

Comunque con Giulio Andreotti se ne va un protagonista intelligente e ironico, un politico acuto e a tratti cinico, un personaggio controverso: “Divo Giulio” o “Belzebù”.

 

La signora del palcoscenico.

Si è spenta a Roma Rossella Falk una delle grandi regine del teatro italiano.

Mi resterà il ricordo di una signora elegante e raffinata, con un viso spigoloso, particolare e bellissimo che ricorda un po’ la fisionomia di Greta Garbo.

Mi resterà il ricordo di una recitazione misurata, di una irripetibile interpretazione dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello, del sodalizio artistico con Romolo Valli e Giorgio de Lullo nella “Compagnia dei giovani” che tanto ha donato al teatro di prosa italiano.

Dopo Anna Proclemer, scomparsa qualche giorno fa, se ne va un’altra grande signora del palcoscenico.

Amici degli animali.

Non sono una animalista, sono onnivora, anche se non mangio volentieri la carne (ma si tratta solo di una questione di gusto), non indosso pellicce perchè alle nostre latitudini le considero abbastanza superflue, non mi piace la vivisezione, ma ritengo che, in certi casi e a determinate condizioni, la sperimentazione dei farmaci sugli animali sia legittima e necessaria (senza sperimentazione sugli animali non avremmo neanche scoperto il fattore Rh).

Penso di avere nei confronti degli animali un atteggiamento abbastanza equilibrato, non ho un cane, perchè  amo i cani di grossa taglia e penso che in appartamento soffrirebbero, e neppure un gatto, ma non mi dà fastidio il cane del vicino anche se abbaia di notte.

Non mi piace però una nuova corrente di animalismo che ultimamente è sfociata in manifestazioni eclatanti, soprattutto nei confronti dei ricercatori, non mi piace soprattutto perchè si esprime in azioni che non ammettono il dialogo e il confronto, ma si limitano alla condanna della ricerca sugli animali senza approfondirne le modalità.

Mi sembra un eccesso e gli eccessi non portano quasi mai a nulla di buono.

Vorrei fare un esempio di ciò che considero un eccesso: qualche giorno fa, in un forum di un sito animalista, leggevo una domanda di una utente che si chiedeva come liberare la figlia dai pidocchi senza uccidere i simpatici animaletti.

Ammesso che l’episodio non sia una delle tante bufale che girano in rete, ritengo che rifiutarsi di uccidere i parassiti sia assurdo (oltre che dannoso per la salute).

Il rispetto per gli animali è importante, ma anche un po’ di rispetto per gli esseri umani (soprattutto per coloro che dalla ricerca attendono delle risposte) non fa schifo.