Quando ero bambina, come credo moltissimi della mia generazione, bevevo abitualmente l’acqua, l’acqua del rubinetto (che in estate lasciavo scorrere un po’ perchè fosse fresca, l’acqua delle fontanelle e persino, incredibile a dirsi, l’acqua dei ruscelli (“quando fa tre salti, spiegava una leggenda diffusissima, l’acqua diventa potabile”).
E’ incredibile che sia sopravvissuta senza l’acqua “che elimina l’acqua” o senza “l’acqua della salute”, è incredibile che non mi sia mai dovuta preoccupare del troppo sodio o del poco calcio.
L’acqua era la panacea di tutti i mali, un bicchiere d’acqua esorcizzava gli effetti di uno spavento o di una forte emozione, in caso di slogatura, distorsione o incidente analogo capitato durante il gioco non era necessario perdere tempo per correre dalla mamma, bastava mettere l’arto colpito sotto un getto d’acqua e tutto passava, se il sole picchiava duro bastava inzuppare il berretto e infilarselo in testa per ripigliarsi.
Ogni tanto andavamo in gruppo a giocare al torrente e allora l’acqua freddissima diventava un giocattolo incredibilmente versatile: con i piedi e le mani a mollo costruivamo dighe e mulini e saltavamo nelle pozze schizzandoci a vicenda fino a diventare fradici, ma incredibilmente i raffreddori erano veramente rari.
E poi, quando avevo sete, infilavo la testa sotto il getto di una fontanella e assaporavo l’acqua che, soprattutto in montagna, era gelida e sapeva di neve.