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Solo spettacolo.

Ebbene sì, lo confesso, ieri sera ho visto il Festival di Sanremo un po’ perché la contro programmazione delle altre reti era veramente poca cosa, un po’ perché bisogna pur guardare uno spettacolo per poterlo criticare a ragion veduta.

Ieri è stata la serata nella quale gli artisti si sono esibiti nelle “cover” di canzoni del passato e, tutto sommato, a parte qualche arrangiamento forse troppo creativo e qualche stonatura, lo spettacolo è stato gradevole.

Ad un certo punto c’è stato il collegamento “in diretta” con Samantha Cristoforetti, un momento emozionante della serata, con Astrosamantha, sorridente e divertita che giocava con il microfono rispondendo alle domande del presentatore.

Il collegamento, in realtà, era in differita perché, come ha poi spiegato il presentatore, è la Nasa che fissa gli orari e non era possibile, per problemi tecnici, fare diversamente.

C’è stata una ridda di commenti sulla “diretta non diretta”, dal solito complottismo a qualche irridente battuta della serie “balle spaziali”, ma chi ha criticato la scelta di non avvisare che si trattava di un filmato registrato probabilmente si è dimenticato che il Festival di Sanremo è uno spettacolo (e non informazione) e, come tale, ha lo scopo di divertire ed emozionare, non di fare divulgazione scientifica: lo spettacolo, si sa, è finzione.

Forse, se ci avessero avvisato che la diretta era finta ne avremmo capito i motivi, ma non avremmo vissuto un’emozione vera.

 

Squali.

Ho notato (complice l’insonnia da afa)  che le notti estive ripropongono ogni anno, come un tormentone, la programmazione dei mitici film degli anni ’70/’80 incentrati su un famelico e arrabbiatissimo squalo bianco che semina morte e terrore sulle spiagge delle vacanze.

Si tratta di una vera e propria saga composta da quattro film che raccontano storie molto simili (e anche un po’ ingenue e prevedibili). c’è un personaggio mediamente malvagio e mediamente stupido che, per brama di profitto o per leggerezza, scatena la folle rabbia dell’animale, dopo di che si susseguono gli attacchi a bagnanti indifesi (buoni o cattivi non importa, lo squalo non fa distinzioni) fino a quando uno o più personaggi nobili e buoni riescono a far fuori, in modo rocambolesco e spettacolare la bestiaccia assetata di sangue.

Sono ingenui anche gli effetti decisamente poco speciali, come è ingenuo l’accanirsi dello squalo contro Martin Brody e i membri della sua famiglia, quasi si trattasse di una riedizione hollywoodiana del Colombre.

faccio sommessamente notare che ci vuole un bel senso dell’ humor (nero direi) a trasmettere questi film mentre orde di vacanzieri si preparano ad invadere spiagge e litorali.

E’ un po’ come proiettare “Airport” durante un volo intercontinentale.

Finale ligure

Spot.

La pubblicità che interrompe le trasmissioni televisive è un male “necessario” al quale a poco a poco mi sono abituata, anche se appartengo alla generazione di “carosello” (quando gli spot erano più lunghi, divertenti e soprattutto raggruppati in uno spazio unico prima dei programmi di prima serata).

Anzi talvolta qualche spot particolarmente intelligente può essere anche un’interruzione piacevole, soprattutto se lo spettacolo interrotto è noioso.

Gli spot più gradevoli hanno spesso un difetto: restano in mente, ma distraggono dal prodotto reclamizzato cosa che non credo sia economicamente utile al committente della pubblicità.

Qualche volta, invece, succede proprio il contrario: lo spot è talmente noioso o fastidioso che può essere un vantaggio che lo spettatore dimentichi il prodotto (altrimenti si guarderebbe bene dall’acquistarlo).

Il questi giorni gira sulle reti nazionali uno spot, che reclamizza una linea di detergenti per la casa, che io trovo insopportabile: una garrula coppia di giovani sposi magnifica le proprietà dei prodotti urlando da un capo all’altro della casa esprimendosi in rima mentre un pargoletto si aggira per le stanze su di un triciclo strombazzante.

E’ una fortuna che io non riesca a ricordare i prodotti pubblicizzati dalla coppietta urlacchiante.

 

Cronache gialle.

Uno degli appuntamenti dell’estate, in casa mia, è il Tour (mio marito è sempre stato appassionato di ciclismo e, in altri tempi, amava inforcare la bici da corsa e inerpicarsi su per monti e colline).

Anche se non mi appassionano particolarmente le gare, mi piace assistere allo snodarsi del percorso delle tappe soprattutto perché le riprese dall’elicottero permettono di scoprire angoli di Francia sconosciuti o di ritrovare luoghi che conosciamo bene come la Bretagna con le sue scogliere e la Normandia, l ‘Alsazia con Strasburgo e Colmar abbracciate dai vigneti e la zona dei castelli della Loira.

Un appuntamento da non perdere, dopo l’arrivo, i festeggiamenti di rito e le prime (spesso scontate) interviste è una brevissima striscia quotidiana intitolata “Cronache gialle” che pone l’accento su una caratteristica storica, artistica, economica o sociale della zona attraversata dalla tappa.

MI piace questo appuntamento quotidiano che permette di conoscere aspetti della storia, della cultura e delle tradizioni di luoghi magari poco conosciuti, ma comunque interessanti.

Colmar (Francia)

Notte mondiale.

Avevo giurato a me stessa che non avrei visto la partita per svariati motivi: in fondo il calcio non mi interessa molto e ne capisco poco, non mi va di guardare un incontro che so che finirà alle due di notte, Manaus non evoca nel mio immaginario personale l’idea di ventidue ragazzotti che inseguono un pallone, ma le atmosfere dei film di Herzog.

Ma poi…

Se è vero che “Sanremo è Sanremo” è anche vero che la Nazionale è la Nazionale e mi è bastato, nello zapping notturno prima di assopirmi,  scorgere delle magliette azzurre per restare incollata allo schermo, davanti ad uno spettacolo che capisco poco e che poco mi interessa, fino ai fatidici cinque minuti di recupero finali.

Ad un certo punto mi sono fatta coinvolgere da un tifo quasi fantozziano, perché Italia-Inghilterra è una partita dal gusto sempre un po’ particolare

La vittoria della Nazionale, se non altro, mi ha un po’ ripagato del rimbambimento da sonno mancante.

 

La sveglia.

Mi piacerebbe sapere a che ora suona la sveglia nelle case delle garrule famigliole della pubblicità.

A casa mia suona intorno alle sei e mezza, mi trascino fuori dal letto imprecando contro le ciabatte sempre imboscate da qualche parte, ancora insonnolita mi preparo un caffè che bevo, di solito in piedi, sempre da sola, guardando il giorno nascere dalla finestra.

Poi, dopo le quotidiane abluzioni, faccio colazione, mi vesto, controllo che mio figlio abbia capito che deve alzarsi,  preparo la tavola per la colazione di mio marito (con le medicine ben allineate vicino alla tazza e ai biscotti) e vado a lavorare.

Molto raramente facciamo colazione insieme, intorno alla tavola apparecchiata, e solo alla domenica.

Le famiglie della pubblicità, invece, fanno colazione sedute ad una tavola inondata di sole, apparecchiata con lini di fiandra, con latte, burro, marmellata, succhi di frutta, e biscotti (quelli pubblicizzati, naturalmente), sono tutti vestiti di tutto punto, ben pettinati (la mamma è anche truccata), mangiano con calma scambiandosi battute e sorrisi e poi si avviano, chi a scuola, chi al lavoro, sempre con estrema calma tra interminabili baci e abbracci.

Se anche nel mondo felice della pubblicità la campanella suona alle otto, ho calcolato che, più o meno, la sveglia debba suonare verso le cinque.

Mi chiedo cosa abbiano da ridere tanto!

Muffin e ciambella

Un colpo di genio.

E’ veramente geniale l’idea di collegare il pagamento del canone rai alle  bollette elettriche.

Peccato che, così facendo, pagherà il canone anche chi non possiede un apparecchio televisivo, ma possiede almeno una lampadina collegata a un contatore, ma, ancor meglio, chi come me ha una seconda casa oltre a pagare un’Imu  (o tares, o tarsi, o come diavolo si chiama e si chiamerà) pesantissima pagherà un secondo canone, anche se il pagamento del tributo si estende a tutte le utenze, sia nell’abitazione principale, sia in quelle secondarie.

Cito testualmente le indicazioni contenute nel sito della Rai:

Il Canone tv per uso privato è unico e copre tutti gli apparecchi detenuti dal titolare nella propria residenza o in abitazioni secondarie, o da altri membri del nucleo familiare risultante dallo stato di famiglia. Non esistono più i Canoni tv per le seconde case, L. 06/08/1990 n. 223 per le autoradio e per le imbarcazioni da diporto. L.27/12/1997 n. 449
E’ stato inoltre stabilito l’esonero dall’obbligo di pagare il canone alla radio per i detentori di apparecchi radiofonici collocati presso abitazioni private.L. 27/12/1997 n. 449“.

Non vorrei, per evitare il doppio balzello, dover tornare al lume a petrolio o alle candele.

Trezzo sull'Adda Centrale Taccani

Aggiornamento: E’ arrivata una pronta smentita del Governo, evidentemente qualcuno si è accorto che l’idea non era così geniale come sembrava a prima vista.

Mi piacerebbe però sapere chi è che si affretta a diffondere notizie di provvedimenti in discussione prima che vengano discussi e approvati.

Pubblicità e canone.

Dall’inizio del mese di gennaio girano sui canali Rai alcuni spot per ricordare agli italiani che è ora di pagare il canone, spot che si intensificano in modo quasi ossessivo via via che la data di scadenza si avvicina.

Le storie, narrate nella pubblicità, sono molto simili: c’è una persona che sta guardando la televisione, un altro personaggio  trova la busta con ben visibile il logo “Rai” e la appallottola per gettarla via, contemporaneamente il televisore si accartoccia e lo spettatore subisce orripilanti metamorfosi che scompaiono solo quando la busta viene recuperata.

Lo spot si chiude con un arditissimo anagramma tra “deve” e “vede” (alla creatività non c’è limite).

Fin qui tutto bene: ogni anno il pagamento del canone ci viene ricordato con grande profusione di “son et lumière” e, d’altra parte, anche se il mugugno imperversa alla fin fine moltissimi si decidono a pagare.

Quello che non capisco è perché nello spot la busta reca il rassicurante logo di “mamma Rai”, mentre, nella cruda realtà, la busta porta la ben più minacciosa e inquietante scritta “Agenzia delle entrate”.

Le buste con l’intestazione “Agenzia delle entrate”, si sa,  di solito sono foriere di notizie non particolarmente gradevoli.

Contribuente e stressata….

Prima di tutto la voce.

Oggi si è spento, all’età di novantasette anni, Arnoldo Foà, un grandissimo attore il cui nome forse ai più giovani dirà poco anche se penso che molti riconoscano la sua voce, calda, profonda, emozionante, inconfondibile.

Ed è proprio la sua voce che emerge dai miei primi ricordi d’infanzia, la voce del Capitano Smollet de “L’isola del tesoro“, lo sceneggiato televisivo che mi teneva appiccicata alla televisione con un misto di curiosità e di paura, la voce di Foà ferma e rassicurante riusciva a disperdere i timori che mi agitavano fin dalla sigla (una simpatica canzoncina che suonava come “Quindici uomini sulla cassa del morto”).

L’altro frammento di memoria è legato a un disco in vinile, che uno zio in vena di slanci culturali mi aveva regalato in occasione di un Natale, con inciso il “Lamento per Ignacio Mejias” di Federico Garcia Lorca (anche se in realtà il disco recava la scritta “La morte del Torero).

Sembra incredibile, ma, affascinata dalla voce e benché fossi molto piccola e probabilmente capissi poco del testo poetico, ascoltai la poesia centinaia di volte, fino ad impararla a memoria e a riuscire a ripeterla con le pause espressive dell’attore.

Forse il mio amore per la poesia, in generale, e per Lorca nasce proprio da quell’ascolto e se oggi mi ritrovo ad avere una particolare attenzione per la lettura espressiva, se oggi riesco a leggere ad alta voce trasmettendo emozioni credo proprio di doverlo anche alla voce di Arnoldo Foà.

Sessant’anni.

Chissà cosa penserebbero i nostri ragazzi se vedessero le trasmissioni televisive di sessant’anni fa?

Loro che sono abituati a scegliere tra centinaia di canali, fra immagini dai colori sgargianti più veri del vero probabilmente non riuscirebbero neppure ad immaginare che, allora, i televisori avevano uno schermo piccolo, un po’ bombato, rigorosamente in bianco e nero e, soprattutto, la scelta consisteva solo nell’accendere o spegnere l’apparecchio, visto che il canale era uno solo e trasmetteva per poche ore al giorno.

Allora la televisione era un lusso che pochi si potevano permettere e allora, per assistere alla trasmissione preferita (la mitica “Lascia o raddoppia) ci si trasferiva nel bar sotto casa dove, tra il fumo degli avventori e i commenti stile coro da tragedia greca, si cercava di seguire il programma.

Quando i canali diventarono due si facevano delle gentilezze: se sull’altro canale iniziava un programma, nell’angolo in basso lampeggiava un triangolino chiaro, così gli spettatori potevano cambiare (logicamente alzandosi e pigiando un pulsante sulla cornice dello schermo, posizionato sotto la manopola del volume e quella più misteriosa della sintonia).

In casa mia il primo televisore (prodotto nella ditta dove lavorava mio padre) entrò solo nel ’59, quando nacque mio fratello e così io cominciai a vedere “la TV dei ragazzi” e l’indimenticabile “Non è mai troppo tardi” nel quale il maestro Alberto Manzi insegnava a leggere e scrivere agli adulti analfabeti (e permetteva di ripassare ai bambini già un po’ “alfabeti”).