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La Pisana.

Il mio amore per i libri e per la letteratura viene da lontano e, incredibile a dirsi, la televisione ha avuto un ruolo non secondario nella genesi di questo sentimento.

Quando la televisione ( e chi la governava) si sentiva in dovere anche di “educare” gli italiani piuttosto che limitarsi semplicemente ad intrattenerli venivano prodotti spettacoli spesso di alto livello come alcuni sceneggiati televisivi tratti da grandi opere letterarie che, almeno per quanto mi riguarda, avevano il potere di risvegliare in me il desiderio di leggere il libro a cui erano ispirati.

Ricordo in particolare tre produzioni degli anni sessanta, estremamente accurate e forse un po’ didascaliche: “La Pisana” tratto dalle “Confessioni di un Italiano” di Ippolito Nievo andata in onda nel 1960, nell’ambito delle celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia, per la regia di Giacomo Vaccari, “Il Mulino del Po” tratto dal romanzo di Bacchelli e messo in onda nel 1963 per la regia di Sandro Bolchi e, infine, “I Promessi Sposi” del 1967 ancora una volta con la regia di Bolchi.

Nel tempo le immagini, in bianco e nero e un po’ sgranate, degli sceneggiati televisivi mi hanno guidato nella lettura dei romanzi e mi hanno aiutato ad apprezzarli proprio perché raccontavano storie puntualmente fedeli alle parole scritte nelle pagine dei libri.

Nel 1968 comparve sugli schermi “Odissea” che avvicinò tutti noi al capolavoro di Omero anche grazie all’introduzione di ogni puntata in cui alcuni versi del poema erano letti niente meno che da Giuseppe Ungaretti.

Quando mi capita di soffermarmi su qualche trasmissione televisiva contemporanea provo un po’ di tristezza.

Laodicea (Turchia)

Pignoramenti.

In vista del Natale è ricomparsa una pubblicità televisiva che già lo scorso anno mi aveva lasciato perplessa.

Una celebre casa produttrice di panettoni ambienta il proprio spot all’ombra della Madonnina, in una casa dell’alta borghesia milanese, un po’ in stile “Milano da bere” tra servitù ossequiosa e “sciure” con un filo di perle, un filo di trucco, un filo di tacco.

Arriva il panettone, ma arriva anche la guardia di finanza che procede ad un pignoramento di tappeti, arredi e suppellettili, mentre gli invitati, tra lo stupore, il divertimento e la rassegnazione continuano a mangiare il panettone a quattro palmenti.

Il panettone viene magnificato come l’unico lusso che ci si può ancora permettere.

Non so spiegare perchè ma lo spot mi mette un po’ di inquietudine e tanta, tanta tristezza.

Milano

Pubblicità e pubblicità

Ho la vaga impressione che negli ultimi tempi si siano moltiplicati gli spot pubblicitari nei quali si reclamizzano biscotti, merendine, prodotti dolciari vari tutti rigorosamente “senza olio di palma”.

Si allunga così la serie dei “senza”: senza zucchero, senza lattosio, senza glutine e compagnia cantando.

Non è tuttavia sempre chiaro che cosa sostituisca tutti quei “senza” visto che gusti e consistenze restano tutto sommato immutati e soprattutto non sempre è chiaro quanto i nuovi “con” siano più salutari dei vecchi.

Ultimamente una celebre industria dolciaria piemontese è scesa in campo per difendere la scelta di utilizzare l’olio di palma da tempo ormai demonizzato e accusato di varie nefandezze che, tuttavia, dipenderebbero più dalla quantità dei prodotti consumati che dalla qualità dei grassi vegetali (o animali) usati.

Come spesso accade, quando si sparge la voce che questo o quell’alimento può essere nocivo per la salute, dopo ampi dibattiti, discussioni, complotti, e pubblici processi si arriva alla conclusione (ovvia del resto) che nessun alimento, consumato in dosi adeguate e senza esagerazioni, sia sicuramente dannoso.

E’ da molto tempo che non mi capita di spalmare su di una fetta di pane quella famosa crema alle nocciole e cioccolato della celebre industria dolciaria piemontese, ma credo che se mi verrà voglia di farlo non sarà certo qualche grammo di olio di palma a fermarmi.

Ovviamente altro è “sbafarmi” un barattolo da tre chili in un pomeriggio……

Milano Expo 2015

 

Le vite degli altri.

E’ incredibile che, ogni volta che mi capita di accendere la televisione, mi tocchi in sorte di imbattermi in un gruppetto di persone che dibatte con accanimento degno di miglior causa dei guai giudiziari di questo o di quel personaggio, famoso o reso famoso dal fatto stesso di essere incappato in guai giudiziari di varia gravità, che spaziano dall’evasione fiscale all’uxoricidio, dall’estorsione all’efferato delitto.

E’ incredibile che desti tanto interesse questo rimestare nelle vite degli altri, con ricostruzioni minuziose, plastici, interviste a familiari e vicini di casa (anch’essi schierati fra innocentisti e colpevolisti con un accanimento degno di miglior causa).

Non voglio negare che l’informazione abbia le sue regole e i suoi diritti, non voglio negare il diritto di cronaca, ma mi colpisce che l’informazione si riduca spesso e volentieri alla cronaca nera, quella che un tempo scivolava nelle pagine più interne dei quotidiani o campeggiava con titoli “strillati” nelle edizioni serali che, parecchi anni fa, avevano un po’ la nomea di vivere sugli scandali e sulla curiosità dei lettori.

Ci troviamo così tutti seduti in un grande salotto televisivo, dove si discute animatamente sviscerando le vite degli altri, con l’illusione di partecipare, grazie ai social network, alla ricerca della verità perchè questa è la nuova dimensione di questo modo di fare spettacolo: il pubblico viene invitato ad interagire un po’ come succedeva agli spettatori della televisione raccontata nel profetico “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury.

Qual è l’utilità di una comunicazione che solletica la curiosità, che rimesta nel torbido in modo quasi morboso, che istruisce processi mediatici e pronuncia sentenze “popolari”, che cavalca la naturale propensione degli esseri umani a dividersi tra tifosi di Coppi e di Bartali, che spettacolarizza la notizia?

Lo schermo televisivo è ormai come una finestra attraverso la quale osservare miserie, dolori, povertà che forse richiederebbero un più composto riserbo.

Milanofiori

 

Spazio, ultima frontiera.

Ho ritrovato su Netflix  “Star Trek“, la serie televisiva quasi leggendaria scritta da Gene Roddenberry e prodotta a partire dal 1966 (facendo due rapidi conti ben mezzo secolo fa) e mi sono persa dietro le avventure dell’astronave Enterprise “durante la sua missione quinquennale, diretta ad esplorare strani mondi, a ricercare altre forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima” (così recitava la sigla iniziale letta da uno speaker in stile “istituto luce”).

E’ con un po’ di tenerezza che rivedo gli episodi: tenerezza per l’ingenuo esotismo dei pianeti dai colori improbabili e dalle architetture in cartapesta, tenerezza per le divise tanto simili ai pigiami dell’epoca, tenerezza per il modellino dell’astronave sospeso in un cielo stellato così evidentemente finto per occhi abituati al “realismo” della computer grafica.

Provo tenerezza anche per le storie così piene di ottimismo, storie in cui il “diverso” non è quasi mai un nemico da distruggere, ma una occasione di incontro e di conoscenza, storie in cui il desiderio di esplorare e di spingersi oltre il limite risentiva ancora dell’ideale della “nuova frontiera” dell’era kennediana, storie di uomini buoni, coraggiosi, rispettosi.

“Star Trek” nasceva in un’epoca in cui il mondo guardava al futuro con curiosità, in cui realizzare un mondo di pace pareva ancora possibile anche se attraverso l’Europa si allungava la cortina di ferro, anche se si combatteva in molte parti del mondo, anche se la corsa agli armamenti era una minaccia quotidiana.

Rivedere quei telefilm è veramente un tuffo nel passato.

Brembate Torre del Sole

Per passare la serata.

Non abbiamo voglia di uscire e  stiamo in casa, davanti alla televisione a guardare la partita, anche perché gioca la Nazionale.

Si tratta di una partita assolutamente inutile, visto che la nostra squadra ha già vinto “trionfalmente” il girone di qualificazione e con la testa è già sulla partita di lunedì prossimo, alle diciotto, contro la sempre temibile Spagna.

La partita è oltremodo noiosa, ha tutto  il pathos di una finale per il terzo o quarto posto di un torneo aziendale fra scapoli e ammogliati, e io già immagino i commenti di domani, di tutti coloro che avevano esaltato la nostra squadra come un gruppo di fenomeni, immagino le parole di critica, sdegno, cordoglio che riempiranno le pagine dei giornali e le chiacchiere da bar in attesa di vederle confermate (in caso di sconfitta) o rimangiate alla prossima (?) vittoria.

Perché noi siamo fatti così, siamo pronti ad esaltare undici giovanotti che si divertono ad inseguire un pallone, ma siamo anche pronti a stracciarci le vesti, a parlare di tradimento, a formulare interpellanze parlamentari in merito alla qualità del gioco.

Ci dimentichiamo che il calcio è un gioco dove conta l’abilità, ma che  anche la fortuna ha la sua parte, che i giocatori sono atleti e non eroi nazionali, che dopo il fischio di chiusura la nostra vita non è migliore o peggiore a seconda dell’esito della gara.

Ci dimentichiamo che una partita è giusto un modo per passare la serata.

Milano - Portello - Calciatori

Il tema di Tara.

Il tema di Tara è un brano musicale struggente che fa parte della colonna sonora del film “Via col Vento” e che sottolinea i momenti più drammatici della vita della protagonista, la capricciosa, bellissima e determinata Rossella O’Hara.

Chi ha visto almeno una volta il colossal del regista Victor Fleming non può dimenticare i fotogrammi intensi con tramonti in technicolor ed in primo piano la silhouette di Vivien Leigh, accanto ad un albero nodoso, accompagnati dalle note di Max Steiner, il compositore di moltissime colonne sonore tra le quali quella, celeberrima, del film “Scandalo al sole“.

Per noi italiani, tuttavia, il tema di Tara da  vent’anni non rievoca più le scene della guerra di secessione, la stazione di Atlanta gremita di feriti, i campi di cotone al tramonto, per noi italiani simboleggia un campanello che suona, una porta che si apre, il plastico di una scena del delitto a caso e un numero infinito di ospiti impegnati a litigare sotto l’occhio vigile e bonario di Bruno Vespa.

 

Vorrei vivere nel 1492.

Premetto che non ho visto “Miss Italia”  (che non sapevo neppure fosse trasmessa dalla 7, perché immaginavo, nella mia profonda ignoranza di cose televisive, che fosse monopolio della Rai), ma oggi ho letto qualche commento tra lo scandalizzato, il divertito e il sarcastico sulla neo eletta per la sua affermazione: «Vorrei essere nata nel 1942 per vivere la Seconda Guerra Mondiale. Sui libri ci sono pagine e pagine, io volevo viverla per davvero».

Qualcuno ha anche ironizzato sul fatto che, in altri tempi, le miss si auguravano “la pace nel mondo”: evidentemente non ci sono più le miss di una volta.

In un primo momento ho pensato che avesse scambiato le cifre della data e si riferisse al 1492.

A me sarebbe piaciuto vivere allora e, come Benigni in “Non ci resta che piangere“, partire alla volta della Spagna per diventare un “fermatore di Colombo”.

Oppure avrei voluto tentare di incontrare Leonardo da Vinci per spiegargli il funzionamento del treno.

Milano - Expo 2015

 

Non è finzione.

Anche in passato i grandi casi di cronaca nera suscitavano l’interesse e la curiosità un po’ morbosa ella gente, lo testimonia, ad esempio, il caso dell’uccisione di una donna e sei suoi tre figli in via San Gregorio a Milano nel lontano 1946, tanto che Buzzati ebbe a scrivere:

« E voi parlatene pure, se vi interessa tanto, leggete i resoconti, contemplate le fotografie, andate pure, se non potete farne a meno, alla Corte d’Assise, discutetene alla sera. Però vi resti fitto nel cuore il ricordo di quei tre bimbi selvaggiamente uccisi, di quei tre faccini rimasti là, immobili per sempre, con l’espressione stupefatta, di quel seggiolone da lattante da cui colò il tenero sangue. Le anime dei tre innocenti sovrastano, con pallida e dolorosa luce, la folla riunita al tribunale; e può darsi che vi guardino. »

Lo scrittore invitava i curiosi, coloro che divoravano i resoconti giornalistici (allora non c’era la televisione a servirci la morte, le indagini e i processi in diretta) a non dimenticare che non si trattava di finzione, che i morti erano reali, che reale erano il sangue, il dolore e l’orrore.

Oggi le trasmissioni televisive ricostruiscono omicidi e indagini con minuziosa puntualità, si sostituiscono agli inquirenti e, talvolta, ai giudici rendendo questi fatti di cronaca un grande spettacolo, non dissimile dai telefilm polizieschi, suscitando curiosità che si manifestano nelle discussioni tra innocentisti e colpevolisti, nel lugubre turismo sui luoghi dei delitti (ricordo ancora i pellegrinaggi dell’orrore a Cogne e ad Avetrana).

Dovremmo sempre ricordare però che questi spettacoli si fondano su dolore vero, sulla morte vera, sullo strazio di chi resta.

Forse dovremmo accostarci a queste storie in punta di piedi, con rispetto e partecipazione, lasciando che il silenzio le avvolga.

Addio Mr.Spock.

Si è spento all’età di 83 anni Leonard Nimoy, l’attore, sceneggiatore e regista che aveva legato il suo volto al vulcaniano Spock, l’ufficiale scientifico della mitica Enterprise delle serie classica “Star Trek“.

Ironico, imperscrutabile, algido, ma leale e sincero fino all’eccesso il personaggio da lui interpretato era l’indispensabile contraltare dell’umanissimo e impetuoso capitano Kirk e dell’empatico ed emotivo dottor McCoy.

Ci ha tenuto compagnia, quando mio figlio era un ragazzino, con le continue repliche dei telefilm (che erano un prezioso tappabuchi delle programmazioni delle varie reti televisive) appassionandoci a storie tutto sommato semplici, ma molto gradevoli, regalandoci il sogno di un futuro proteso verso la conoscenza e l’accettazione della diversità.

Ora lo immagino  in quello spazio oscuro, trapuntato di migliaia di stelle, per arrivare là “dove nessun uomo è mai giunto prima”.

Lunga vita e prosperità.

Cavenago - Falce di luna