Archivio mensile:Settembre 2012

Origami di pace.

Quando Sadako Sasaki, ormai undicenne, venne a sapere che il grande sole che si era acceso sulla sua città nove anni prima, le aveva provocato la leucemia, non si perse d’animo.

Con la fiducia nella vita e nel futuro tipica dei bambini cominciò a costruire origami perchè, secondo una leggenda giapponese, se fosse riuscita a costruire mille gru di carta colorata avrebbe potuto esprimere un desiderio.

Purtroppo il suo sogno di guarire e tornare a correre non si realizzò e la sua storia, simbolo dell’assurdità della guerra e della speranza nella pace, è narrata nel bellissimo libro “Il gran sole di Hiroshima“.

Tre anni dopo la sua morte all'”Hiroshima Peace Memorial” fu posta una statua che rappresenta la bambina mentre tende una gru d’oro verso il cielo e i visitatori sono soliti deporre ai suoi piedi una gru di carta e un messaggio.

Oggi i piccoli origami sono più di centodieci milioni e il Museo ha deciso di condividere questo simbolico patrimonio di speranza con enti e musei di tutto il mondo che vogliano accogliere le gru ormai pronte a volare con il loro messaggio di pace.

Spero che Milano, magari nell’ambito dell’Expo, riservi loro un piccolo, preziosissimo spazio.

Così bella, così fragile.

Qualche anno fa, in una breve vacanza in Liguria, mi sono innamorata perdutamente delle Cinque Terre, ho percorso i sentieri sospesi tra cielo e mare respirando un’atmosfera antica che ha l’assolato sapore dei versi di Montale.

Lo sguardo vagava mai esausto dall’orizzonte azzurrissimo, alla terra aspra, dai muretti a secco all’occhieggiare, tra i rami, di limoni carnosi e profumati mentre, alla prima voltata, ecco apparire un gruppetto di case, abbarbicate sulla roccia, vestite di mille colori.

Che tristezza pensare a questo paesaggio, così bello, ma anche così fragile, devastato da un degrado idrogeologico che ha una storia antica come queste pietre, che tristezza pensare che oggi, e chissà per quanto tempo, questi sentieri sono preclusi ai passi del viandante assetato di luci, di colori e di bellezza.

Cinque terre

E se dovesse…

Nessuno può conoscere il futuro quindi non posso immaginare se la sorte mi riserverà una morte violenta (che francamente spero di scongiurare), tuttavia, se dovesse succedere (non si può escluderlo a priori) diffido dall’indagare tutti i conduttori di talk show, i creatori di plastici più o meno elaborati, gli autori dei programmi pomeridiani che, di solito, rimestano nella vita quotidiana della vittima e dei colpevoli più o meno presunti, tutti coloro che amano “farsi i fatti altrui”.

Lasciate che lo facciano le forze dell’ordine e che la magistratura celebri i processi.

Altrimenti mi vedrò costretta, come lo spettro di Banquo, a tornare… e allora saranno guai per tutti.

Pranzo in cielo.

Oggi compie ottant’anni una delle foto più celebri del secolo scorso: undici operai, seduti su una trave a 800 piedi dal suolo, si accingono a consumare il loro pauso in una pausa del lavoro di costruzione del grattacielo Rca nel Rockefeller Center.

Si tratta di un’immagine che tutti conoscono, imitata, replicata, rivisitata centinaia di volte, un’immagine singolare che, nella sua eccezionalità, trasmette un sentimento di quieta normalità.

Oggi, dopo ottant’anni, ci dicono che si tratta di una fotografia costruita e ritoccata.

Ma dai?

Veramente qualcuno poteva immaginare che si trattasse di un’istantanea scattata casualmente?

Le fatidiche diciotto ore.

Non solo ho letto con molto interesse l’articolo che illustra il Dossier sulla scuola pubblica, elaborato dalla Uil, che sfata molti luoghi comuni e molte leggende metropolitane, ma con pari interesse ho letto i commenti e soprattutto quelli nei quali si fa riferimento all’orario di lavoro, nel mo caso di diciotto ore settimanali, che qualche lettore definisce vergognoso.

E’ vero, diciotto ore sono poche, ma sono solo le ore di lezione “frontale”, quelle che ogni insegnante di scuola media (secondaria di primo grado) svolge in classe.

Poi c’è il lavoro “sommerso” che fa parte della “funzione docente” e che non viene neppure calcolato (e retribuito).

Innanzitutto una lezione va preparata non tanto e non  solo per quanto riguarda i contenuti quanto le modalità, i tempi, i materiali iconografici, i documenti: fa parte della “funzione docente” trovare le strategie per rendere appetibile un argomento, per riuscire ad incuriosire i ragazzi.

Visto che io non uso alcuni libri di testo e le lezioni si svolgono con il supporto della lavagna multimediale il lavoro di preparazione, rielaborazione, condivisione online dei contenuti e degli appunti aumenta a dismisura (ma questa è una mia libera scelta e non mi lamento).

Poi bisogna elaborare le verifiche (magari calibrate sui diversi livelli, tenendo conto dei DSA etc. etc.) che poi bisogna correggere.

Ci sono poi i colloqui con i genitori, la stesura dei piani di lavoro, le programmazioni individualizzate, le centinaia di pagine che bisogna compilare attenendosi a minuziose tabelle e griglie.

Che dire poi della partecipazione agli organi collegiali, dei colloqui di orientamento, del coordinamento delle attività del consiglio di classe?

Come qualcuno ha osservato il lavoro in classe è solo la punta di un iceberg.

Con questo non voglio affermare che il mio sia un lavoro particolarmente faticoso o usurante, mi piacerebbe solo che si ricordasse che non finisce mai sulla porta della classe, al suono della campanella.

Anzi il “bello” spesso viene dopo.

Ma che notizia è?

Sono un’accanita tifosa della libertà di stampa, non amo le censure, soprattutto quando impediscono di ricercare la verità, tuttavia probabilmente non avrei mai pubblicato le fotografie della duchessa di Cambridge e non perchè io ritenga che ci siano dei “paletti” invalicabili a priori, ma, semmai, proprio per il motivo contrario, perchè non vedo l’eccezionalità della situazione: in fondo si tratta di una giovane donna, sicuramente graziosa, che sulla terrazza di casa sua (della casa dove è ospitata, che poi è un po’ la stessa cosa), in compagnia del marito prende il sole vestita (o svestita) come le pare.

Mi chiedo dove sia lo scoop.

Quali informazioni eccezionali e inaspettate posso ricavare dalle fotografie?

La signora in questione ama prendere il sole (notiziona), ha un fisico adeguato, è in compagnia dell’uomo al quale è legittimamente sposata (lo abbiamo visto in mondovisione) allora non capisco perchè rubare degli scatti in fondo così banali e perchè pubblicarli con tanto clamore.

Capisco invece l’irritazione della famiglia Windsor soprattutto in considerazione del peso che altri scatti rubati hanno avuto nella vita di quel giovane uomo che se ne stava sulla terrazza a prendere il sole.

Ti prego, rispondi!

All’inizio del film “Ricomincio da tre” dell’indimenticabile Massimo Troisi, un giovane Lello Arena, chiama a squarciagola l’amico Gaetano continuando a ripetere all’infinito il nome, aumentando il volume e la frequenza delle urla fino al parossismo.

Si tratta di una scena esilarante che, di solito, basta a mettermi di buon umore.

Molto meno esilarante è una scena simile: un ragazzino, nel parco sotto casa mia, mentre sto correggendo le prove d’ingresso, grida all’infinito “Mamma”, con la stessa enfasi dell’attore napoletano.

Mi affaccio e vedo la madre, a pochi metri di distanza dal pargolo, tutta impegnata in una conversazione fitta fitta con due amiche, totalmente dimentica del sangue del suo sangue.

Mi viene voglia di unirmi al coro da tragedia greca, gridando a mia volta “Ti prego, rispondi!”.

Un nuovo inizio.

In questi giorni sono stata in silenzio perchè, molto più di quanto mi era successo nel passato, ero concentrata sull’inizio dell”anno scolastico.

Fino all’ultimo giorno non avevo certezze sulla classe che avrei avuto in sorte il che, vista la mia lunga carriera all’interno dello stesso istituto, è quanto meno destabilizzante.

Adesso, con la speranza che i dubbi si siano trasformati in certezze, ho finalmente incontrato i miei ragazzi di terza, che ho trovato cambiati, ma non troppo e ho cominciato a conoscere quelli di prima (dove insegnerò solo storia e geografia).

Si tratta di un nuovo inizio, di una nuova sfida: entrare in sintonia con un gruppetto di alunni che non conosco, ma è proprio questo il fascino del mio mestiere.

Vocazioni.

In questi giorni, prima dell’inizio della scuola, mi capita, girando in paese (io ho la fortuna o la sfortuna di lavorare dove vivo) di incontrare qualche genitore dei miei ragazzi e il discorso (visto che sono in terza) cade invariabilmente sull’orientamento e sulla scelta della scuola superiore.

Molti denunciano uno stato di agitazione che posso ben comprendere: nel giro di pochi mesi i figli, ma anche i genitori, dovranno interrogarsi, analizzarsi, informarsi allo scopo di individuare un percorso che li porti a realizzare quello che vogliono diventare e che diventeranno “da grandi”.

Nel nostro mondo che, in quanto a lavoro e futuro, è sempre più precario diventa un lusso anche accarezzare un sogno e devo ammettere che, per la mia generazione, la faccenda era decisamente più semplice, almeno per quanto riguarda i sogni.

Noi potevamo sognare un futuro lavoro e una vita futura che, per molti versi, era sotto il nostro controllo, dipendeva solo da noi impegnarci, studiare, nutrire le necessarie ambizioni: sapevamo che se avessimo lavorato seriamente avremmo avuto la possibilità di realizzare le nostre aspirazioni.

Uno dei miei ricordi d’infanzia più vividi risale all’estate dopo la fine della prima elementare: c’è un tavolo nel giardino della casa di montagna, delle bambine più piccole di me sedute ordinatamente e io che mi aggiro con fare severo e insegno loro a leggere e scrivere.

Forse la mia vocazione è nata lì, poi ho avuto la possibilità e la fortuna di nutrirla e realizzarla: mi sono scoperta appassionata allo studio, i miei genitori mi hanno permesso di frequentare il liceo classico e l’università, è stato indetto un concorso giusto in tempo perchè potessi partecipare e superarlo.

In fondo non ho incontrato grossi ostacoli sul mio cammino e oggi posso ancora svolgere la professione che amavo e amo: per molti versi mi sento una privilegiata.

Mi piacerebbe che i miei ragazzi avessero, per lo meno, le mie stesse possibilità.

A gratis.

Giuro solennemente: la prossima volta che mi capiterà di sentire l’espressione “A GRATIS” mi alzerò in piedi e comincerò a menare botte dove capita capita.

La cosa sconcertante è che, di solito, frequento per buona parte della giornata una scuola, un luogo di educazione e cultura dove il massacro della lingua italiana (e latina) dovrebbe essere bandito per definizione.

Tra l’altro ho notato che non serve a nulla provare a ripetere la frase alzando la voce sulla parola “gratis” (aggiungendo con un po’ di pudore “et amore Dei”): “a gratis” è ed “a gratis” resta, fino alla fine dei secoli (amen).

E che dire dell’uso indiscriminato e improprio di locuzioni più recenti per cui si sentono espressioni come “tramite online” a proposito della trasmissione di documenti e modulistica?