Archivio mensile:Ottobre 2015

Non solo un effetto ottico.

Lo so che l’arcobaleno è un effetto ottico e meteorologico e, se mi impegno un po’, riesco persino a spiegare come funziona il complesso gioco della luce radente del sole rifratta, riflessa e di nuovo rifratta in centinaia di goccioline di pioggia: al liceo ho studiato abbastanza ottica da perdere tutta la poesia.

Eppure…

Eppure quando mi succede, come oggi pomeriggio, di alzare gli occhi  e di vedere l’arcobaleno attraversare il  cielo spariscono dalla mia mente tutte le spiegazioni razionali e scientifiche e riaffiora la dimensione del sogno e vorrei camminare fino a trovare la mitica pentola colma di monete d’oro (che tra l’altro mi farebbe comodo) e non riesco a staccare lo sguardo e mi riscopro ogni volta stupita come quando ero bambina.

Quanto è bello, qualche volta, lasciarsi cullare dalla dolcezza delle fiabe.

Cavenago - Arcobaleno
 

Quattro passi nel futuro.

Ogni tanto mi capita di vedere qualche film ambientato nel futuro, non si tratta di film di fantascienza, ma di quelle storie “futuribili” e un po’ inquietanti nelle quali i personaggi, di solito a metà strada fra l’alienato e il depresso, vagano tra edifici grigi dall’aspetto vecchiotto che sorgono accanto a palazzi avveniristici, luccicanti di cristalli e freddo metallo.

Domenica scorsa, passeggiando dalle parti di Porta Nuova, ho avuto l’impressione di trovarmi catapultata in uno di quei film.

Mi sono fermata ad osservare il paesaggio e, strano a dirsi, non ho provato disagio: effettivamente Milano è bella anche quando è “strana”.

Milano - Porta Nuova

La casa degli Atellani.

Milano è una città così: sembra moderna e frenetica, sembra grigia e disincantata … appunto, sembra, ma poi riserva angoli di incredibile bellezza dove la storia si può leggere a strati, dove i tempi e gli stili si mescolano, si fondono e si esaltano senza snaturarsi.

La Casa degli Atellani è un esempio di questa meraviglia: si tratta di una dimora che, verso la fine del ‘400, Ludovico il Moro, desideroso di creare un quartiere residenziale intorno a Santa Maria delle Grazie, regalò al Signor Giacometto di Lucia dell’Atella, suo uomo di fiducia, perchè vi si trasferisse.

In realtà i trattava di due edifici affiancati, poco più di due casolari, che il nobile proprietario rese una abitazione elegante al centro della vita mondana dell’epoca.

La casa, in seguito alle alterne vicende politiche, passò di mano nei secoli, e all’inizio del ‘900 fu acquistata dal senatore Ettore Conti che ne affidò la ristrutturazione al genero Pietro Portaluppi, uno dei massimo architetti milanesi del secolo.

Oggi è uno stupendo edificio in parte in stile eclettico, in parte razionalista, che cela un delizioso giardino interno, una vera e propria oasi di verde e di pace nel cuore della città.

In fondo al giardino, in seguito ad un’accurata ricerca storica e scientifica, è stata di recente piantata una piccola vigna, proprio dove sorgeva la vigna tanto cara a Leonardo da Vinci, che il Moro gli aveva concesso nel 1498 e che l’artista aveva difeso con accanimento anche durante l’occupazione francese.

La visita della casa e del giardino regala un tuffo nel tempo e nella bellezza come spesso succede in questa città a torto considerata meno “artistica” di altre.

Milano - Casa degli Atellani

Tavoli di pace.

Si sa che spesso, intorno ad una tavola imbandita, si possono stringere amicizie, si rafforzano rapporti, si ritrovano sentimenti che sembravano sopiti, si può passare qualche ora in allegria, si può dichiarare il proprio amore.

Sarà perché mangiare insieme è un momento di condivisione importante, il tempo sembra rallentare, c’è la possibilità di parlare, di ascoltarsi, di sorridere, di ricordare.

Spesso sedere intorno ad una tavola imbandita, condividere il cibo può migliorarci la vita, per questo motivo mi sembra stupenda l‘iniziativa di un ristorante israeliano in una cittadina vicina a Tel Aviv che promette un forte sconto ad ebrei ed arabi disposti a sedersi alla stessa tavola.

Nel clima arroventato di questi giorni l’idea, rilanciata anche sui social network, mi sembra un piccolo, ma simbolico passo nella direzione di una pace che sembra sempre più lontana ed irrealizzabile.

Un piatto di hummus potrebbe aiutare due uomini a guardarsi negli occhi, a sorridersi, a parlarsi e ad ascoltarsi.

E se fosse solo pubblicità, mi sembra una gran bella pubblicità.

Milano Expo 2015 - Oman

Sguardi.

Quando al pomeriggio, dopo una giornata di scuola, vado a trovare mia madre mi prendo qualche minuto per fare un giro e quattro chiacchiere con le altre signore che condividono con lei la sala.

Spesso si tratta di persone sole, o che hanno i figli lontani, magari impegnati in un lavoro che impedisce loro di andarle a trovare nei giorni feriali e ogni ora diventa lunga, e ogni giorno diventa lungo e la settimana è lunghissima se non è spezzata da un sorriso, da un attimo di attenzione.

La loro solitudine è palpabile, intensa, come una panchina vuota in un pomeriggio d’autunno.

Basta poco per farle sorridere, basta chiedere come hanno passato la notte, o se hanno mangiato, o se hanno qualche dolore per strappare loro un sorriso.

Ti guardano con un moto di gratitudine e di gioia che allarga il cuore.

Ormai non posso più rinunciare al mio giro ricco di sorrisi e di parole sussurrate che anche per loro è diventato un appuntamento atteso: me ne accorgo dagli sguardi attenti che scrutano la porta in attesa del mio arrivo.

Moggio

A caccia di colori.

Quando comincia l’autunno mi piace camminare nei boschi perché in nessun’altra stagione l’esplosione di colori è così intensa.

Le foglie si tingono di mille sfumature, dal verde cupo al rossastro, passando per tutte le tonalità del giallo e, strano a dirsi, benché i colori preludano al loro distacco dal ramo, alla loro morte, producono in me una sensazione festosa che mi riempie di gioia.

E’ quasi come se l’autunno volesse risarcire il mondo del freddo, del buio, del clima piovoso, del grigio regalando una tavolozza di luce morbida e calda.

Mi piace andare a caccia di colori, mi fa dimenticare che il tempo passa e presto quei rami saranno nere ragnatele nel cielo invernale.

Moggio

A scuola mi annoio.

Ogni tanto sento qualche ragazzino che racconta così il suo rapporto quotidiano con la scuola e se non lo dice “apertis verbis”, magari lo esprime con lo sguardo perso nel nulla, con gli occhi che vagano fuori dalla finestra o inseguono qualche insetto infilatosi per sbaglio nell’aula, con la matite che traccia oziosi ghirigori sul quaderno.

Nei loro occhi aleggia una domanda: “Che hanno a che fare con me la politica di Giustiniano, o le poesie di Leopardi, o il teorema di Pitagora?”

In fondo li capisco perché anche a me, alla loro età, capitava di annoiarmi, soprattutto quando la maestra (o la professoressa di turno) ripeteva per l’ennesima volta un concetto che mi sembrava di aver già capito da un pezzo, non capivo allora che la spiegazione non era mai la stessa e che se non mi fossi distratta forse avrei colto qualche sfumatura che mi era sfuggita.

Oggi, che sono seduta dall’altra parte della cattedra, mi danno l’anima se vedo i miei ragazzi annoiarsi e le tento tutte per catturare la loro attenzione perché so di avere molto da dare e mi piacerebbe che riuscissero rubarmi tutto.

Io a scuola non mi annoio più da tanto tempo, perché ogni giorno è una sfida, ogni giorno è un’avventura esaltante e lavoro perché diventi un’avventura esaltante anche per loro: l’avventura della curioità, l’avventura della conoscenza.

Quello che nessuno vi dirà mai.

Di solito, nei social network, questa frase prelude ad una rivelazione eclatante, una verità nascosta alle masse da qualche oscuro complotto, istruzioni segretissime su come interpretare dei numeretti esoterici sul fondo delle confezioni di latte, o decodificare sigle oscure sulle scatolette di tonno.

Qualche volta le verità nascoste (e prontamente rivelate) riguardano misteriosi ingredienti tossici che appestano i cibi che consumiamo, ignari e felici, ogni giorno e rischiano di sfiorare la querela per diffamazione.

Altre volte vengono rivelati (sempre raccontati da un parente o da un amico di un amico di provata fiducia) oscuri segreti su attentati imminenti, che tornano ciclicamente in occasione di manifestazioni internazionali, feste comandate, inaugurazioni, eventi sportivi e via dicendo.

Mi stupisco sempre di come certe notizie (non notizie) si diffondano in rete alla velocità della luce, senza un minimo di verifica (da parte di chi le rilancia), senza alcun fondamento scientifico senza controllo e, talora, senza neppure un briciolo di logica.

Si tratta delle “bufale” che, come in una catena di Sant’Antonio 2.0, continuano a girare, rilanciate e condivise, fino quasi a sembrare “vere”, come se una affermazione ottenesse forza non dalla “verità” intrinseca, non dalla sua dimostrabilità, ma dal fatto di essere ripetuta all’infinito.

Mi piacerebbe sapere dov’è la nube di Oort da cui hanno origine non già le comete, ma le “bufale” cosmiche.

Credo che sia un dovere di tutti, prima di condividere una notizia, una informazione, un oscuro segreto, prendersi cinque minuti per verificarne la fondatezza.

Brembate Torre del Sole

Dovremmo essere grati…

Oggi durante la visita ad una mostra sulla scienza nel Medioevo, mentre la guida spiegava ai ragazzi le immagini, mi sono persa davanti alla rappresentazione di un amanuense, seduto al suo tavolo, ricurvo con un’espressione intenta sul suo lavoro e ho cercato di immaginare la sua giornata, la sua vita.

Tante volte ho visitato qualche scriptorium, in qualche abbazia isolata lassù nel nord della Francia o persa nella nebbia della pianura Padana e non ho potuto non notare le grandi finestre, da cui filtra una luce chiarissima e un’aria altrettanto chiara e gelida e spesso ho pensato che non doveva essere facile stare lì, con le dita intirizzite e le mani contratte dalla fatica, con gli occhi bruciati dalla continua attenzione a quelle lettere nitide ed eleganti, a quelle parole che, dopo un’intera giornata trascorsa al  lavoro, probabilmente, sembravano danzare sul foglio.

Tante volte ho pensato che dobbiamo essere grati a questi oscuri lavoratori che, con la loro fatica, con la oro dedizione quasi religiosa, ci hanno trasmesso un immenso bagaglio culturale che sarebbe potuto andare irrimediabilmente perduto e invece ci è giunto intatto attraverso i secoli.

Non conosciamo il loro nome, ma possiamo immaginare il pennino che gratta instancabilmente sul foglio di pergamena e lentamente traccia le lettere, che formano le parole, che formano i pensieri, che costruiscono molto di ciò che sappiamo, di ciò che siamo.

Sulle spalle dei giganti (la scienza nel Medioevo)

 

Ce n’è per tutti?

Questa scritta campeggia sulle torri del Padiglione della Svizzera a Expo 2015 che ha proposto ai visitatori  un interessante esperimento sociale sulla scarsità delle risorse alimentari del pianeta.

All’inizio di maggio, quando Expo 2015 ha aperto i battenti, le torri erano piene fino al tetto di scatole contenenti caffè, mele, sale e bicchieri (che simboleggiavano l’acqua), all’ingresso i visitatori venivano invitati a prendere liberamente le risorse presenti tenendo però conto che non sarebbero state rinnovate e che, se ne avessero fatto man bassa, si sarebbero esaurite lasciando a bocca asciutta (letteralmente asciutta) i visitatori degli ultimi giorni.

Quando ho visitato il padiglione per la prima, verso la fine di maggio, già un quarto delle risorse si era volatilizzato e oggi, a quindici giorni dalla chiusura, due torri (quella dell’acqua e quella delle mele) sono inesorabilmente vuote.

L’esperimento, che ha avuto un esito purtroppo prevedibile, ha dimostrato, se ce n’era bisogno, che esiste uno squilibrio tra i consumi, che esiste un’ingiustizia di fondo nella possibilità di accedere alle risorse da parte di pochi, a scapito dei molti che ne restano privi e che la condivisione può essere la soluzione.

“ce n’è per tutti?” si chiedevano all’inizio, purtroppo non ce n’è per nessuno.

Milano - Expo 2015