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Con le mani nell’acqua.

Ieri a Pavia piovigginava, ma la città, anche se ammantata di un’atmosfera autunnale con il suo cielo grigio e le pietre del selciato lucide di pioggia, conserva sempre il suo fascino.

Varcato il ponte coperto, su un Ticino particolarmente plumbeo, mi ha colpito la statua della “Lavandaia” che non avevo mai visto anche se la sua inaugurazione risale a quarant’anni fa.

La scultura, opera dello, scultore borghigiano Giovanni Scapolla, è collocata poco lontano dall’imbocco del ponte dal lato di Borgo Ticino, il quartiere dal fascino antico e pittoresco un tempo situato fuori dalle mura cittadine, il “Burg à bass” (borgo basso in dialetto) che si affaccia sul fiume con le sue case dai colori vivaci.

La scultura celebra la memoria di queste donne del Borgo che, fino agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, svolgevano un duro lavoro quotidiano, nei mesi più freddi e nebbiosi tutte intabarrate e con in testa la “caplina” cercando di scaldarsi con i fuochi accesi lungo le sponde.

Le donne lavoravano tutto il giorno sulla riva: di notte lasciavano i panni in ammollo  in enormi recipienti di cemento, mentre al mattino, una volta riportati a riva, li lavavano con l’aiuto della classica asse di legno, “a scagn” in dialetto.

Era compito degli uomini e dei bambini riconsegnare i panni puliti a tutta la città.

Mi piace l’idea soprattutto in questi tempi, in cui si fa un gran parlare di sculture al femminile, dalla “Spigolatrice di Sapri” alla prima statua raffigurante una donna inaugurata a Milano, che a Pavia si possa ammirare una statua dedicata a donne umili e forti che hanno contribuito a fare la storia della città.

Pavia - Monumento alle lavandaie

Paene insularum, Sirmio, insularumque ocelle

Così il poeta Catullo, nel carme XXXI, celebrava con affetto la sua Sirmione cantando la gioia del ritorno a casa dopo le fatiche del viaggio in Tinia e in Bitinia.

Il poeta, che probabilmente era originario della vicina Verona, definisce Sirmione “ocelle” (in senso letterale “occhietto”) quindi paragona la terra amata ad una perla o ad una gemma preziosa, incastonata nell’azzurro del lago e questo suo amore per Sirmione ha fatto sì che la grande villa romana, i cui resti sorgono sull’estremità della penisola, fosse attribuita al poeta anche se, in realtà, all’epoca della costruzione dell’edificio era già morto.

Le “Grotte di Catullo” (il nome risale al Rinascimento quando i ruderi, invasi dalla vegetazione, facevano pensare a cavità naturali) sono in realtà una grande villa, a pianta rettangolare, che occupa un’area complessiva di circa due ettari e si sviluppava su tre livelli.


L’ingresso era rivolto verso la terraferma metteva in collegamento con il piano superiore residenziale dove c’erano anche le terme, allo stesso livello si sviluppavano loggiati e terrazze scoperte fino allo spettacolare belvedere proteso sul lago.

Al centro dell’edificio c’era il giardino, circondato da un portico mentre un complesso sistema di rampe e di scale permetteva l’accesso ai piani inferiori, dove erano collocati gli ambienti di servizio e di scendere alla spiaggia.

Il lato occidentale era chiuso da un lungo criptoportico che probabilmente permetteva ai fortunati abitanti di passeggiare al riparo dalle intemperie e dalla eccessiva calura estiva.

I resti della villa con la loro imponenza, raccontano di una famiglia agiata, ci parlano di lusso, di bellezza, di un gusto per la vita e per le sue gioie che oggi pochi di noi potrebbero permettersi e non è certo un caso che l’edificio sorga proprio lì, sulla punta della penisola, con il panorama del lago spalancato davanti e gli ulivi a incorniciare le balze erbose.

Certo che i Romani non erano secondi a nessuno quando si trattava di scegliere un luogo dove trascorrere il loro tempo.

Sirmione

Silenzio verde.

La voce del monaco che ci accompagna nella visita della Certosa di Pavia è calda e ferma e bassa, quasi fosse una voce abituata ai lunghi silenzi e alla meditazione.

Camminiamo sui marmi antichi, sotto l’occhio vigile del priore che, da una finestra dipinta sulla parete con un curioso effetto trompe l’oeil, ci accompagna severo quasi invitandoci al raccoglimento.

E’ il silenzio la sensazione che colpisce subito quando si visita la Certosa: il silenzio dei campi che la circondano, il silenzio della chiesa dove si aggirano rari visitatori, il silenzio dei chiostri che si aprono verdissimi e ordinati.

All’improvviso la suoneria di un telefonino (ma non bisognava spegnerlo all’ingresso?) mi strappa da questo sensazione di pace sospesa nel tempo: è il mondo che, là fuori, continua a correre e a gridare e fa irruzione in questa bolla tranquilla con tutta la sua urgenza, con la sua quotidiana frenesia.

La Certosa è bellissima e non solo per i suoi marmi preziosi, per gli affreschi e per le volte trapunte di stelle, la Certosa è bellissima perché, in questo tempo di pandemia e di turismo diradato è un’oasi tranquilla, un rifugio sicuro, un luogo in cui ritrovare pensieri dimenticati e sensazioni troppo spesso trascurate.

Certosa di Pavia

Un pomeriggio al museo.

I musei hanno riaperto le porte un po’ a mezzo servizio, solo nei giorni feriali, alcuni con orario ridotto, ma è comunque un piccolo segno di ripartenza e di normalità.

Oggi ho visitato i musei Civici di Monza, che non conoscevo, e ho provato il piacere di osservare le opere d’arte quasi in assoluta solitudine, con tutta la calma possibile, sotto lo sguardo vigile di un custode che non vedeva l’ora di illustrare le opere più importanti a dei visitatori desiderosi solo di ripartire, di ricominciare a conoscere le bellezze spesso nascoste del nostro Paese.

Forse, in questo periodo, è proprio il momento giusto per visitare i piccoli musei locali, i meno celebri e conosciuti e meno visitati da frotte di turisti, musei silenziosi e tranquilli, musei “sicuri”, ma ricchi di spunti interessanti.

Avevo bisogno di un pomeriggio così, di una visita al museo, di un caffè bevuto ad un tavolino all’aperto (nonostante il gelo siberiano), di un po’ di libertà e di leggerezza e di bellezza.

Monza - Musei Civici

Senza limiti…

Ho letto da qualche parte (si sa che in questo periodo il tempo libero abbonda) e spero fortemente che non sia vero che è nata una corrente di pensiero che definirei “negazionismo artistico” che, in buona sostanza, non riconoscerebbe le opere d’arte come frutto del genio e della perizia, ma come il prodotto di astute manovre.

Il David di Michelangelo non sarebbe una scultura, ma una colata di “marmo liquido” (sic) gettata sopra il corpo di un “gigante”.

Mi chiedo cosa possa spingere una persona “normale” a credere a simili teorie che sono non solo inaccettabili, ma addirittura impensabili.

Mi chiedo cosa possa dare origine a “teorie del complotto” così astruse da apparire ridicole (… si ride per non piangere).

Forse al fondo di simili credenze c’è un senso di inadeguatezza, come se non potendo comprendere il genio di un artista inarrivabile e inimitabile, sia preferibile negarlo.

Siamo nani appollaiati sulle spalle di giganti e, evidentemente, a qualcuno questa “piccolezza” dà fastidio.

Milano - Pietà Rondanini

La mano di Dio.

In molti mosaici che istoriano le pareti delle basiliche di Ravenna spesso il Padre è rappresentato semplicemente con una mano, una mano che sbuca dalle nuvole, in mezzo al cielo, una mano che indica, che rappresenta un gesto di amore universale, una mano che ci racconta come, per gli artisti del mosaico, la presenza di Dio fosse qualcosa di molto concreto, quasi fisico.

Nell’antichità, nel mondo ebraico e paleocristiano e anche nel primo Medioevo, era considerato inaccettabile rappresentare Dio a figura intera e per questo motivo la mano, che compare nei mosaici, ha un valore iconografico importante perché rappresenta una Presenza reale nella storia degli uomini.

Mi piace quella mano perché mi sembra protettiva, rassicurante e veramente presente.

Ravenna - San Vitale

L’oro di Ravenna

Ravenna è una città antica, è una città ricca di monumenti di mattoni rossi, avvolta da un cielo luminoso che riflette all’orizzonte la luce del mare, una città di biciclette e passeggio, una città di pini marittimi.

I grandi edifici di mattoni sorgono all’improvviso, severi e imponenti, ma basta varcarne la soglia per essere immersi in un mondo di colori e di oro.

I mosaici di Ravenna sono lì, splendidi e splendenti, accesi dalla luce del sole che filtra dalle grandi finestre, belli da togliere il fiato, sono una narrazione, una catechesi, una storia da decifrare interpretandone anche i simboli più minuti, apparentemente più insignificanti.

Mi colpiscono i Re Magi di Sant’Apollinare Nuovo, il cielo stellato del Mausoleo di Galla Placidia, i cortei, posti uno di fronte all’altro, di Giustiniano e Teodora che istoriano le pareti di San Vitale, la pianura ricca di fiori, pietre e uccelli dell’abside di Sant’Apollinare in Classe.

I mosaici riescono a rendere anche i sentimenti e le espressioni dei volti: penso alla storia di Abramo in San Vitale con il timido sorriso di Sara, la pacatezza di Isacco e lo splendido piccolo ariete che attira l’attenzione di Abramo, già intento al sacrificio del figlio, addentandone un lembo della veste.

Ci si perde davanti ai mosaici, al loro splendore accentuato dal diverso orientamento delle tessere che riflettono in modo diverso la luce del sole a seconda delle ore del giorno, ci si perde davanti alle figure solenni di santi e imperatori.

Ravenna è uno scrigno prezioso da dove attingere bellezza a piene mani.

Ravenna - San Vitale

La cartapesta di Lecce.

Quando si pensa a Lecce non si può non pensare alle grandi chiese, agli eleganti palazzi che hanno reso la città una capitale indiscussa del barocco, uno stile che, in queste terre, ha raggiunto vette altissime di raffinata maestria.

Lecce ha il colore della pietra, che scivola dal bianco al dorato a seconda dell’ora del giorno e del colore del cielo, Lecce ha le forme del barocco che esplode in città, su imitazione dello stile plateresco di origine iberica, a partire dalla seconda metà del ‘500 anche grazie alla “pietra leccese” , un materiale calcareo dai colori caldi e dalla facilità di lavorazione di cui il Salento è ricco.

Eppure, accanto alla perizia degli scalpellini, a Lecce prospera un’altra forma di artigianato, quella degli scultori in cartapesta, un’arte solo apparentemente povera, ma ricca di storia, di tradizioni e di bellezza.

Nella Basilica di Santa Croce, tra le grandi cappelle decorate riccamente, fa bella mostra di sé una splendida statua della Vergine realizzata completamente in cartapesta.

E nelle viuzze del centro storico si aprono piccole botteghe che sono veri e propri antri del tesoro dove si possono trovare natività e statuine del presepe realizzate con questa tecnica antica e dove si possono incontrare gli artigiani disposti a raccontare con orgoglio la propria arte e la storia della loro bottega.

E così nella mia valigia ha trovato posto anche una splendida rappresentazione della Sacra Famiglia… naturalmente in cartapesta.

Lecce

La Villa Romana del Casale.

Nel cuore della Sicilia, a Piazza Armerina, sorge la Villa Romana del Casale, un edificio abitativo che risale al quarto secolo e che, dal 1997, è entrato a far parte del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco.

La villa, che in realtà è un vero e proprio palazzo, presenta un ingresso monumentale a tre arcate con cortile a ferro di cavallo, un corpo centrale organizzato intorno ad peristilio quadrangolare, un grande spazio, preceduto da un peristilio ovoidale circondato a sua volta da un altro gruppo di vani e un complesso termale.

Tutti gli ambienti sono decorati da preziosi mosaici di rara bellezza, ma quello che mi ha colpito di più, oltre alla “Grande Caccia”, è la rappresentazione, a fondo bianco, di otto ragazze, abbigliate con quello che sembra un “bikini ante litteram”, intente a praticare sport ed esercizi ginnici, intente a giocare e divertirsi.

Si tratta di un mosaico che rappresenta le giovani piene di grazia e bellezza, con i corpi in movimento, lo sguardo sicuro, i gesti ricchi di naturalezza, un mosaico estremamente emozionante per la sua “modernità”.

Sicilia - Piazza Armerina

Emozione e meraviglia.

E poi ti trovi lì, davanti al catino absidale della cattedrale di Monreale, dopo aver ammirato la sequela dei mosaici sulle pareti, dopo esserti soffermato sui decori preziosi e lo sguardo è subito catturato dagli occhi sereni e severi, umani e divini del Pantocratore che sembrano seguirti in ogni movimento.

Per un attimo dimentichi la storia dell’edificio, le tecniche del mosaico, le date e le interpretazioni perché quegli occhi ti avvolgono e ti accolgono e solo quegli occhi contano e trasmettono una forte emozione che trascende la bellezza dell’opera d’arte.

Poi torni a interessarti delle storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, delle decorazioni ricche ed eleganti, della luce d’oro che ti avvolge, ma sai che la meraviglia di quello sguardo continua a seguirti e a restare impressa dentro di te.

La profondità di quello sguardo da sola vale il viaggio.

Sicilia - Monreale