Archivio mensile:Dicembre 2014

Tre anni.

Tre anni passano in fretta e i bambini un po’ intimoriti di tre anni fa sono diventati ragazze e ragazzi più alti, più maturi, più disinvolti, non più interessati ai giochi, ma alle relazioni, aperti al futuro e, paradossalmente, ancora un po’ intimoriti per la vita che li aspetta che vorrebbero a volte accelerare, a volte fermare.

Li incontro, ad uno ad uno, con i genitori, per consegnare il consiglio orientativo elaborato da noi insegnanti sulla base di questi tre anni di crescita insieme e mi sembra di vederli con occhi nuovi, mi sembrano più seri e più “grandi”, irrimediabilmente diversi da come erano poche ore fa in classe, e mi viene spontaneo trattarli “da grandi”, parlare con loro, del loro futuro come farei con degli adulti.

Spero che vivano questa fase delicata della scelta con serenità, che riescano a valutare le loro capacità responsabilmente, senza false illusioni, ma senza  tarpare le ali ai loro sogni.

Mi auguro per loro che imparino a non rassegnarsi, a non accontentarsi, ma a puntare sempre a dare il meglio di sé e a realizzarsi come persone.

 

Ma c’era bisogno di scriverlo?

E poi oggi ho finito per “tuffarmi in un gomitolo di strade” , giusto perché c’era qualche acquisto natalizio proprio improcrastinabile, ma ho cercato di evitare i luoghi più affollati, le strade dove muovere qualche passo senza rischiare di essere spintonati brutalmente è un’impresa epica.

Ma ogni tanto è indispensabile attraversare Piazza del Duomo e allora capita di imbattersi in una maleducazione e in uno scarsissimo rispetto per il prossimo che mi lasciano sempre a bocca amara.

C’è gente che blocca i luoghi di passaggio e non si sposta neppure se invitato in tutta gentilezza a farlo, gente che gesticola scompostamente rischiando di schiaffeggiare chi si trova nel raggio di un metro, gente che cammina in fretta con gli occhi puntati sullo schermo dello smartphone urtando chi si trova inavvertitamente sulla sua traiettoria e tanti altri che si muovono, camminano, parlano come fossero soli in mezzo al deserto, senza minimamente preoccuparsi delle persone che li circondano.

Da troppo tempo ormai mi capita di osservare che non c’è più attenzione per gli altri.

Se sulle porte scorrevoli del metrò hanno dovuto scrivere la frase “prima di salire a bordo lasciar scendere i passeggeri” significherà pur qualcosa.

Milano centro (Natale 2014)

Aspettando il Natale.

In questo momento trovo che le parole di Ungaretti raccontino proprio bene come mi sento.

Forse, tra qualche giorno, la voglia di tuffarmi nel “gomitolo di strade” mi verrà, ma, per ora, passo la mano

Natale

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

(Giuseppe Ungaretti 1916)

Milano - Piazza Gae Aulenti (Natale)

Noi che c’eravamo.

Quarantacinque anni fa scoppiava la bomba di Piazza Fontana e, per chi come me allora era nell’età in cui si comincia a cercare strumenti per decifrare la realtà, il ricordo dello smarrimento di quei giorni, e degli anni che seguirono, è ancora vivo e doloroso.

Ricordo lo sgomento, l’impressione lancinante di essere usciti da una sorta di età dell’innocenza, la necessità di imparare un nuovo linguaggio costellato di espressioni oscure e minacciose come “strategia della tensione” o “anni di piombo” che, a malapena, riuscivano a definire eventi altrettanto oscuri e minacciosi.

Ricordo la difficoltà di sfiorare, ogni mattina andando all’Università,  l’edificio della Banca Nazionale dell’Agricoltura e il mio distogliere lo sguardo da un orrore che non riuscivo a capire e ad accettare, che sentivo brutale e ingiusto.

Oggi, nel quarantacinquesimo anniversario di quella strage, matrice di tutte le stragi seguenti, di tutti gli assassinii di quegli anni ho cercato di comunicare ai miei ragazzi di terza la cupa atmosfera di quei giorni, aiutandomi con la ricostruzione quasi scientifica che Carlo Lucarelli fece nella trasmissione Blue Notte, andata in onda sulle reti Rai, ma temo che per degli adolescenti di oggi sia quasi impossibile comprendere.

Forse sono riuscita solo a fare memoria di quei morti, di quei feriti.

 

Una nuova luce.

Poco dopo la morte di mio marito, nell’espletare le prime dolorosissime, ma indispensabili formalità, ci è stato chiesto, devo dire con grande delicatezza, se eravamo disponibili alla donazione delle cornee del nostro caro.

Senza neanche consultarci mio figlio ed io abbiamo dato il consenso anche perché eravamo consapevoli che il nostro amatissimo padre e marito era (ed è) una persona generosa, avvezza  a piccoli gesti di grande umanità senza tanto clamore, abituata a vivere una quotidiana bontà un po’ schiva e pudica, ma molto concreta.

Ora che mi è arrivata la comunicazione che, probabilmente, due persone torneranno a vedere grazie al suo dono ho provato una grande dolcezza.

Le regole vogliono che non ci venga mai comunicato il nome di quelle persone, ed è giusto così, ma io so già che, in futuro, camminando per strada, guarderò gli occhi delle persone che incontrerò alla ricerca di “quello” sguardo che ho incrociato per tanto tempo.

Forse è una piccola consolazione, ma trovo che sia bellissimo che i suoi occhi tornino a brillare di nuova luce.

orizzonte

Nel mio elemento.

In giornate come queste stare in classe, tra i miei ragazzi, è un grande sollievo perché i ragazzi sono proiettati verso il futuro e mi trascinano con loro, mi costringono a non voltarmi indietro, occupano completamente la mia mente e si impossessano di pezzetti del mio cuore.

Così riprendo in mano le verifiche da correggere, litigo con il registro elettronico, preparo lezioni ed esercizi, torno pian piano a vivere la normalità, la rassicurante, ma straordinaria quotidianità del mio lavoro.

Sembra incredibile che lavorare possa donare tranquillità, eppure è così, forse perché si tratta di un lavoro che può essere difficile, qualche volta frustrante, ma che è sempre coinvolgente.

Si tratta di un lavoro che ogni giorno mi fa incontrare persone che vedo crescere, bambini che si avviano a diventare adulti, curiosità da alimentare, pensieri che via via prendono forma.

La scuola è il mio elemento.

Per ora di andare in pensione non se ne parla proprio.

Tornare a casa.

Dopo più di un anno sono tornata lassù, fra le mie montagne, nel luogo che sento casa mia più di tanti altri luoghi, mi sono affacciata al balcone e ho ascoltato il bosco e il torrente che score nella vallata e il fruscio del vento tra i rami che sembra il canto di cento voci.

Poi ho preso la funivia e sono salita più in alto, mi sono fermata al rifugio, per ritrovare un po’ di calore e qualche viso amico, e poi, dopo pranzo, ho cominciato a camminare su per il pendio, tra volute di nubi e nebbia che si arrampicavano sui fianchi della montagna, e ho camminato così, quasi senza meta, fino a quando le voci si sono spente in lontananza e il silenzio si è riempito solo del suono dei miei passi e dei miei pensieri.

Camminando sul sentiero che tante volte abbiamo percorso insieme, ho avuto la netta sensazione di non essere sola, ho sentito l’eco di passi lievi vicino ai miei (che strani scherzi gioca l’immaginazione) e mi sono sentita in pace, quasi felice, desiderosa di scorgere le mie montagne tanto care che, come vecchie amiche, sono sempre pronte ad accogliermi in un abbraccio.

E, all’improvviso, la nebbia si è squarciata e il grigio compatto che mi circondava ha riacquistato colore e lassù, in alto, un azzurro tenero faceva risaltare le cime spruzzate di neve.

Piani di Artavaggio

Solitudine.

Sto prendendo le misure alla mia nuova solitudine, mi muovo tra le stanze che non mi sono mai parse così grandi e silenziose: è una sensazione strana e sconosciuta che mi lascia un po’ stordita.

Questi ultimi giorni frenetici e pieni non mi hanno lasciato molto tempo per ritrovarmi con me stessa e per pensare, solo per brevi tratti ho intravisto il vuoto e il silenzio e ho provato un senso di vertigine.

Sono tornata a scuola e lì ho ritrovato occhi pieni di sorrisi, gli occhi dei miei ragazzi, e il calore dei loro sguardi ha riempito la mia giornata.

Cammino per le strade e anche lì trovo calore e affetto e così, quando torno a casa e mi ritrovo nel silenzio vado a ripescare quel calore, quei sorrisi e la mia solitudine è più leggera.

Allora trovo anche il coraggio di sfiorare oggetti carichi di presenza, di abbandonarmi a ricordi  gioiosi, di riempire il vuoto e il silenzio della dolcezza un po’ malinconica che mi strappa un sorriso.

Verranno giorni più bui, me lo dicono tutti e sicuramente sarà così, ma per ora riesco ancora a farmi cullare dalla mia solitudine che, come una nebbia impalpabile, mi avvolge, ma non mi fa paura.

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Non solo tristezza.

Quando muore qualcuno in genere se ne parla solo bene, forse perché abbiamo un po’ di ipocrita ritegno a ricordarla così com’era, con tutti i pregi e gli inevitabili difetti.

Ora che il compagno di tutta una vita se n’è andato ho cercato di trovare qualche difetto, se non altro per onestà intellettuale,e forse posso dire che era (troppo) taciturno, che aveva un pudore dei sentimenti che qualche volta mi infastidiva, che organizzava tutte le sue cose in un ordinato disordine nel quale ora non riesco a raccapezzarmi.

In compenso aveva tanti pregi: era forte e coraggioso, era intelligente curioso e onesto, era buono di una bontà disarmante, era un lottatore mite.

Non mi basta dire di lui che lo amavo (e lo amo), ma mi piaceva, mi era simpatico, lo stimavo: abbiamo affrontato la vita fianco a fianco, tenendoci per mano, sostenendoci l’un l’altro.

Se ora pensando a lui mi viene da sorridere non è perché io non sia infinitamente triste, ma per tutta la gioia che questi ultimi quarantatré anni insieme mi hanno regalato.

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