Archivi categoria: i giorni della scuola

Aule, banchi e plexiglas.

Si è parlato, talvolta a sproposito, di presunte quanto improbabili barriere di plexiglas con cui isolare i ragazzi al loro ritorno a scuola e io, da vecchissima insegnante ormai in pensione, ho cercato di visualizzare questo scenario.

Ho provato ad immaginare la mia ultima classe, composta da venticinque adolescenti moderatamente scalmanati, stipati nell’aula con banchi, zaini e paraventi di plexiglas.

Li ho visti alzarsi di scatto o spenzolarsi verso un compagno tirando clamorose capocciate nelle barriere (e meno male che sono infrangibili), li ho visti tornare accaldati dalla palestra e perdersi in una nebbia di vapori più o meno corporei, li ho visti tentare di copiare o di suggerire una risposta (lo so che non si fa, ma un’insegnante accorta sa quando chiudere un occhio), ho sentito le loro voci rimbombare, li ho immaginati rinchiusi nei loro spazi ristretti, anzi francamente non sono riuscita ad immaginarli: i ragazzi di quattordici anni sono incapaci di tenere il “distanziamento sociale” in classe e quando sciamano nei corridoi durante l’intervallo.

Non ho una soluzione ( e, per fortuna, non mi compete cercarla), ma è evidente che le nostre aule sono troppo piccole e le nostre classi troppo numerose per tenere i ragazzi, per sei ore, ad una distanza ragionevole e forse è il caso di cominciare a pensare ad un’altra organizzazione delle lezioni e degli spazi.

cavenago scuola

L’ultimo giorno di scuola.

L’ultimo giorno di scuola non può lasciare indifferenti, soprattutto quando è l’ultimo giorno di un ciclo di studi: ho visto ragazzi urlare felici gettando i libri in aria, ho visto ragazzi in lacrime seduti sui gradini della scuola, incapaci di staccarsi dai compagni di tante avventure, ma raramente ho visto qualcuno andarsene a casa come se niente fosse.

Anche per gli insegnanti è un momento importante, particolarmente alle medie, quando ci si rende conto di aver accompagnato all’uscita quelli che, solo tre anni prima, sembravano (ed erano) poco più che bambini ed ora sono degli adolescenti proiettati verso il futuro (quanto roseo dipende, in gran parte, da loro e dal lavoro fatto insieme per tre anni).

Quest’anno i ragazzi sono stati “scippati” di questo momento di passaggio, ma hanno anche scoperto, stando a casa davanti allo schermo del computer, che la scuola non è solo un susseguirsi di ore, mesi, anni di compiti, lezioni e cose da imparare e, qualche volta, di noia, ma è un mondo di relazioni in cui si impara, nel rapporto con i compagni e con gli adulti, a diventare grandi e forse, anche per questo motivo, non essere lì, in classe, al suono dell’ultima campanella lascia un po’ di amaro in bocca.

Oggi è mancato il conto alla rovescia degli ultimi secondi dell’anno, sono mancati i sorrisi e le lacrime, sono mancati gli abbracci, è mancato quel guardarsi negli occhi per scoprire nell’altro, che ti sta di fronte, i tuoi stessi sentimenti: la gioia della fine e già la nostalgia per ciò che è stato, il timore e l’attesa del futuro.

Oggi è stata la fine “strana” di un anno scolastico “strano”, un anno scolastico da ricordare.

cavenago scuola

Classi senza foto.

Ogni anno, più o meno tra maggio e giugno, in tutte le scuole di ogni ordine e grado si ripete, per le ultime classi, il simpatico (simpatico?) rito della foto di classe, rito al quale i ragazzi si sottopongono di solito con un discreto entusiasmo (per fare la foto, se va bene, si perdono una decina di minuti e quando si tratta di interrompere una lezione tutto fa brodo).

Di solito i ragazzi della scuola media dove ho insegnato si allineavano sui gradini davanti all’ingresso, spintonandosi, accalcandosi, abbracciandosi, qualcuno faceva gesti buffi o espressioni ridicole, insomma mettersi in posa era un momento allegro nel quale la cosa importante non era la qualità della foto in sé, ma il fatto di stare insieme, vicini vicini, con la consapevolezza che, una volta passati gli esami, nonostante le promesse di imperitura amicizia, quel momento non si sarebbe ripetuto più.

La foto di classe fermava, per i ragazzi, un momento di passaggio e di condivisione e creava, per noi insegnanti, un prezioso ricordo.

Quante volte sono tornata a sfogliare l’album delle foto dei miei ragazzi, dei quali ricordo quasi tutti i nomi anche se, quando ora li incontro per strada, non sempre riconosco i volti.

Quest’anno il virus maledetto ha tolto ai ragazzi non solo mezzo anno di scuola, non solo le lezioni e l’allegra fatica di crescere insieme, ma anche la foto di gruppo (scattarla provocherebbe un pericoloso assembramento) e un pezzetto di memoria.

milano scuola elementare 1963 64

Questa sera niente teatro.

Il cartellone del TeatrOreno questa sera avrebbe previsto lo spettacolo “Barzellette” di Ascanio Celestini che, responsabilmente, in ottemperanza alle direttive della Regione Lombardia, è stato annullato.

Mi spiace un po’, ma, d’altra parte, la decisione degli organizzatori è stata corretta e io stessa, qualora lo spettacolo non fosse stato annullato, avrei rinunciato perché è veramente difficile mantenere le distanze in una platea teatrale.

E’ un momento triste per il paese con le scuole chiuse, le biblioteche a mezzo servizio, i musei con gli ingressi contingentati, con le lezioni scolastiche online, le gite scolastiche sospese e i ragazzi che comunque si ritrovano nei parchi o nelle case e fanno gruppo perché è quasi impossibile impedire l’aggregazione degli adolescenti.

Mi rendo conto che il mio è un suggerimento quasi “umoristico”, ma mi piacerebbe che i ragazzi usassero una parte di questo tempo inaspettatamente “libero” per accostarsi alla lettura, per trovare in sè qualche passione, per scoprire e valorizzare un talento, per imparare cose nuove, per coltivare qualche nuovo interesse.

Mi piacerebbe che i ragazzi riscoprissero il valore del tempo e riuscissero a riempirlo con tante cose belle.

Milano - Kasa dei libri

Giugno, finalmente.

 Giugno, che sei maturità dell’anno, di te ringrazio Dio:
in un tuo giorno, sotto al sole caldo, ci sono nato io, ci sono nato io… 
E con le messi che hai fra le tue mani ci porti il tuo tesoro, 
con le tue spighe doni all’uomo il pane, alle femmine l’oro, alle femmine l’oro
” cantava Francesco Guccini nella “Canzone dei dodici mesi” e io non posso che condividere le sue parole perché anch’io sono nata in un giorno caldo di questo mese bellissimo, il mese in cui inizia l’estate.

E oggi il primo giorno di giugno ci ha regalato un assaggio d’estate, con la sua temperatura calda, ma non troppo calda, con la sua luce limpida che accende il verde dei prati e il colore dei fiori, con la voglia che mi prende all’improvviso di passeggiare nel parco sotto casa e di lasciarmi accarezzare dai raggi del sole.

Un anno fa, quando ancora lavoravo a scuola, giugno era il mese delle famigerate relazioni finali, degli esami, dei ragazzini che non riescono più a stare fermi nei banchi ed entrano in aula abbigliati con fantasiosi indumenti di stile balneare e non riuscivo a godermi questo bellissimo mese perché il lavoro era tanto e i giorni sembravano non passare mai.

Oggi la mia nuova condizione mi permette di vivere compiutamente questo momento dell’anno.

Cavenago di Brianza - Domeniche in collina 2019

Come si cambia.

Fino ad un anno quando ancor insegnavo (… e mi pare che sia passato un secolo) mi pareva naturale accompagnare i miei ragazzi nei musei e a visitare monumenti e parchi, cercavo di tenerli uniti e possibilmente attenti alle spiegazioni, ero rassegnata all’inevitabile rumore prodotto da venticinque adolescenti in movimento e mi infastidiva un po’ il fastidio che leggevo negli occhi degli altri visitatori che si imbattevano nel gruppo.

Pensavo “in fondo sono ragazzi” ed è abbastanza normale che dei ragazzi siano confusionari e rumorosi e distratti e chiacchierino e ridano persino al cospetto del Cenacolo di Leonardo.

Poi sono andata in pensione ed ho perso il rapporto quotidiano con i ragazzi.

Così, due giorni fa, mentre visitavo il Museo Teatrale della Scala, mi sono imbattuta in un gruppo di studenti che si trascinavano per le sale un po’ annoiati e che si sono animati solo quando sono entrati in alcuni dei palchi che si affacciano sulla sala dove, repentinamente, si sono impegnati nello scattarsi dei selfie senza quasi degnare di uno sguardo l’ambiente che li circondava, imponente ed elegante al tempo stesso.

All’improvviso ho compreso il fastidio negli occhi dei visitatori che si imbattevano nei miei ragazzi e ho compreso quanto velocemente si può cambiare quando mutano le situazioni.

Milano - Museo Teatrale della Scala

Adesso scendo le valigie.

Ricordo, tanti anni fa, una lezione di grammatica in una prima media che mi lasciò estenuata: avevo cercato, con poco successo, di spiegare l’uso dei verbi intransitivi e avevo dovuto lottare strenuamente con un mio allievo che sosteneva convinto di poter “uscire il diario”, “scendere il cane” e “salire le borse della spesa”.

Sicuramente non mi sarei così esacerbata se avessi potuto immaginare che una ventina di anni dopo la Crusca avrebbe in qualche modo “sdoganato” queste costruzioni (che ancora mi provocano un repentino attacco di orticaria) motivandone l’uso come colloquiale e regionale oltre che, ovviamente, brachilogico.

A quanto mi è parso di intuire la “transitivizzazione” dei verbi intransitivi sarebbe accettabile nella lingua parlata, in ambiti non formali, ma non ancora, per fortuna, nella lingua scritta.

Temo che sia solo questione di tempo e allora ho deciso che sarà meglio “scendere le valigie” è andarmene.

Polonia - Torun

La sconfitta del “secchione”.

Quando ero bambina (e anche adolescente) mi piaceva andare a scuola, mi piaceva studiare e capire e non tanto, e non solo, perché in casa mia c’era un po’ il mito del “pezzo di carta”, ma perché la mia innata curiosità trovava delle risposte nei libri e nelle spiegazioni dei miei insegnanti.

Lo studio mi appassionava, la lettura mi catturava, la conoscenza mi affascinava e così, spesso, preferivo starmene chiusa in casa a leggere piuttosto che uscire con le amiche il che mi procurò ben presto l’appellativo di “secchiona” che per molti aveva una connotazione decisamente negativa, ma non per me.

Se essere “secchiona” significava amare la conoscenza non mi importava essere chiamata così perché sapevo che stavo costruendomi gli strumenti per leggere e comprendere la realtà e per trovare il mio posto nel mondo.

Ma oggi, nell’attuale temperie culturale e sociale, oggi che essere laureati non ha molto senso (soprattutto se si tratta di una laurea in filologia classica) visto che si può accedere ai più alti posti di responsabilità forti di un socratico “so di non sapere” (…”e me ne vanto”), oggi, dicevo, mi sembra che si sia chiuso un cerchio, oggi la parola “secchiona” è ancora una presa in giro o un insulto e la “beata ignoranza” un titolo di merito..

Proprio come quando ero ragazzina….

Milano - Kasa dei libri

La volta che andammo a Parigi.

Una volta (sembra che sia passato un secolo) le gite scolastiche erano una faccenda più semplice rispetto ad ora: non c’erano i limiti di spesa con cui fare i conti (anche se non si poteva certo largheggiare), le formalità burocratiche erano terrificanti, ma con un po’ di pazienza si superavano, e poi forse noi insegnanti eravamo più incoscienti (… e mediamente più giovani).

Tanti anni fa, con i ragazzi che oggi sono poco più che trentenni, andammo in gita per ben cinque giorni a Parigi (udite, udite).

Alloggiavamo in un albergo dalle parti di Pigalle abbastanza fatiscente, ma allora non importava più che tanto perché eravamo nella mitica “ville lumiere”, avevamo a disposizione tanti giorni per visitare monumenti e musei e per respirare l’aria della città e poi avevamo scelto in modo un po’ “improvvido” di visitare Parigi nella settimana di San Valentino e si sa che, soprattutto per degli adolescenti, può essere la città più romantica del mondo.

Credo che i ragazzi ricordino ancora la navigazione sulla Senna con il Bateau-mouche in una delle notti più fredde dell’anno e i grandi amori nati (e finiti pochi giorni dopo), credo che questo momento fondamentale della loro vita alle medie sia restato nei loro ricordi anche ora che sono adulti e hanno un lavoro e hanno messo su famiglia.

E anch’io li ricordo con tenerezza.

Parigi Agosto 1978

Gli insegnanti bistrattati.

Spot pubblicitario di un gestore dell’energia: interno, giorno.

Una portiera un po’ impicciona (evidentemente in agguato da ore) sta spolverando un enorme ficus nell’androne di un palazzo signorile, quando entra in scena un signore dall’aria un po’ dimessa che la donna apostrofa prontamente: “Professore, è arrivata la bolletta della luce”.

Il pover’uomo si avvicina alle cassette della posta e si ritrova una busta enorme dal peso insopportabile, mentre la portiera continua ad osservarlo con aria di compatimento (… e, a quanto sembra, con un velato disgusto).

Poi entra in scena un giovane aitante, il “Signor Marco”  e al solo vederlo la portiera si illumina, sorride, scodinzola e gli mostra una busta piccola piccola (che evidentemente corrisponde ad una spesa irrisoria).

La morale della favola è semplice: il professore (… che magari insegna persino matematica) non è in grado di fare i conti e di risparmiare sull’energia, mentre il “Signor Marco”, che non si capisce bene cosa faccia nella vita, è molto più in gamba, in grado di badare a se stesso e alle sue finanze e persino bello.

Ma è mai possibile che gli insegnanti, oltre che dagli allievi e dai genitori,  siano bistrattati persino dalla pubblicità?

Polonia - Varsavia