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Il volo.

Uno dei luoghi più magici della Turchia è sicuramente la Cappadocia e una delle esperienze indimenticabili di questo viaggio è stata il volo in mongolfiera all’alba sul paesaggio “lunare” di questa regione.

Dopo una levataccia ad ore antelucane un pulmino mi ha prelevato in albergo poco dopo le quattro per portarmi alla sede dove mi sono registrata, ho fatto colazione, mi è stato indicato il nome del pilota e mi hanno fornito le istruzioni per il volo e l’atterraggio.

Poi, insieme ai compagni di avventura di ogni parte del mondo che avrebbero condiviso il volo con me, sono atata accompagnata in aperta campagna nel luogo, vicino a Göreme dove i palloni variopinti cominciavano a gonfiarsi contro il cielo di un azzurro sempre più pallido.

Completate le operazioni di allestimento della mongolfiera ci siamo imbarcati e subito siamo scivolati verso il cielo, innalzandoci ad altezze ragguardevoli mentre le prime luci del giorno cominciavano a delineare i profili dei “camini delle Fate” e delle guglie di tufo calcareo scolpite da secoli di erosione in forme insolite e fiabesche.

Il nostro pilota, abilissimo in verità, alternava momenti di dolce salita a vertiginose discese quasi a sfiorare le rocce, mentre, sbucando da dietro ad una parete, all’improvviso comparivano le decine e decine di palloni che, nel frattempo, si erano levati in volo.

Il volo è durato quasi un’ora, in un silenzio stupito ed ammirato, parlavamo tutti sottovoce quasi per non disturbare la voce del vento e il silenzio del sorgere del sole.

Alla fine siamo atterrati dolcemente, ci è stato offerto dello spumante e sono stata riaccompagnata in albergo giusto in tempo per raggiungere il mio gruppo intento a consumare la prima colazione.

Ma non trovavo le parole per descrivere il volo, ammutolita dall’emozione per tanta imponente bellezza.

Cappadocia - Volo in mongolfiera

 

Non so da dove cominciare.

Come si fa a trovare le parole per raccontare otto giorni in Turchia densi di emozioni, di immagini, di profumi, di sogni?

Allora proverò a partire dall’arrivo a Istanbul, dal traffico intenso di una città di sedici milioni di abitanti divisa tra due continenti, proverò a partire dalla luce particolare che il Bosforo e il Corno d’Oro riflettono sugli edifici, dal vento che mitiga il calore del sole, dalle centinaia di minareti che svettano sulle case, dai suoni di una città popolosa a cui si mescolano, nelle ore canoniche, le voci che invitano alla preghiera e le musiche di centinaia di orchestrine che suonano all’aperto.

Proverò a partire dall’emozione forte di trovarsi in un luogo lontano e diverso, di camminare tra secoli di storia in un incrocio di lingue, di culture di religioni.

Proverò a Partire dalla bellezza della Moschea Blu o dall’imponenza di Santa Sofia e della Moschea di Solimano il Magnifico.

Proverò a partire dallo stupore che dà un senso di vertigine, mentre gli occhi non sanno dove guardare e vorrebbero spalancarsi a dismisura.

Mi rendo conto che per raccontare tutto ci vorrebbero pagine e pagine e allora procederò per gradi, racconterò “la mia Turchia” un poco per volta, a puntate, affidandomi alle parole e alle immagini, pur consapevole della difficoltà di trasmettere tanta bellezza.

Continua…

Istanbul

Sole nero.

Quando il sole si nasconde è inutile che ci sforziamo di essere razionali e “moderni”, certo ci hanno spiegato che l’eclissi è un fenomeno astronomico, certo nessuno di noi crede che le tenebre si stiano mangiando il sole, ma la luce che si fa all’improvviso crepuscolare comunque mette un po’ di inquietudine e ci ritroviamo con il naso all’insù a scrutare il cielo proprio come i nostri più remoti antenati.

Eclissi di sole

Immagini ritrovate.

In un armadio nel ripostiglio ci sono centinaia di diapositive che stanno lì, nei loro caricatori, mute testimoni dei nostri viaggi, di un’Europa che non è più così, di un tempo in cui c’erano due Germanie e una Cecoslovacchia e in mezzo al nostro continente correva la cortina di ferro.

Nel tentativo di trovare un’attività che coinvolga mio marito, soprattutto in vista dell’arrivo della brutta stagione (come se questa fosse bella) ho acquistato un piccolo scanner per diapositive e negativi e abbiamo fatto delle prove di recupero di quei pezzi di memoria sepolti da anni.

Si tratta di diapositive vecchissime, un po’ sbiadite e un po’ sgranate, ma per noi sono preziose.

Uno dei primi tentativi ci ha restituito un’immagine di Oradea, in Romania, scattata nel lontano ’95 (e non si tratta di una tra le più antiche) che rappresenta un muro davanti ad una sinagoga con la pubblicità di una nota bevanda, allora sbarcata da pochissimo nella nuova Romania.

Ci aveva colpito quella pubblicità perchè simboleggiava il dilagare dell’occidente, con le sue mode e il suo consumismo.

Oradea - Romania 1994

Selfie.

Se vedete una persona sorridere con aria beata (e un po’ beota) al proprio smartphone tenuto a debita distanza non dovete preoccuparvi o chiamare la neuro, probabilmente il soggetto in questione sta abbandonandosi alla moda del selfie.

Una volta si chiamava “autoscatto”, ma era tutta un’altra storia.

Immaginiamo una scampagnata, al mare o in montagna non faceva differenza, il gruppo, al termine di una pantagruelica mangiata, decideva di fare una foto per tramandare nei secoli il ricordo della bella giornata, a questo punto l’unico componente del gruppo titolare di una macchina fotografica, ammucchiava amici e parenti in un punto, possibilmente panoramico, inquadrava la scena e, di colpo, si rendeva conto che la sua immagine non sarebbe stata tramandata nei secoli dei secoli.

Allora scattava la modalità “autoscatto”: il fotografo appoggiava la fotocamera su un sostegno qualsiasi, per esempio un masso, una staccionata o, nel caso dei più previdenti, un cavalletto, poi inquadrava la scena, di solito accucciandosi a terra in modo da poter guardare attraverso il mirino, quindi individuava il posto da occupare nella fotografia, azionava una misteriosa levetta e infine balzava, con scatto felino, all’interno della fotografia.

A quei tempi esisteva una cosa misteriosa che si chiamava pellicola che andava sviluppata, mediante una complessa procedura così da ottenere un negativo che, una volta stampato, permetteva di ottenere le fotografia: questo significa che lo scatto sarebbe stato visibile dopo alcuni giorni (talora settimane) e quindi bisognava sperare che l’inquadratura fosse giusta, giusta l’esposizione, giusta l’espressione dei personaggi ritratti.

In realtà le fotografie erano abbastanza deludenti: inquadrature sbilenche, schiena del fotografo in primo piano, espressioni di stupore, bocche atteggiate a grida di incitamento (sempre all’indirizzo del fotografo).

Non erano fotografie da concorso, ma era divertentissimo scattarle.

In fondo anche i selfie (ma che brutto neologismo) non sono foto da concorso.

In occasione del Fuori Salone Milano era punteggiata di poltrone, sgabelli e similari con una didascalia che invitava i passanti a sedersi, scattare un selfie e postarlo non so bene dove.

Milano

Passi di notte.

Qualche tempo fa mi sono regalata una serata a Bergamo, in città alta, perché mi piace la sua atmosfera, soprattutto nelle serate invernali, quando la nebbia sale lentamente dal basso e scivola lungo le mura e i palazzi e non c’è tanta gente in giro.

E’ bello salire in funicolare mentre il panorama si allarga sulla città bassa punteggiata di centinaia di luci.

E’ bello camminare sul selciato  lucido, costeggiando i palazzi antichi e silenziosi.

Poi, quando la campana maggiore, il Campanone, ha suonato i cento rintocchi che un tempo annunciavano la chiusura delle porte, è ora di tornare a casa e allora la discesa delle scale impervie regala scorci e silenzi e suoni di passi attutiti dalla foschia.

Ogni passo nel buio ha un’eco e  percorrere le scale deserte è come immergersi nel grembo della notte.

Bergamo

Fotografie mai scattate.

La fotografia digitale ha indubbiamente ampliato le occasioni di creatività e permette al fotografo una maggiore libertà che, tuttavia, non sempre corrisponde ad una accresciuta qualità delle immagini.

Un tempo si partiva  con una scorta di rullini che si supponeva adeguata alla durata del viaggio e ci si ritrovava, talvolta, a dover razionare gli scatti, a scegliere con grande attenzione le inquadrature, a studiare la messa a fuoco in modo quasi maniacale perchè non ci si poteva permettere i lusso di buttar via qualche foto anche perchè in alcuni paesi dell’Europa orientale era un’impresa riuscire a procurarsi un rullino di diapositive quando si restava a corto di materiale sensibile.

Poi si tornava a casa e bisognava aspettare quasi due settimane per vedere e immagini de viaggio e, solo allora, si scopriva se l’attenzione riposta in ogni inquadratura era stata sufficiente a conservare un ricordo.

Prima ancora le foto erano affidate alla perizia di un professionista (o quasi) o di un parente abbastanza facoltoso da possedere una macchina fotografica, si stava in posa, con l’abito buono, i capelli ben ravviati, il sorriso stampato su viso e le fotografie, rigorosamente in bianco e nero, venivano conservate in album dalla copertina di cuoio un po’ polveroso da sfogliare nelle riunioni di famiglia.

Oggi che siamo accerchiati da fotocamere, telefonini e mille altre diavolerie fotografiamo proprio tutto, senza prestare tanta attenzione a ciò che facciamo, perchè l’immagine la vediamo subito e l’unico limite che ci poniamo è la capacità della memoria.

L’unico rammarico sono le fotografie mai scattate, quelle che non entreranno mai più negli album polverosi, le immagini di chi non c’è più e che conserviamo nella mente e nel cuore.

elementare
 

Lassa pur ch’el mund el disa.

“Ma Milan l’é on gran Milan”, cantava Giovanni D’Anzi, perdutamente innamorato della sua (e della mia) città che si allarga in mezzo alla pianura all’ombra della Madonnina.

Chissà cosa avrebbe scritto e cantato aggirandosi ai piedi dei nuovi grattacieli, chissà quale sorridente affettuosa ironia sarebbe scaturita dai suoi versi?

Dite pure quel che volete, ma la Unicredit Tower (per intenderci il grattacielo che sorge davanti alla stazione Garibaldi, riconoscibile da lontano per l’aguzzo pinnacolo) mi piace, ma soprattutto mi piace la piazza interna, coperta da un velo d’acqua, lucida di vetri e di ottoni che dà un po’ l’impressione (solo l’impressione, per carità) di aggirarsi nel quartiere della Défense di Parigi.

Mi piace questa mia città che riesce sempre ad armonizzare il nuovo e l’antico in un gioco di giustapposizioni ardite e mai banali.

Mi piace.

O forse sono anch’io perdutamente innamorata di Milano e riesco a trovarle solo pregi.

Milano