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La teoria del tutto.

Questa sera ho visto in anteprima (uscirà nelle sale italiane il 15 gennaio) il film sulla vita dell’astrofisico Stephen Hawking tratto dal libro scritto dalla ex moglie dello scienziato: “La teoria del tutto“.

Si tratta di una storia bellissima  commovente, ma a tratti anche divertente, che percorre la vita Hawing tra la decadenza fisica e l’eccellenza intellettuale, una storia non facile da narrare senza cadere nella banalità di un racconto un po’ agiografico.

Splendidi i giovani protagonisti: Felicity Jones che riesce a rendere la lucida determinazione di Jane Hawking, la donna innamorata che si fa carico della salute del marito, e Eddie Redmayne (premiato ieri con il Golden Globe come migliore attore in un film drammatico) che, soprattutto nella seconda parte del film, riesce a recitare con lo sguardo che trasmette un’infinita dolcezza.

E’ un gran bel film che consiglio di vedere, magari con un’adeguata scorta di fazzoletti.

Tornare al futuro.

Il 2015 è iniziato da poche ore, il mitico 2015 nel quale veniva catapultato il giovane Marty Mcfly che, dopo il viaggio nel 1955, si trovava nell’impellente necessità di recarsi nel futuro per sistemare qualche improbabile frattura nel continuum temporale.

Certo oggi non abbiamo skateboard o auto volanti che si muovono usando rifiuti come carburante, il futuro sembra un po’ meno avveniristico di come lo immaginavano i creatori della celebre trilogia, in compenso avremo Expo e un cielo popolato da ronzanti droni manovrati da ragazzini non molto esperti (ho vissuto il brivido di un incontro ravvicinato con uno di questi u.f.o. proprio il giorno di Natale).

Come già era successo con il 2001, così diverso dal mondo immaginato da Kubrick, il futuro, nell’immaginazione di scrittori e sceneggiatori è l’ “undiscovered country” che, quando è ancora lontano, offre la possibilità di scatenare la fantasia, di sognare invenzioni e scoperte, di proiettare desideri e paure.

Poi, quando il futuro arriva, magari scopriamo che è un po’ più “normale”, un po’ più banale, un po’ più rassicurante.

Dal libro al film.

Non amo le trasposizioni cinematografiche dei romanzi di Agatha Christie (e mi risulta che non le amasse neppure la celebre scrittrice), mentre ho letto e riletto più volte le sue storie appassionandomi ogni volta alla incredibile attività di creare intrecci geniali ed atmosfere ricche di suggestioni.

Sono proprio le atmosfere che i film non riescono a riprodurre: non è facile infatti ricreare la quieta banalità di un salotto vittoriano, di una grande villa di campagna, di un albergo antiquato nel cuore di Londra dove sembra che nulla succeda, che la vita trascorra tra un tè delle cinque e un pranzo in famiglia nella più assoluta normalità, anche se le relazioni tra le persone raramente sono quelle che sembrano e sotto la quiete  apparente si agitano tensioni e malvagità che, fatalmente, portano al delitto.

L’autrice prende  per mano il lettore e lo guida attraverso il racconto senza nascondere nulla, ma barando senza alcuna clemenza così, alla fine, il povero malcapitato, irretito tra colonnelli in pensione e vecchiette zuccherose, tra giovani scapestrati e vicari un po’ svaniti, si trova improvvisamente al cospetto della soluzione del delitto assolutamente logica, ma altrettanto assolutamente inaspettata.

Sono convinta che le immagini siano poco adatte per raccontare il complesso districarsi della storia, le infinite sfaccettature dei personaggi (che rischiano di ridursi a grottesche macchiette), i profumi stantii e i colori un po’ spenti degli ambienti.

Per questo continuo a leggere i libri.

Omate Villa Trivulzio

Vestirsi di luce.

Martedì 16 settembre si è svolta a Milano la “Vogue Fashion’s Night Out”  che ha visto le vie intorno al Duomo e nel Quadrilatero, illuminate a giorno, animarsi di eventi, di musica a tutto volume, di folle vaganti da un negozio all’altro, da un aperitivo all’altro.

C’era solo un angolo silenzioso, lungo il camminamento che porta da Corso Venezia porta  al teatro San Babila, dove le sarte esperte dell’Atelier Sangalli erano al lavoro con macchine da cucire e telai per mostrare come nascono le  creazioni della casa di Haute Couture.

Il percorso proseguiva poi all’interno del teatro con la mostra fotografica “Valentina Cortese, la Diva”, progettata da Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti, che testimonia, attraverso trenta immagini, l’eleganza e lo stile della grande attrice.

Ma la vera sorpresa, dopo aver visitato la mostra, si trovava nella sala buia del teatro dove, sul palcoscenico, ha preso vita la performance “Light my Night” di Federico Sangalli: un prezioso omaggio all’eleganza e al glamour.

Nel buio della sala, come per magia, si poteva scorgere un elegantissimo abito da sera in organza percorsa da fibra ottica, luminoso e incantato, una creazione tra tradizione e innovazione, un abito brillante di luce propria come una stella creato per rendere omaggio ad una delle grandi stelle della prosa e del cinema.

Milano
 

Diagon Alley.

In questi giorni, tra la fine delle vacanze e l’inizio della scuola, le cartolerie e i centri commerciali espongono in bella mostra tutto l’occorrente (e anche di più) per la scuola: i ragazzi si aggirano fra zaini all’ultima moda, diari improbabili, pile di quaderni dalle copertine variopinte e pastelli colorati tutti ben ordinati nelle scatole (chi non ricorda le mitiche Caran d’Ache?).

L’acquisto di libri e materiali richiede ogni anno un dispendio non indifferente di tempo, soldi ed energie: anche per i nostri studenti ci vorrebbe una Diagon Alley, la mitica lunghissima strada in ciottoli celata dietro il “paiolo Magico” dove aggirarsi, come Harry Potter, armati di una lista di materiali indispensabili sicuri di trovare, in pochi minuti, tutto l’occorrente per il nuovo anno scolastico (e ci vorrebbe anche una Gringott, la banca dei folletti, dove rifornirsi di quantità incommensurabili di monete).

Purtroppo non esiste una strada magica dove acquistare presto e bene e le famiglie non hanno a disposizione il caveau di una banca fatata, ma bisogna fare i conti con la realtà.

E’ anche per venire incontro alle famiglie, oltre che logicamente per rispondere ad esigenze squisitamente didattiche, che nella mia scuola molti di noi hanno deciso di non far acquistare i libri di testo, ma di lavorare con materiali alternativi, grazie anche all’uso della LIM.

Friburgo (Germania)

Oh Capitano, mio Capitano.

Ho cominciato ad amarlo tanti anni fa quando la televisione italiana cominciò a trasmettere i telefilm in cui  interpretava lo stralunato alieno Mork con il suo “na-no na-no”.

Ho imparato che una guerra si può guardare con occhi diversi  dopo aver visto “Good Morning Vietnam

Mi sono commossa fino alle lacrime nel vederlo interpretare un padre che si traveste da vecchia tata (decisamente bruttina) per stare accanto ai propri figli in “Mr. Doubtfire“.

Ma soprattutto Robin Williams, per me, è il professor Keating in uno dei film che amo di più, “L’attimo fuggente“: è il “Capitano, mio Capitano”.

Quante volte ho pensato che molte scelte del mio essere insegnante provengono proprio dall’invito a salire in piedi sulla cattedra per cambiare punto di vista, dal gettare il libro nel cestino per costruire un percorso di conoscenza insieme ai ragazzi.

Ora che l’attore Robin Williams è morto so che mi mancherà, mi mancheranno le storie da lui raccontate, storie in cui il sorriso si mischiava spesso con le lacrime e con la riflessione.

Mi mancheranno soprattutto le altre storie che la sua maturità ci avrebbe regalato.

Cavenago

Squali.

Ho notato (complice l’insonnia da afa)  che le notti estive ripropongono ogni anno, come un tormentone, la programmazione dei mitici film degli anni ’70/’80 incentrati su un famelico e arrabbiatissimo squalo bianco che semina morte e terrore sulle spiagge delle vacanze.

Si tratta di una vera e propria saga composta da quattro film che raccontano storie molto simili (e anche un po’ ingenue e prevedibili). c’è un personaggio mediamente malvagio e mediamente stupido che, per brama di profitto o per leggerezza, scatena la folle rabbia dell’animale, dopo di che si susseguono gli attacchi a bagnanti indifesi (buoni o cattivi non importa, lo squalo non fa distinzioni) fino a quando uno o più personaggi nobili e buoni riescono a far fuori, in modo rocambolesco e spettacolare la bestiaccia assetata di sangue.

Sono ingenui anche gli effetti decisamente poco speciali, come è ingenuo l’accanirsi dello squalo contro Martin Brody e i membri della sua famiglia, quasi si trattasse di una riedizione hollywoodiana del Colombre.

faccio sommessamente notare che ci vuole un bel senso dell’ humor (nero direi) a trasmettere questi film mentre orde di vacanzieri si preparano ad invadere spiagge e litorali.

E’ un po’ come proiettare “Airport” durante un volo intercontinentale.

Finale ligure

Cinema d’estate.

L’estate non è una stagione molto propizia per andare al cinema, sarà a causa del caldo che fa preferire lo stare all’aperto invece di chiudersi in una sala cinematografica (anche se adeguatamente climatizzata), sarà perchè le città, a poco a poco, si spopolano.

Una volta, quando ero bambina, c’erano i cinema all’aperto: si trattava di spazi tra gli edifici dove veniva allestita una sala cinematografica sotto le stelle, con sedie legno o panche (decisamente meno comode per via della mancanza dello schienale) saltate fuori da chissà dove e un telone di fortuna.

Andavo al cinema con mia nonna e i miei prozii, in un cinema all’aperto in periferia (i prozii abitavano a Crescenzago) e ricordo ancora i film in bianco e nero (non si trattava certo di prime visioni), inevitabilmente fuori sincrono, con le luci che si riflettevano sugli edifici circostanti dove, dalle finestre spalancate, si affacciava un pubblico in camicia da notte e canottiera evidentemente non pagante, mentre intorno aleggiavano nugoli di moscerini e zanzare.

Non si trattava certo di avveniristici multisala, le immagini erano sfocate e i suoni rimbombanti, ma lì vicino c’era sempre un ambulante che vendeva fette d’anguria gelata e tanto bastava perchè fosse una festa,

Notte mondiale.

Avevo giurato a me stessa che non avrei visto la partita per svariati motivi: in fondo il calcio non mi interessa molto e ne capisco poco, non mi va di guardare un incontro che so che finirà alle due di notte, Manaus non evoca nel mio immaginario personale l’idea di ventidue ragazzotti che inseguono un pallone, ma le atmosfere dei film di Herzog.

Ma poi…

Se è vero che “Sanremo è Sanremo” è anche vero che la Nazionale è la Nazionale e mi è bastato, nello zapping notturno prima di assopirmi,  scorgere delle magliette azzurre per restare incollata allo schermo, davanti ad uno spettacolo che capisco poco e che poco mi interessa, fino ai fatidici cinque minuti di recupero finali.

Ad un certo punto mi sono fatta coinvolgere da un tifo quasi fantozziano, perché Italia-Inghilterra è una partita dal gusto sempre un po’ particolare

La vittoria della Nazionale, se non altro, mi ha un po’ ripagato del rimbambimento da sonno mancante.

 

Un cuore grande.

Non capisco molto del dialetto partenopeo, ma Massimo Troisi lo capivo benissimo, mi piaceva la sua mimica, il suo parlare smozzicato, quasi simile ad un balbettio, con il quale riusciva a trasmettere idee e pensieri.

Ricordo i suoi inizi con la Smorfia, il suo umorismo surreale, la capacità infinita di raccontare una Napoli un po’ anacronistica, fatta di tradizioni, di superstizioni, ma anche di lavoro (che spesso non c’è), di religione e religiosità, di fortuna (da cercare giocando al lotto i numeri di un sogno, di un avvenimento, interpretati proprio attraverso la “smorfia”).

Ho riso fino alle lacrime vedendo “Non ci resta che piangere” con la riedizione, in chiave medievale, della lettera di Totò, con le canzoni improvvisate per far colpo sulla  donzella di cui si era invaghito.

Mi sono commossa con il “Postino” che ha il sapore un po’ amaro di un addio struggente.

Vent’anni fa il suo grande cuore generoso, il suo cuore malato si fermava per sempre.