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E’ una buona giornata.

Oggi finalmente è spuntato il sole, dopo queste vacanze natalizie all’insegna del freddo, della pioggia e della nuvolaglia incombente oggi è una buona giornata.

Ed è una buona giornata per tornare a Betlemme, nella Betlemme di cartapesta costruita nella piazza del paese che tra poche ore si animerà di pastori, popolani, soldati romani, guardie del tempio e del variopinto ed esotico corteo dei Magi.

Nel post di ieri ho parlato di questa tradizione che ha un po’ il sapore delle Sacre Rappresentazioni medievali e, come tale, non ha solo il valore di festa-spettacolo, ma diventa anche un momento di rilettura delle Scritture e di meditazione.

Ritrovarsi davanti alla grotta di Betlemme, anche se fittizia, ritrovarsi davanti alla Sacra Famiglia nella sua estrema povertà ed umiltà aiuta a ritrovare il senso profondo del messaggio cristiano che è un messaggio di amore, accoglienza, attenzione agli ultimi, condivisione e solidarietà.

Spero che lo splendido sole di oggi illumini non solo la piazza, ma anche le menti di quanti assisteranno alla rappresentazione e che i presenti, anche se attirati da un sentimentale desiderio di festa, colgano l’occasione per ripensare ai propri comportamenti.

Quasi una tradizione.

Come ogni anno, nel giorno dell’Epifania, nel mio paese si organizza il “Presepe Vivente” che ormai è giunto alla tredicesima edizione.

La manifestazione vede impegnati più di duecento volontari che lavorano per allestire e distribuire i costumi, per costruire e montare i fondali, per organizzare la regia, le musiche, la sicurezza e, infine, per recitare in quella che è diventata una vera e propria Sacra Rappresentazione.

Nei giorni precedenti la festa la piazza di Cavenago e il sagrato della chiesa si trasformano in un angolo di Betlemme, con case, botteghe e il palazzo di Erode poi, nelle prime ore del pomeriggio, la piazza si popola di figuranti mentre la voce narrante racconta gli eventi dall’annunciazione all’arrivo dei Magi.

Di solito il ruolo più importante, quello di Gesù bambino, viene affidato ad uno degli ultimi nati del paese.

Si tratta ormai di una tradizione consolidata, la macchina organizzativa è ben oliata e riesce ad andare in scena anche in condizioni meteorologiche difficili, come è successo con l’abbondante nevicata dello scorso anno.

E domani si replica.

Cavenago Presepe vivente

Le parole dette.

Se c’è qualcosa che amo di più che raccontare è sicuramente ascoltare qualcuno che racconta.

Sarà per questo motivo che mi appassiona il teatro di narrazione, quello di Marco Paolini, per intenderci, mi appassionano i ricordi, le divagazioni, i ritratti di personaggi tratteggiati con pochi aggettivi pregnanti.

In casa mia si è sempre raccontato molto: le mie nonne, pur nella diversità dei loro caratteri, raccontavano spesso le storie di famiglia che si intrecciavano inevitabilmente con la Storia, quella con la s maiuscola.

Mio nonno invece, parmense di nascita e innamorato del melodramma, come tantissimi suoi conterranei, mi raccontava le opere liriche, come se fossero favole e io preferivo quella che è la più favola di tutte: Turandot.

Mio padre ogni tanto usciva dal suo silenzioso riserbo e mi raccontava la guerra in Libia e il campo di concentramento in Sudafrica e io provavo un brivido sottile nel rivivere con lui le storie di paura, coraggio, dolore e amicizia che avevano attraversato la sua vita di giovane uomo poco più che ventenne.

Mi sono spesso pentita di non aver registrato i suoi racconti, perchè ora risentirei la sua voce e riuscirei a ricordare tutti quei minuti particolari che, ora che non c’è più, si sono persi per sempre.

Nella mia mente si affollano spesso ricordi non miei, rievocati da voci narranti il cui suono mi è caro perchè è il suono della mia’infanzia di bimba molto amata e ogni tanto mi sforzo di fissare sulla carta quelle parole dette per paura che scivolino via.

A conti fatti.

Dopo una dibattutissima riunione di programmazione me ne sono tornata a casa un po’ depressa: facendo tutti i calcoli sul nuovo assetto orario risulta piuttosto evidente che sarà impossibile, per il prossimo anno scolastico, mantenere i laoratori così come si svolgevano negli anni scorsi.

Da moltissimi anni gestisco il laboratorio teatrale a classi aperte (in verticale e in orizzontale) che ha permesse a tanti ragazzini di appassionarsi a questa forma d’arte, di partecipare alla rassegna teatrale del distretto, confrontandosi con i coetanei che avevano vissuto esperienze analoghe, di salire su un palcoscenico vincendo la paura e controllando l’emozione.

Mi spiace che questa attività, come tante altre (strumento musicale, sport etc.), non sarà più possibile se non in forma molto limitata, mi spiace che vadano perdute tante professionalità, che tanti ragazzini si debbano accontentare di un’offerta meno qualificata, ma purtroppo non vedo alternative.

Grazie per questa scuola che educa un po’ meno, che insegna un po’ meno.

La Parola ai Giurati.

Ieri sera non era certo la serata giusta per andarsene a zonzo per Milano, ma quando si è prenotata una poltrona a teatro con largo anticipo bisogna farsi coraggio e affrontare la notte di tregenda.

Così, un po’ fortunosamente, un gruppetto di disperati infreddoliti si è riunito, verso le otto, nel foyer del Teatro Manzoni per assistere allo spettacolo “La parola ai Giurati“, tratto dal testo di Reginald Rose con Alessandro Gassman.

La trama è piuttosto semplice: dodici giurati si ritrovano in camera di consiglio, in un torrido pomeriggio di agosto, per pronunciare un verdetto di colpevolezza che pare scontato, uno di loro, però, ha un ragionevole dubbio e, confutando le prove indiziarie a carico del giovane omicida, a poco a poco riesce ad insinuare i dubbi anche nella mente degli altri giurati, fino a raggiungere un verdetto di innocenza.

Lo spettacolo è giocato sul contrasto fra i caratteri dei personaggi, così diversi fra loro, sui pregiudizi, sulle false certezze e sulle sofferenze individuali, non è solo un lavoro teatrale contro la pena di morte, ma anche contro un atteggiamento piuttosto diffuso che spinge a giudicare gli altri non in base ai fatti, ma all’opinione comune.

La messa in scena ricalca, in modo piuttosto fedele, l’omonimo film del 1957 con un indimenticbile Henry Fonda anche se ci sono spunti che richiamano in modo evidente l’attualità.

Comunque penso che sia valsa la pene di strapparsi dal calduccio di casa per passare una serata a teatro.

Strehler è sempre Strehler.

Ho trovato in edicola il dvd del “Re Lear” di Shakespeare messo in scena dal “Piccolo” molti anni fa, nel 1972, con la regia di Giorgio Strehler e l’interpretazione di un gigante del palcoscenico come Tino Carraro.

Non ho saputo (e voluto) resistere alla tentazione di acquistarlo e mi sono goduta lo spettacolo che avevo avuto la fortuna di vedere dal vivo in quegli anni quando, quasi ventenne, frequentavo con il fidanzatino di allora (oggi mio marito), con il quale condividevo e condivido la passione per il palcoscenico, i teatri milanesi.

Mi sembra di ricordare, ma forse è solo nostalgia dettata dalla lontananza nel tempo, che fosse un periodo di grandi eventi culturali ai quali riuscivamo a partecipare senza grandi difficoltà finanziarie (benchè fossi ancora una liceale e avessi sempre pochi soldi in tasca), mi sembra di ricordare spettacoli messi in scena da grandi registi e con attori che avevano alle spalle una solidissima professionalità.

Anche oggi, all’inizio della stagione teatrale, do un’occhiata al cartellone dei vari teatri, ma difficilmente resto attratta da qualche produzione, sarà forse pigrizia, sarà mancanza di tempo, sarà che la mancanza di soldi è sempre cronica, ma non riesco più a frequentare il teatro come una volta.

re lear

Passione.

Oggi pomeriggio ho partecipato alla riunione conclusiva della XXI Rassegna “Un palcoscenico per i ragazzi”, si tratta di una rassegna teatrale, organizzata nel distretto di Vimercate, ma aperta alla partecipazione di scuole, di ogni ordine e grado (come si suol dire) anche di altri distretti.

Ci siamo ritrovati per fare il punto della situazione, analizzare l’esperienza dello scorso anno e gettare le basi per la rassegna del prossimo: una trentina di insegnanti, alcuni ormai vicini alla pensione, animati dall’amore per il teatro e dalla passione per la sfida educativa.

Mentre discutevamo animatamente di difficoltà e soluzioni, di ostacoli da superare, di problemi di natura economica (si sa i soldi non bastano mai), di valore educativo e formativo dell’esperienza teatrale nella quale quello che conta veramente non è tanto il successo dello spettacolo finale ma il percorso di crescita che porta alla spettacolarizzazione di quanto prodotto, mi sono guardata intorno e ho visto tante persone innamorate del proprio lavoro, preoccupate di comunicare la propria passione ai ragazzi pur nel rispetto dei loro tempi e delle loro esigenze.

Come vorrei che fossero stati presenti alcuni di coloro che vanno blaterando di scuola allo sfascio!

Amleto.

Quando il sipario si apre la scena è scura, disadorna, sul palcoscenico c’è una tavola inclinata verso il pubblico e un sedile che ricorda vagamente un trono, un fascio di luce illumina Lella Costa ripiegata su se stessa.

Poi lo spettacolo inizia, l’attrice racconta il mito eterno del principe di Danimarca sfatando pregiudizi, alternando brani di recitazione del testo di Shakespeare intensissimi ad un racconto attualizzato dal tono ironico e divertito.

Sulle tavole di legno che rievocano il Globe prendono forma i personaggi riconoscibili da gesti semplici, stereotipati: la regina che recita con una postura alla Francesca Bertini, Polonio che ricorda vagamente un Bruno Vespa ante-litteram, sempre acquattato dietro un arazzo, con il suo plastico del castello di Elsinore, a spiare i fatti altrui, Laerte giovane palestrato in partenza per la Francia (dove probabilmente parteciperà ad un reality), Ofelia dolcissima e remissiva.

Tra un sorriso e un silenzio carico di emozioni la storia si snoda per due “brevissime” ore, il punto più alto della rappesentazione è logicamente il monologo (il celeberrimo e citatissimo “essere o non essere”) nel quale l’attrice ripercorre le domande esistenziali che ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, si è posto.

Poi “il resto è silenzio” e sulla scena cade improvviso il buio.

Imparare a leggere.

Finalmente è iniziato il corso di lettura ad alta voce, cinque incontri serali, dalle 21 alle 23: arrivo in biblioteca, infreddolita, sotto la pioggia battente che in questi giorni imperversa dalle mie parti, è una serataccia che avrei trascorso volentieri in casa, ma un impegno è un impegno.

Cerco di scacciare il vago sentimento di pentimento che si insinua nella mia mente, entro nella sala adibita al corso, c’è un lungo tavolo illuminato da alcuni faretti e un leggio.

A poco a poco arrivano anche gli altri partecipanti, alla spicciolata, una decina in tutto (io per principio arrivo sempre in anticipo), l’insegnante si presenta, c’è un po’ di imbarazzo, poi cominciamo gli esercizi: ciascuno di noi deve presentarsi secondo una modalità diversa, a me toccano i toni e la postura di un politico impegnato in un comizio.

Dopo le prime frasi cominciamo a scioglierci e a metterci in gioco, il buon umore serpeggia intorno al tavolo, l’esercizio si rivela davvero divertente così, quando dobbiamo impegnarci nella lettura di un articolo di giornale come se fossimo degli animali, siamo ben decisi a mettere da parte ogni timidezza.

La serata si conclude con la lettura di alcuni brani da “Esercizi di stile” di Queneau, quando ci alziamo per uscire ci rendiamo conto che la lezione, benchè impegnativa dopo una giornata di lavoro, è stata liberatoria ed il tempo è volato.

Valeva veramente la pena di uscire  di  casa in una piovosa sera di gennaio.

Processo a Dio.

Processo a Dio” non è solo uno spettacolo teatrale, ma un’esperienza forte che lascia il pubblico ammutolito, quasi senza fiato, prima dell’applauso finale liberatorio.

Ottavia Piccolo interpreta la figura titanica di Elga Firsch, un’attrice di origini ebraiche deportata al campo di Maidanek e straordinariamente sopravvissuta, che, dopo la liberazione del campo, durante l’ultima notte, decide di istruire un processo e portare Dio alla sbarra per chiedere conto delle sofferenze del suo popolo.

E così, in una baracca di legno adibita a magazzino, cinque personaggi, tra i quali il vecchio rabbino Nachman e due anziani della comunità di Francoforte, tengono il loro drammatico processo alla presenza di un ufficiale nazista prigioniero: il dibattimento ruota non tanto intorno al dolore, ma alla mancanza di senso della Shoà.

I cinque capi d’accusa, che Elga documenta drammaticamente con prove raccolte nel campo, tendono a dimostrare non solo che Dio ha abbandonato il suo popolo, ma che in qualche modo ha assistito come muto testimone, e quindi come complice, allo sterminio, mentre il rabbino argomenta che l’olocausto non è avvenuto per volontà e responsabilità di Dio, ma dell’uomo che vuole farsi simile a Dio, in uno sfrenato delirio d’onnipotenza.

Il finale resta sospeso nel dubbio, sarà Dio stesso ad emettere la sentenza.