Archivio mensile:Maggio 2020

Abituarsi a vivere.

Per due mesi e passa siamo stati impegnati a preoccuparci della nostra salute e della nostra sicurezza, in una parola abbiamo cercato di “sopravvivere”, di sopravvivere al virus, alla paura, al dolore, all’isolamento.

Ora, dopo una decina di giorni dall’inizio della fatidica “fase due”, mentre ancora cerchiamo di decifrare i dati per comprendere se le parziali aperture hanno prodotto qualche danno , dobbiamo cominciare a pensare che è il momento di tornare a “vivere”.

E così ci chiediamo come sarà andare in un bar a bere un caffè, come sarà tornare in un ristorante, come sarà andare dal parrucchiere (perché è vero che l’estetica non è così fondamentale, ma la chioma incolta che ostruisce la vista è fastidiosa), come sarà visitare un museo, andare a teatro, o prendere un aereo.

Sì perché anche se apparentemente non è fondamentale andare a fare shopping o viaggiare tornare a vivere significa anche questo e quindi, con le dovute istruzioni, con tutte le cautele del caso e senza fretta sarà importante tornare a fare tutte quelle attività che solo tre mesi fa erano assolutamente “normali”.

E’ importante per l’economia, è importante per la nostra salute mentale (che non è meno prioritaria di quella fisica).

aperitivo

Cantando sotto la pioggia.

Oggi è stata una giornata piovosa che ha alternato una pioggia leggera a rovesci intensi in perfetto stile temporale estivo.

La pioggia ha logicamente frenato il desiderio di uscire di casa che, nell’ultima settimana, ha preso un po’ tutti ed è stata un deciso deterrente contro gli assembramenti (sotto il monsone con l’ombrello non solo è un problema assembrarsi, ma anche camminare senza tornare a casa fradici).

La pioggia ha impedito anche la mia sessione quotidiana di giardinaggio da balcone anzi, durante i momenti più intensi, scrutavo un po’ preoccupata i miei fiori percossi dal vento e dagli acquazzoni.

Eppure, anche sotto la pioggia, il “mio” merlo canterino, che mi tiene compagnia ogni giorno dalla sommità dell’albero davanti al mio balcone, era lì, imperterrito, con le piume un po’ arruffate, incurante delle secchiate d’acqua che il cielo gli rovesciava addosso e cantava con tutta la forza che aveva in corpo.

Il “mio” merlo è proprio un tipo tosto.

Cavenago di Brianza - Dal balcone

Le priorità.

A giudicare dai commenti nei notiziari e dalle discussioni nei vari salotti televisivi sono due le domande epocali in questo periodo: “Riprenderà il campionato di calcio?” e “Potremo andare in vacanza al mare?”.

Ora devo dire che la sorte del campionato di calcio mi appassiona pochissimo, che le partite si svolgano (rigorosamente a porte chiuse) o che si debba chiudere qui la competizione assegnando o non assegnando lo scudetto è una faccenda che mi interessa pochissimo, anche se posso comprendere che le implicazioni anche economiche dello svolgimento o dello sconvolgimento delle partite sono urgenti.

Delle vacanze al mare, tra spiagge contingentate e proposte di divisori in plexiglas, non discuto visto che vado in vacanza in montagna e, dalle mie parti, ci sono tanti sentieri e tanti boschi da scoraggiare qualsiasi assembramento.

Penso che quest’estate le mie vacanze saranno a chilometro zero o quasi visto che in Lombardia ci sono città d’arte, montagne, laghi, parchi naturali, piccoli borghi incantevoli, numerosi musei (alcuni dei quali quasi sconosciuti e visitati pochissimo) aree archeologiche e via discorrendo c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Abbiamo bisogno di bellezza e di tranquillità e la bellezza si può incontrare anche a pochi chilometri da casa, basta aver voglia di cercarla.

In battello da Lecco a Bellagio

Baklava.

So di essere una persona molto fortunata perché ho un figlio che ha la passione per la cucina, per cui vivo la fantastica condizione di avere un cuoco a domicilio.

Solitamente cucina piatti molto tradizionali come un bel risotto allo zafferano o le trofie col pesto o una pizza rigorosamente Margherita, ma di tanto in tanto si sbizzarrisce con esperimenti di cucina più esotica, prova cibi che abbiamo assaggiato in viaggio e che hanno il potere di risvegliare una serie di ricordi.

Così ieri è stato il turno della Baklava, un dolce a base di miele e frutta secca, pistacchi e mandorle soprattutto, che ho assaggiato in Turchia, in Grecia e in Azerbaijan e che comunque è diffusissimo, in diverse varianti, nei paesi che facevano parte dell’Impero Ottomano e nelle zone limitrofe.

La versione di casa è stata un po’ meno dolce di quella tradizionale, ma la variante non è un difetto, anzi ha contribuito ad esaltare il gusto delle mandorle e della cannella.

Assaggiare la Baklava mi ha fatto venire solo un po’ di nostalgia e, come le Madeleine di Proust, mi ha riportato per un attimo sul Bosforo e ho rivisto i palazzi eleganti sulla sponda asiatica e là, all’orizzonte, la sagoma delle moschee e dei minareti e ho sentito di nuovo i suoni e i profumi di Istanbul.

Istanbul

Un nigutin d’or.

L’espressione sicuramente suonerà un po’ oscura per chi non è nato a Milano e dintorni, ma è un’espressione che mi fa sempre sorridere perché fa parte del mio lessico familiare.

Quando ero bambina e in casa, con i miei genitori o con le nonne, si giocava a carte o a tombola io, che ero particolarmente competitiva e anche un tantino venale, chiedevo sempre “Cosa si vince?” e, in base alla risposta, decidevo se impegnarmi o meno.

La risposta era invariabilmente “Un bel nigutin d’or faa su in de la carta d’argent” (che tradotto significa grosso modo “un niente d’oro avvolto in carta d’argento”) risposta che non capivo, ma che solleticava la mia fantasia perché l’idea di un oggetto d’oro, avvolto in carta d’argento, mi incuriosiva e mi ingolosiva.

Mi sono presa tante “fregature” da bambina, ma erano fregature bonarie, amorevoli e sorridenti anche perché espresse in dialetto e il dialetto, che capivo a fatica, mi affascinava.

Sono cresciuta parlando sempre in italiano, ma ho sempre sentito parlare in dialetto in casa e ho imparato a capirlo e ad usarlo, in dialetto erano i racconti della nonna che parlava come me, con la erre un po’ francese, in dialetto erano i discorsi dei miei genitori, quando volevano che non capissi (ma poi ho imparato), in dialetto si raccontavano i pettegolezzi le amiche della nonna tra un bicchierino di vermut e i biscotti secchi, in dialetto parlavano il “cervelèe” e il “sciustrèe”.

Oggi, di tanto in tanto, anch’io parlo in dialetto, perché è la lingua della città in cui sono nata e che amo, parlo in dialetto quando mi rendo conto che espressioni come “barlafus” o “va’ a ciapà i ratt” tradotte in italiano perdono forza e non rendono bene l’idea che vogliono esprimere.

Milano - Dal Duomo

Dietro gli sguardi.

Si esce di casa con un po’ di cautela, cercando di mantenere le distanze (magari anche esagerando un po’: il metro raccomandato tende a dilatarsi a dismisura), ad ogni incontro ci si scruta con curiosità perché non sempre è facile riconoscere gli altri visto che le mascherine nascondono il volto e, in questi giorni di isolamento, siamo tutti un po’ cambiati.

I volti sono coperti, ma gli sguardi parlano e, quando si incontrano gli amici, gli occhi sorridono ed anche questo è un nuovo modo di comunicare.

Abbiamo imparato tante cose in questi giorni, abbiamo imparato a stare in coda, in modo ordinato, senza spintonarci, senza “fare i furbi”, abbiamo imparato la pazienza e la prudenza, abbiamo imparato, noi così affettuosi e “fisici”, a non abbracciarci, a non sfiorarci e ci siamo scoperti, non senza qualche stupore, più diligenti e disciplinati di quanto non avremmo osato sperare.

Oggi per strada ho incontrato tanti sguardi sorridenti, sguardi che esprimevano la gioia di incontrarsi di nuovo, sguardi forse ancora timorosi, sguardi pieni di speranza, sguardi amichevoli, sguardi che raccontavano la difficoltà di questi giorni e il desiderio di tornare a vivere.

Da Barzio a Introbio (occhi)

Il piacere di un caffè.

Mi spiace, ma per me bere un caffè al bar significa sedermi ad un tavolino e magari scambiare quattro chiacchiere (… da bar, appunto) con gli altri avventori e dare un’occhiata al giornale lasciato negligentemente su un tavolo vicino, bere un caffè significa concedermi una piccola piacevole pausa tra una corsa e l’altra.

Neanche da Starbucks riesco ad acquistare un caffè da asporto, non riesco a bere dai bicchieri di carta “con il coperchio”, a meno che non mi trovi in un aeroporto o a bordo di un aereo dove, qualche volta per ingannare il tempo, ordino un bicchierone di beverone scuro (caffè “americano”, lo chiamano) che si raffredda sul tavolino, mentre l’aereo scivola nell’aria.

Di conseguenza, in attesa che sia possibile bere un caffè seduta ad un tavolino, magari all’aperto, a debita distanza dagli altri avventori, verosimilmente senza mascherina (altrimenti sarebbe una bella impresa), rinuncio al caffè da asporto, anche perché sarebbe un problema berlo camminando per strada (sono un’imbranata cronica) e probabilmente, dovendo berlo a casa, dopo aver percorso un certo tratto di strada, dopo essermi tolta le scarpe, dopo essermi cambiata d’abito, dopo aver gettato guanti e mascherine e dopo essermi lavata accuratamente le mani, il caffè sarebbe irrimediabilmente gelido.

Milano - Caffetteria

Chiesa domestica.

E’ dall’inizio di questa quarantena che seguo la Messa domenicale sul canale che trasmette le celebrazioni liturgiche della Diocesi di Milano (solitamente dal Duomo), non è proprio come andare in chiesa, ma in questa situazione funziona ugualmente.

Alla domenica mi alzo per tempo, proprio come se dovessi andare a Messa, mi vesto di tutto punto e cerco un momento di raccoglimento prima che inizi la celebrazione che seguo con attenzione e partecipazione, senza farmi distrarre dal telefonino (che metto “in silenzioso” proprio come quando sono in chiesa.

So bene che la Messa è un rito comunitario, ma partecipando alla celebrazione in televisione ho la sensazione che tanti altri, in quel momento, siano lì con me e ascoltino le stesse parole e preghino insieme a me anche se lontani e separati.

In questi giorni ci sono state grandi discussioni sulle riaperture della fase due dalle quale sono esclusi i riti religiosi (tranne per quanto riguarda i funerali) e ci sono discussioni sul fatto che le celebrazioni nelle chiese cattoliche (ma anche in quelle protestanti e ortodosse, come pure nelle moschee e nelle sinagoghe) siano ancora sospese, ma, pur mancandomi la partecipazione al rito, da credente so che il Signore è anche qui, nella mia casa e che posso continuare a pregare e a credere anche qui.

Milano (Natale 2019) - Piazza del Duomo

Cosa farò lunedì?

Non credo che lunedì prossimo uscirò di casa, penso anzi che me ne starò al balcone a guardare cosa succede perché, dopo più di due mesi di clausura quasi ininterrotta, con poche sortite veloci di una decina di minuti per qualche acquisto e qualche commissione, voglio poter assaporare la prima camminata che, quasi sicuramente, non sarà molto lunga e molto veloce perché la mascherina toglie il fiato e i muscoli devono imparare di nuovo a muoversi.

Sarà un po’ come uscire dopo una lunga malattia, con la luce del sole che abbaglia, con l’aria aperta che provoca un senso di stordimento, con le gambe molli e indolenzite.

Non ho fretta di uscire, anche se ho un gran desiderio di uscire, voglio fare le cose con calma, con attenzione, mettendo un passo dopo l’altro, senza forzare, senza esagerare.

Voglio gustare il tepore del sole, i profumi, i colori, la consistenza del suolo sotto i piedi, voglio passeggiare riscoprendo i luoghi che conosco bene come se li vedessi per la prima volta: in fondo durante l’ultima passeggiata (credo che fosse il 22 febbraio) gli alberi erano ancora spogli, l’erba dei prati inaridita dall’inverno, indossavo vestiti invernali e mi proteggevo dal freddo con guanti e cappello.

Non ho fretta, non voglio avere fretta, perché il mio timore più grande è quello di sprofondare di nuovo nell’incubo che ha accompagnato tutti noi negli ultimi due mesi e so che non riuscirei a sopportarlo.

Cavenago di Brianza

E anche quest’anno è arrivato maggio.

Oggi è un Primo Maggio strano, un Primo Maggio con le piazze deserte, senza il concerto di Piazza San Giovanni, per molti senza lavoro, per molti con la paura di andare ogni giorno a lavorare, per molti con la paura di non tornare più a lavorare.

Non c’è voglia di festa, c’è preoccupazione, c’è uno sguardo oscuro sul futuro, ci sono i negozi, i ristoranti, i bar chiusi, c’è una grande incertezza sui modi e sui tempi della riapertura.

Ci sono interi settori come quelli legati al turismo, allo spettacolo, alla cultura che non riescono ancora a vedere un barlume di luce in fondo al tunnel.

Parlare di Lavoro oggi è veramente difficile e doloroso perché mai come ora il concetto di “Diritto al Lavoro” ha rischiato di essere un’espressione priva di significato.

Oggi mi sento solo di augurare a tutti di ricominciare, come e quando sarà possibile, con la stessa determinazione e l’immenso coraggio che ebbe la generazione dei miei genitori quando si è trovata a ricostruire una nazione dopo la seconda guerra mondiale.

Il futuro non sarà facile, ma noi siamo un popolo intelligente e creativo che, sono convinta, troverà il modo e la forza di ripartire.

Buon Primo Maggio a tutti.

Trezzo sull'Adda