Archivio mensile:Maggio 2020

Vacanze a corto raggio.

Per noi che viviamo nella terra di Lombardia pensare alle vacanze è abbastanza problematico: ci sono nazioni che, almeno per ora, ci sbarrano i confini, ci sono regioni che vorrebbero chiederci improbabili “passaporti sanitari”, siamo sempre timorosi che i numeri dei contagi possano risalire richiudendoci di nuovo in una “zona rossa”.

Come si fa a prenotare una vacanza, ma come si fa a anche solo a pensare alle vacanze in una situazione così aleatoria?

Temo che dovremo abituarci all’idea di vacanze “a chilometro zero” o quasi, almeno per l’estate imminente ed è un peccato per coloro che amano il mare visto e considerato che quello proprio ci manca.

Abbiamo splendidi laghi, però, e montagne dove a pochi chilometri dalla pianura ci si può perdere in immensi spazi verdi, dove è difficile immaginare che si possano creare i tanto famigerati assembramenti.

Io ho la fortuna di aver acquistato anni fa una casa tra le montagne della Valsassina, con un grande balcone affacciato su un bosco e penso che, quest’estate, non mi muoverò da lì.

Poi, in autunno, se non ci sarà la tanto temuta “seconda ondata” si vedrà.

Piani di Artavaggio (Luglio 2016)

L’emozione dell’incontro.

Era da tre mesi che non vedevo mia madre che vive in una Rsa, a poche decine di metri da casa mia e, anche se l’ho sentita spesso per telefono l’impossibilità di incontrarla, dovuta logicamente alle cautele per evitare possibili contagi, è stata molto dolorosa.

Oggi finalmente l’ho vista attraverso una finestra della struttura, mentre la guardavo potevamo anche parlarci grazie il telefono, ma, visto che mia madre è cieca, mi sono ben guardata dal dirle che ero lì, davanti a lei, perché temevo che se avesse saputo che ero presente senza poterla toccare e accarezzare, senza darle un bacio e un abbraccio, senza nessun contatto fisico , forse avrebbe sofferto di più.

L’ho ritrovata come sempre, serena e abbastanza tranquilla, consapevole della necessità della separazione, ma anche un po’ triste per la forzata separazione.

“Come stai?” le chiedo e mi chiede perché, in questo momento, la cosa che veramente conta è sapere che l’altra sta bene.

Ho un legame molto forte con mia madre, ho bisogno di proteggerla e di starle accanto e vederla così, dietro un vetro, anche se affidata alle cure amorevoli degli operatori e delle educatrici, mi ha provocato una forte emozione, ma è un’emozione buona.

Cabiria

Ricordo di un uomo.

Il 28 maggio 1980 veniva assassinato Walter Tobagi, giornalista impegnato, lucido scrittore, acuto accademico, ma soprattutto una persona per bene.

Aveva solo trentatré anni e io lo avevo incontrato in Università perché avevo sostenuto con lui l’esame di storia moderna (ricordo vagamente il corso su Lutero e Calvino e le implicazioni della Riforma nell’economia europea).

Per me era un insegnante di quelli che non fai fatica a seguire, una persona molto umana e accogliente durante l’esame, un uomo simpatico con cui non era difficile relazionarsi.

Ricordo la camera ardente, lo sconcerto e il dolore di quanti, anche se come me per poco, lo avevano incontrato, l’atmosfera “di piombo” di quegli anni nei quali, in città e in Università si viveva una tensione che ora è difficile comprendere e persino ricordare.

Scriveva: “Il passato è passato, ma il presente, da cui dipende strettamente il futuro, non può essere ignorato. Quest’ignoranza rappresenta un vero pericolo.

Milano - Centro

Difficili convivenze.

Tutte le mattine, mentre bevo il primo caffè con lo sguardo perso tra i fiori del mio balcone e cerco di programmare la giornata, arrivano con un’aria vagamente prepotente, da padroni di casa.

Sono due piccioni, presumo una coppia (o due affetti stabili), che hanno eletto i miei vasi fioriti a buffet della prima colazione.

Arrivano con un gran frullo d’ali, si posano con piglio deciso sul davanzale e cercano di attentare alle mie piantine di basilico (che hanno ripetutamente saccheggiato) o al piccolo limone che si sforza di far maturare dei minuscoli frutti verdissimi e profumati.

Non voglio dire che non amo gli animali, ma la convivenza con i due ingombranti (e ingordi) volatili mi risulta un po’ difficile anche perché, ogni mattina, allontanarli dalle mie preziose piantine è sempre più arduo infatti, anche se esco sul balcone e faccio rumore, restano lì, mi guardano tra l’imbambolato e l’infastidito e hanno tutta l’aria di ritenere che quella che dovrebbe andarsene sono io.

Cavenago di Brianza - Un ospite sul balcone

Ofelè fa el to mesté !

Il dialetto milanese ha una serie infinita di modi di dire, ricchi di arguzia e ironia, che esprimono idee che sarebbe difficile tradurre in italiano con la stessa immediatezza e incisività: “Ofelè fa el to mesté” è una di queste, è una frasetta che significa letteralmente “pasticciere fa’ il tuo mestiere” e viene usata per rimettere al loro posto quanti si credono esperti di lavori e materie che non sono in grado di affrontare.

In questi tempi in cui tutti si sentono esperti di politica, virologia, economia, gestione delle crisi, epidemiologia, statistica e molti si sentono in dovere di parlare a sproposito nei salotti televisivi o nelle conferenze stampa o nei bar ci sarebbe voluta mia nonna che, con il suo dialetto stretto, li avrebbe sicuramente apostrofati con il più meneghino degli “Ofelè fa el to mesté !”.

Penso che sarebbe una buona norma, se non si è esperti di un argomento a proposito del quale si è invitati (o non invitati) a parlare di astenersi dalle esternazioni estemporanee o, quanto meno, di documentarsi su fonti attendibili o, meglio ancora, di farsi affiancare e di avere l’umiltà di fidarsi di qualcuno che sia veramente esperto, altrimenti si corre il rischio di fare danni.

Purtroppo il mondo è pieno di “ofelè” che si sono un po’ montati la testa.

Vale sempre la regola dettata da quel genio di Oscar Wilde: “A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio.”

Bergamo - Aeroporto di Orio al Serio

Il bivio di Capaci.

Quando, arrivando dall’aeroporto di Punta Raisi, ci si avvicina a Palermo sull’autostrada A19 si passa sotto il cartello che indica l’uscita per Capaci, lì vicino c’è una grande stele che ricorda le vittime dell’attentato ed è impossibile non sentire un brivido di sgomento.

In alto, sulle destra, una piccola costruzione bianca con la scritta “No mafia” è il luogo dove era appostato Brusca pronto ad azionare il denotanore.

Il 23 maggio 1992 persero la vita il giudice antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicilio.

Anche se sono passati 28 anni il tempo trascorso non può cancellare le emozioni di quel maggio del 1992, non può cancellare il ricordo di quella voragine aperta nell’asfalto e l’impressione del boato, non udito, ma solo immaginato, e la profonda desolazione per quell’attimo che inghiotte l’uomo che era divenuto il simbolo della guerra al potere di Cosa Nostra.

Quando si passa sotto il cartello del bivio di Capaci ora l’asfalto è liscio, ma basta alzare lo sguardo per ricordare e per decidere da che parte stare.

“Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana.” (Giovanni Falcone)

Palermo (Sicilia)

Bisogna crederci.

Questa sera, mentre stavo sul balcone a dialogare con il “mio” merlo che per l’occasione aveva cambiato albero, penso per eludere la mia sorveglianza, lo sguardo è scivolato sulle nuvole scure e all’improvviso l’ho visto, tenue e appena accennato, l’arcobaleno.

Dopo tanti giorni di arcobaleni ben auguranti disegnati dai bambini, appesi sulle finestre e sui cancelli per raccontarci che “andrà tutto bene”, vedere un arcobaleno “vero”, in un angolo del cielo, mi ha riempito di gioia e di commozione.

Mi piacerebbe che fosse un po’ come l’arcobaleno che ha illuminato il cielo alla fine del diluvio di biblica memoria, mi piacerebbe che fosse un simbolo di rinascita, una promessa di pace dopo questi giorni travagliati.

Lo so che è un fenomeno fisico spiegabilissimo, ma mi piacerebbe credere che quel delicato arcobaleno sta lì a raccontarci che le cose andranno se non “bene”, almeno “meglio”.

In fondo basta crederci almeno un po’.

Cavenago di Brianza - Dal balcone

Domani sarebbero stati cent’anni.

Mio padre è nato il 18 maggio 1920 (proprio come San Giovanni Paolo II) e, se un male incurabile non lo avesse portato via prematuramente ventotto anni fa, domani compirebbe cent’anni e sarebbe qui, come tanti centenari, un po’ acciaccato, ma circondato da tanto affetto.

Era un uomo forte, mio padre, forte come le montagne che tanto amava, aveva vissuto appena ventenne la tragedia della guerra e la prigionia in Sudafrica, ne era tornato, uomo fatto, provato nel fisico, ma pronto a ricominciare e aveva messo su famiglia e aveva lavorato come un mulo per permette ai due figli di laurearsi (anche se noi, a colpi di borse di studio e di lavoretti estivi cercavamo di dargli una mano).

Con mio figlio era un nonno stupendo, uno di quei nonni che costruiscono giocattoli con i pezzi di legno presi nel bosco e che raccontano storie piene di immagini fantasiose, uno di quei nonni che ti insegna ad andare in montagna, a arrampicarsi sulle rocce a costruire dighe con i sassi nel torrente.

Ci manca tantissimo e tante volte ci chiediamo come si sarebbe trovato in questo mondo così diverso dal mondo di lavoro e sacrificio al quale era abituato.

Dovunque tu sia (ma io so che sei qui con noi) buon compleanno papà.

DERNA

Il primo caffè.

Era dal 23 febbraio che non bevevo un caffè al bar e mi ero ripromessa di non cedere alla tentazione dell’ asporto (mi siedo al tavolino persino da Starbucks, il che è tutto dire), ma dopo centinaia di caffè fatti in casa e bevuti sul balcone, non ce l’ho fatta più.

Sono entrata in un bar, rigorosamente da sola dopo aver disinfettato le mani, ho ordinato il mio espresso, ho atteso disciplinatamente nell’area adibita al ritiro ben lontana dal bancone, ho posato il denaro, ho ritirato il mio caffè e sono uscita all’esterno, per berlo in assoluta solitudine e in gran fretta.

Mi rattrista un po’ sorbire l’aromatica bevanda in piedi (come i cavalli), scottandomi le labbra per non restare troppo tempo senza la mascherina, in un bicchierino usa e getta dall’aria dimessa, ma, per lo meno, il profumo c’è, il sapore c’è e c’è, soprattutto, il gusto di una parzialissima “normalità” recuperata.

Il caffè nel bicchierino di carta è solo un primo passo, piccolo e difficile come piccole e difficili sono tutte le libertà che mi sono concessa in questi giorni: una passeggiata al parco nelle prime ore del pomeriggio (quando non c’è nessuno), una puntata in tintoria per portare a lavare i giacconi invernali, l’acquisto di un vaso di fiori, una breve visita in chiesa e al cimitero.

Sono piccole libertà, ma dopo tanti giorni “ai domiciliari” sono come tornare a vivere.

Caffè

Un anno in più per Parma.

Parma, una delle città più eleganti e vivibili d’Italia, patria di una gastronomia d’eccellenza, Parma dove aleggia ancora lo spirito di Maria Luigia, Parma capitale della musica e del bel canto, ricca di monumenti di grande bellezza e valore storico e artistico era stata pesantemente penalizzata dall’epidemia che ha sconvolto il mondo, infatti era stata proclamata Città Italiana della Cultura per il 2020, per quest’anno non a caso bisestile, in cui i viaggi, le visite guidate, il turismo sono stati annullati e i musei chiusi.

Parma non meritava una sorte simile perché è una città che vale sempre la pena di visitare sia per chi non c’è mai stato, sia per chi, pur conoscendola bene, ne è tanto innamorato da provare il desiderio di tornare di tanto in tanto.

Il Decreto “Rilancio” appena varato , anche se non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, sana questa ingiustizia ai danni della città che quindi sarà Capitale Italiana della Cultura anche per il 2021.

Sono sicura che Parma saprà cogliere questa occasione per mettersi in gran spolvero e attirare visitatori e “innamorati” nonostante le difficoltà del momento.

E in fondo la città ha tutti i numeri per farcela.

Parma