La mia “fase due”

Dopo un mese abbondante di isolamento sono entrata ufficialmente nella mia personale “fase due” che non consiste, come si potrebbe credere, in un allentamento dell’attenzione, ma, al contrario, in una sorta di generale rallentamento della mia quotidianità.

Ormai la porta di casa è diventata un limite invalicabile, quasi avessi il braccialetto elettronico, non esco quasi più, neanche per gettare l’immondizia che, ormai, raccolgo accuratamente nei vari contenitori e porto in cortile una volta alla settimana (con l’eccezione del multipak che mi regala un’uscita straordinaria ogni quindici giorni): quando scendo porto con me la carta, il vetro, il sacchetto rosso e quelli dell’umido e così colgo la rara occasione di fare un giro in giardino e di godere del silenzio della notte e di ammirare la luna.

Mi sembra quasi di essere in vacanza.

Per il resto mi alzo abbastanza tardi, sbrigo qualche faccenda domestica, programmo pranzo e cena (con un’occhio ad evitare l’eccesso di calorie), passo un po’ di tempo sul balcone che, in questi giorni, è inondato di sole, mi sforzo di fare qualche esercizio fisico, guardo pochissimo i notiziari e penso, penso tantissimo.

La mia “fase due” non prevede nessun “liberi tutti”, ma è all’insegna della lentezza, del ripensamento, dell’attesa senza grandi illusioni, della memoria, della compassione, della condivisione.

Sto accettando abbastanza serenamente l’idea che il ritorno alla normalità (quale normalità?) sia ancora lontano e incerto, non mi attacco alle scadenze dei vari decreti, non mi lascio illudere da date che sono destinate ad essere procrastinate, ma aspetto, tranquillamente senza farmi prendere dall’ansia.

E, d’altra parte, non c’è altro da fare.

Cavenago di Brianza - Dal balcone

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