Archivio mensile:Marzo 2020

Un minuto di raccoglimento.

La mia bandiera abbrunata è appesa al balcone, da lontano arrivano i rintocchi della campana di mezzogiorno, ci raccogliamo per un tempo che sembra lunghissimo per pensare e, forse, per una preghiera silenziosa.

So che in questo momento i sindaci di tutta Italia hanno chiamato i loro cittadini al silenzio per ricordare i molti che non ce l’hanno fatta, per pensare a chi sta lottando in ospedale o nella propria casa contro un morbo subdolo, per essere vicini a quanti hanno perso i loro cari in un modo così crudele, per rivolgere un grato pensiero a quanti stanno lavorando per permettere a tutti noi di restare tranquilli nelle nostre case.

Spesso mi capita, durante queste lunghe giornate tra le mura domestiche, di pensare a chi sta attraversando un momento così drammatico, ma in questo momento so che siamo in tanti, che siamo insieme, che anche il mio Sindaco forse sta vivendo i miei stessi sentimenti aggravati però dal peso della responsabilità della salute e della sicurezza di un’intera comunità.

Non è un flashmob, non è come cantare sul balcone per esorcizzare la paura, questo momento di raccoglimento mi sembra un’occasione per sentirci una comunità, per assumerci le nostre responsabilità nei confronti degli altri e di noi stessi, per ricordare le persone che ci hanno lasciato e che conosciamo bene e che, per una volta, non sono i freddi numeri di una drammatica statistica, ma volti e affetti.

Tricolore

Cambusieri per necessità.

Una volta alla settimana, più o meno, mio figlio si arma di coraggio, autocertificazione, guanti e mascherina e va al vicino supermercato per fare la spesa, forse potrebbe farlo un po’ meno spesso, ma ogni tanto preferisce muovere l’automobile per evitare che si formino le ragnatele sul motore.

Prima della partenza prepariamo una lista ragionata delle derrate alimentari cercando di conciliare le esigenze di una settimana con il rischio, non remoto, di trovare alcuni scaffali vuoti (la farina, ad esempio era introvabile settimana scorsa, ma non mi stupisco a giudicare dalle quantità industriali di dolci, pasta fresca e prodotti da forno vari fatti in casa che vedo sui social).

Evitiamo accuratamente alcuni prodotti come il lievito di birra (lievito madre fatto in casa), l’acqua minerale (va bene anche quella del sindaco) e dolci che in questo periodo di mobilità quasi nulla e di cucina da masterchef potrebbero rivelarsi una scelta fatale ((alla fine della quarantena vorrei poter passare dalle porte).

Per il resto abbiamo scorte sufficienti per sfamare un piccolo villaggio, anche se non ci siamo mai abbandonati alla tentazione del saccheggio che nei primi giorni di quarantena ha contagiato molti.

Siamo un po’ come gli scoiattoli che si preparano all’inverno accumulando cibo nelle tane, senza però precludersi la libertà di movimento: la nostra dispensa è fornita, ma non strapiena anche perché ci darebbe veramente fastidio se andasse sprecato qualcosa.

Londra - St. James's Park

Al risveglio.

In questo periodo (incredibile a dirsi) dormo molto profondamente e mi sveglio abbastanza tardi anche perché dalla strada vengono pochi rumori, sono rare le automobili e non si sentono le voci dei ragazzi che vanno a scuola e se non risuonano le sirene di un’ambulanza o i rintocchi a martello di una campana, che mi mettono una grande inquietudine, il silenzio è praticamente totale, interrotto solo dal cinguettio e dal tubare degli uccelli.

Quando mi sveglio così, senza suoni angoscianti, scivolo fuori dal sonno dolcemente e per un momento, un lungo felice momento, la mia mente non ancora completamente lucida non è consapevole di ciò che mi circonda e non mi ricordo (ripeto: per un momento) dell’epidemia, dei numeri, del dolore, dell’isolamento forzato.

Poi la realtà mi piomba addosso come un macigno, ma quel breve momento di serenità mi dà la forza di iniziare la giornata, perché sto bene, perché è un nuovo giorno, perché è un nuovo dono.

Diano d'Alba (Langhe)

Il bicchiere mezzo pieno.

Chi mi conosce bene sa che raramente mi lascio abbattere dalle situazioni, anche avverse, in cui vengo a trovarmi, ma che la mia prima reazione di fronte ad un problema è quella di cercare una soluzione e se la soluzione non c’è mi rassegno ad affrontare (o a subire) le conseguenze con l’animo più sereno possibile.

Sono fatta così, non è un merito è la mia natura, ma di fronte ad un dolore o ad una difficoltà cerco sempre la via per viverli senza farmi troppo male.

Sono una persona positiva (in questi giorni forse dovrei usare un’altra espressione, possibilmente meno equivocabile), per me il bicchiere “mezzo vuoto” non esiste, ma cerco sempre di bere dalla vita quel poco che mi può offrire.

Alla mattina, quando mi sveglio e mi guardo intorno e sono già contenta perché è iniziata una nuova giornata e ogni giornata porta il suo fardello di difficoltà e di gioie.

Spesso le gioie sono minuscole e leggere, come il primo caffè e i fiori sul balcone e il cielo sereno e un piatto venuto particolarmente bene e un frutto saporito e le tante piccole situazioni che incontro nella mia giornata.

Ma non ignoro le difficoltà, mi pesa non poter uscire a passeggiare, mi pesano le notizie angoscianti, mi pesa dover stilare una lista della spesa settimanale tenendo conto che molte merci sono introvabili e bisogna studiare delle alternative, mi pesa non poter fare programmi se non a brevissima scadenza, ma non mi lascio abbattere perché so bene che è inutile lottare contro ciò che non si può cambiare e che non dipende da noi.

Forse la serenità mi viene da una preghiera del teologo Reinhold Niebuhr che ho letto tanto tempo fa e che ha decisamente cambiato la mia vita:

“Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare le cose che posso,
e la saggezza per conoscere la differenza.”

Forse il mio bicchiere “mezzo pieno” non è solo ottimismo, ma consiste nell’aver imparato “quella” differenza.

Pasturo

Ciao, come stai?

E’ una frase semplice, usuale, una di quelle frasi che ripetiamo spesso, senza neanche rendercene conto e spesso senza badare molto alla risposta, tanto di solito la rivolgiamo ad un nostro caro, ad un amico, ad un conoscente che incontriamo, che vediamo in faccia e ci basta un’occhiata per renderci conto se tutto va bene o c’è qualche problema.

In questi giorni, però, non ci capita quasi più di incontrarci e allora, quando iniziamo una telefonata, o “chattiamo” e chiediamo ad una persona “come stai?”, non è più una domanda formale, rivolta per pura cortesia, ma significa veramente che la persona a cui la rivolgiamo ci sta a cuore, che ci interessa veramente sapere se va tutto bene.

Questo virus sta cambiando la forza delle nostre parole che diventano parole di affetto, di attenzione, di empatia, di condivisione, di conforto, parole che raccontano il nostro affetto e il nostro desiderio di vicinanza.

E nelle parole degli altri spesso leggiamo il desiderio di essere ascoltati, di essere rassicurati, di essere capiti.

Spero che, quando tutto questo sarà finito, quando ci ritroveremo per strada o seduti ad un tavolino di un bar, davanti ad una tazzina di caffè, ci resti attaccato questo bisogno di comunicazione vera.

Milano - Starbucks

Comprendere il dolore.

Poco più di cinque anni fa mio marito moriva a causa di una polmonite virale, contratta dopo l’ennesimo intervento chirurgico al cervello, era ricoverato in terapia intensiva, intubato e, negli ultimi giorni, completamente sedato.

Mio marito è morto da solo perché, alle due di notte, il medico rianimatore, un giovane competente e di grande umanità ed empatia, vedendomi distrutta mi intimò di andare a casa a dormire per qualche ora.

Non mi sono mai perdonata di non essere stata lì, anche se mio marito ormai non era più cosciente da ore.

Ma poi ci sono stata, ho potuto salutarlo, ho potuto accompagnarlo e, in qualche modo, ho potuto comprendere, se non accettare, che non l’avrei mai più avuto al mio fianco.

Per questo motivo posso comprendere, almeno in minima parte, il dolore lancinante di chi ha salutato i propri cari per l’ultima volta quando sono stati ricoverati in ospedale e non hanno potuto tener loro la mano, non hanno potuto vederli spegnersi a poco a poco, non hanno potuto cogliere il momento in cui la vita non è più “veramente” vita, ma continua, per ore, per giorni, supportata solo dalle macchine ed ė il momento che, in qualche modo, confusamente, prepara al distacco.

Credo che un dolore così sia inimmaginabile, è un dolore cupo che non può essere, almeno per ora, attenuato da qualche forma di elaborazione del lutto.

In questi giorni mi trovo a pensare, e a pregare, non tanto e non solo per le molte persone decedute, ma soprattutto per i loro cari che non hanno nulla su cui piangere.

Milano - Monumentale

Emozioni mutevoli.

Una settimana fa, in tutta la Brianza, stavamo sui balconi e battevamo le mani e sentivamo le campane suonare a festa e una strana voglia di festeggiare, una settimana fa eravamo probabilmente animati da sentimenti di speranza, eravamo alla fine della prima settimana di isolamento e, anche se i numeri non promettevano niente di buono, c’era un desiderio di credere nel “lieto fine”.

Dopo una settimana c’è un sentimento di profondo scoramento perché comincia a serpeggiare la sensazione che i sacrifici servano a poco e, contemporaneamente, c’è una rabbia dentro che spinge a cercare qualcuno a cui dare la colpa (l’untore di manzoniana memoria) e allora ce la prendiamo con chi cammina per strada, magari per andare a fare la spesa o a lavorare o a dare una mano ad un familiare anziano e solo, ce la prendiamo anche con chi cammina a passo svelto, si tiene a distanza da tutti e sta all’aperto per il tempo strettamente necessario.

Siamo arrabbiati perché vediamo i numeri crescere e abbiamo l’impressione che non vedremo mai la luce in fondo al tunnel, ma ci dimentichiamo che i malati di oggi probabilmente sono stati vittime del contagio tre settimane fa (pensiamoci erano i giorni di carnevale), quando i negozi e i bar e i ristoranti erano aperti, quando uscivamo liberamente (anche se con qualche cautela da parte dei più previdenti), quando ci soffermavamo a commentare la situazione in piazza con gli amici.

Se è vero che l’incubazione può durare anche quattordici giorni, se non addirittura venti, chi ha la febbre da una settimana può aver contratto la malattia quando ancora era sconosciuta e lontana.

Questo non significa che dobbiamo abbassare la guardia, significa solo che dobbiamo tenere i nervi saldi, mantenere l’isolamento il più possibile, imparare ad avere pazienza perché i numeri (i dannati numeri) arrivano come onde che partono da molto lontano, sono come i cerchi d’acqua in uno stagno, ma non ricordiamo più quando abbiamo gettato il sasso.

In una civiltà del “tutto e subito” vorremmo vedere i risultati immediatamente, ma dobbiamo accettare l’idea che, in questa situazione, non è possibile.

E allora non facciamoci prendere dalla disperazione, armiamoci di pazienza ed impariamo ad aspettare, approfittiamo di questo tempo sospeso per pensare ai nostri cari, alle persone che sono separate da noi, a quelli che possiamo aiutare, magari anche solo con una telefonata, alle tante persone (non sono numeri) che non ce l’hanno fatta, a quelle che conosciamo e a quelle che non conosciamo e, se crediamo, preghiamo, magari in silenzio, per chi è malato, per chi è nel dolore indicibile di un lutto, per chi è solo tra quattro mura e non ha nessuno con cui condividere la paura e il dolore.

Spero solo che questa prova ci insegni ad essere un po’ più saggi, un po’ più buoni.

Bergeggi

L’importanza del telefono.

In questo limbo fatto di isolamento e di silenzio rotto solo dall’urlo delle sirene delle ambulanze, il telefono è diventato, per me che di solito telefono pochissimo e solo quando è strettamente necessario, uno strumento importante per restare vicina a tutte le persone a cui, per tanti motivi, sono legata.

Il telefono mi permette di parlare, anche se per pochi minuti, con mia madre che non vedo da più di tre settimane e di percepire, più dalla sua voce che dalle sue parole, che sta bene e che è abbastanza serena nonostante la situazione.

Grazie al telefono posso parlare con mia zia, che è rimasta vedova da poco ed è sola, ci sentiamo spesso, cerco di risolvere a distanza i suoi piccoli problemi quotidiani, ma mi rendo conto che le sue chiamate, anche se sono sempre motivate, sono una ricerca di vicinanza e di rassicurazione.

Ogni tanto telefono ai miei vicini di casa che non vedo da tanti giorni, giusto per sapere che va tutto bene.

E poi ci sono le telefonate con gli amici, vicini e lontani (ma ormai siamo tutti lontani), con quelli che abitano a poche centinaia di metri da me, con quelli che vivono in un altro paese, in un’altra città, con quelli lontanissimi, in Polonia, in Romania, in Portogallo che mi raccontano l’emergenza nei loro Paesi.

Non avevo mai compreso quanto fosse importante sentire la voce delle persone care quando non le puoi vedere e finalmente comprendo perchè, quando incontriamo una persone arrivata qui da tanto lontano, spesso tra le sue mani c’è un cellulare.

Milano - Palazzo Morando - "Milano negli anni '60"

In attesa del “picco”

Si fa un gran parlare, in questi giorni, del “picco”, cioè del momento in cui la curva della crescita dei contagi dovrebbe appiattirsi, si fanno previsioni ottimistiche o catastrofiche, ma solo la reale interpretazione dei dati potrà darci una risposta attendibile.

Temo però che si stia facendo strada l’illusione che, una volta raggiunto il “picco”, si potrà tornare ad una vita normale e questa idea mi spaventa perché, da una parte, c’è il rischio che molti allentino l’attenzione e abbandonino le cautele di questi giorni, dall’altra è possibile che lo scoprire che il “picco” non coincide con il ritorno alla quotidianità generi un senso di frustrazione e l’impressione che il rigore di questi giorni sia stato un inutile sacrificio.

Mai come ora è indispensabile mantenere i nervi saldi, seguire le indicazioni di chi ne sa più di noi, non farci prendere dall’eccessivo scoramento o da una pericolosa euforia e continuare questo isolamento con costanza e attenzione.

Da parte mia , ormai, esco di casa per una decina di minuti due volte alla settimana e, per il resto, mi godo il sole e l’aria tiepida sul balcone, tra i miei fiori e le casse che il riordino dei miei armadi (una delle attività di questi giorni) ha prodotto, in attesa di poter smaltire quanto ho ammucchiato.

Sto qui e osservo la magnolia, nel giardino della casa di fronte, che fiorisce rigogliosa a dispetto delle nostre paure e delle nostre emozioni.

Cavenago di Brianza - Dal balcone

L’insolito silenzio.

Il paese è quasi immobile e c’è un silenzio che non conosciamo, a cui non siamo più abituati.

Sul balcone tendo l’orecchio, non si sente più il suono continuo dell’autostrada, non si sentono che rare voci e, di colpo, mi accorgo che gli uccelli hanno ritrovato il loro spazio, l’aria è piena di cinguettii, di stridi e si sente persino il frullo d’ali tra i rami.

Di sera, sul balcone si possono contare le automobili che corrono là, in fondo, lungo l’autostrada che immagino quasi vuota.

C’è un silenzio che permette di ascoltare il suono dei pensieri, c’è un silenzio che ferisce l’udito quasi come un rumore doloroso, ma è meglio questo che il suono lancinante delle sirene delle ambulanze.

Poi, all’improvviso, ci affacciamo tutti alla finestra, il silenzio si spezza, ed è quasi una liberazione, le campane cominciano a suonare a distesa, le persone affacciate applaudono, qualcuno spara un fuoco d’artificio mentre l’auto della Protezione Civile passa per le strade e nell’aria si spandono le note dell’inno nazionale.

Per un momento il silenzio è spezzato, gli uccelli stupiti si levano in volo, ci salutiamo da un balcone all’altro, ci sentiamo vicini anche se separati.

Poi torna il silenzio.

cielo