La testimonianza del dolore.

Tra pochi giorni ricorderemo i settantacinque anni della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ad opera del soldati dell’Armata Rossa, e ritroveremo nelle parole dei pochi sopravvissuti tutto l’orrore che l’apertura del campo, quasi fosse un mostruoso vaso di Pandora, ha rivelato al mondo che non aveva saputo o voluto vedere.

Ascolteremo le parole dei testimoni e ci indigneremo o forse ci allontaneremo infastiditi o resteremo persino indifferenti perché i loro racconti parlano di avvenimenti del passato che non ci riguardano più (o forse ci illudiamo che non ci riguardino).

Eppure dovremmo soffermarci ad ascoltare con reverente rispetto perché i testimoni non raccontano solo dei fatti, ma raccontano un dolore profondo che hanno provato sulla loro pelle e che resta impresso nell’anima e nel corpo come il numero tatuato sul braccio.

Dovremmo comprendere che ogni volta che un testimone parla il dolore e l’orrore tornano a galla, e riemerge il ricordo di chi non è tornato e serpeggia la sottile inquietudine di chi, scampato alla morte, ancora si chiede perchè questa “fortuna” sia toccata proprio a lui.

Ma forse chi è tornato dalla morte comprende meglio che la vita è un dono e come tale va usato bene e che testimoniare è un segno di gratitudine ed è un modo per usare bene il dono ricevuto.

Proprio per questo motivo dovremmo stare ad ascoltarli in silenzio.

Auschwitz - Birkenau

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