Avevo poco più di sei anni quando mio padre decise di acquistarmi il mio primo paio di sci, visto che da due anni mi arrabattavo con attrezzature prestate da amici e parenti.
I miei primi sci erano di legno, pesantissimi, con gli attacchi a molla di sicurezza (si trattava di uno strano meccanismo che in caso di caduta e torsione della caviglia, liberavano il piede evitando così una frattura), erano azzurri e lunghissimi infatti per decidere la misura avevo dovuto stendere completamente il braccio (… poi per sicurezza il commesso aveva aggiunto qualche centimetro, tanto prima o poi sarei cresciuta).
Così attrezzata, oltre ai bastoncini metallici e agli scarponi di cuoio ingrassati di fresco col grasso di foca, scarpinavo faticosamente dietro a mio padre che si guardava bene dal darmi una mano (la fatica aiuta a crescere), salivamo a piedi lungo un pendio poi, finalmente, agganciavamo gli sci e ci buttavamo giù per poi ripetere l’operazione fino a quando eravamo stremati.
Quando i muscoli erano abbastanza indolenziti e le ombre cominciavano ad allungarsi ci concedevamo una sosta in un rifugio per una cioccolata calda e una fetta di torta e poi salivamo sulla gloriosa seicento per far ritorno a casa.
Mi piacevano quelle giornate passate insieme, solo mio padre ed io (visto che mia madre restava a casa con il mio fratellino neonato), mi piacevano anche il freddo e la fatica e i guanti che diventavano fradici, mi piacevano il vento in viso e la velocità (che non doveva essere molta per la verità).
La cosa che però mi fa riflettere è che, allora, alla fine degli anni ’50, lo sci non era uno sport di massa e solo ora capisco quanto fossi privilegiata e quanti sacrifici, anche economici, la mia famiglia abbia affrontato per permettermi di praticare uno sport che mi piaceva tanto.
Non smetterò mai di ringraziare i miei genitori.