Venticinque anni fa.

In quel mese di luglio del 1992 mio padre stava giungendo dolorosamente alla fine della sua vita, sarebbe morto solo un mese dopo, e noi l’avevamo trasportato nella casa in montagna perché i suoi occhi, attraverso la finestra spalancata, potessero continuare a seguire il profilo delle vette, perché l’aria leggera dei monti aiutasse il suo respiro e alleviasse la sua fatica di vivere.

Stavamo molto in casa, alternandoci al suo capezzale, perché il periodo di vacanza aveva riunito tuta la famiglia e ci concedeva di trascorrere insieme quelle ore rare e preziose che, anche se non ce lo dicevamo, sapevamo che sarebbero state le ultime.

Passavamo del tempo insieme senza gli assilli del lavoro e della scuola nel clima dilatato e quieto delle vacanze.

E proprio in quel clima sereno, di una sonnolenta domenica,  giunse come un’esplosione la notizia della strage di via D’Amelio e io vidi negli occhi di mio padre un dolore nuovo, muto, quasi rassegnato, vidi un’angoscia che superava quella della malattia e della paura della morte.

Non potrò mai perdonare chi diede a mio padre un nuovo dolore.

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