Archivio mensile:Ottobre 2016

How many roads…

Quante strade dovrà percorrere un uomo, prima di essere chiamato “uomo” ?

Sarà forse perchè tanti anni fa ho cantato spesso questi versi, con una chitarra intorno al fuoco, seduta per terra, spalla  a spalla con ragazzi e ragazze che provenivano da mezza Europa, un’Europa che allora era tagliata in due da un muro, sarà per la speranza che questi versi risvegliavano, sarà per il desiderio di pace che la mia generazione, nata dopo una guerra, cresciuta nel clima della guerra fredda, sentiva con particolare forza, sarà perchè questi versi sono legati alla mia giovinezza, sarà per tutti questi motivi che oggi ho accolto con gioia la notizia che l’autore di questi versi, cantati con una voce un po’ nasale su armonie quasi elementari, ha vinto il premio Nobel per la letteratura.

E poco importa che si siano levate, anche dalle nostre parti, voci di dissenso: il bello del premio Nobel è che non viene assegnato con il televoto, o con un referendum, o da una giuria di “esperti”, ma ad insindacabile giudizio dai membri dell’Accademia di Stoccolma (come indicato da Nobel stesso nel suo testamento) e quindi le polemiche sono prive effetto.

Anche nel 1997 ci furono accese polemiche, sempre dalle nostre parti, quando fu insignito del premio Nobel Dario Fo ed è quanto meno singolare che proprio oggi, nel giorno del Nobel al menestrello, il grande giullare sia arrivato, per dirla con i versi di Bob Dylan, a bussare alla porta del cielo.

Portone

 

Le vite degli altri.

E’ incredibile che, ogni volta che mi capita di accendere la televisione, mi tocchi in sorte di imbattermi in un gruppetto di persone che dibatte con accanimento degno di miglior causa dei guai giudiziari di questo o di quel personaggio, famoso o reso famoso dal fatto stesso di essere incappato in guai giudiziari di varia gravità, che spaziano dall’evasione fiscale all’uxoricidio, dall’estorsione all’efferato delitto.

E’ incredibile che desti tanto interesse questo rimestare nelle vite degli altri, con ricostruzioni minuziose, plastici, interviste a familiari e vicini di casa (anch’essi schierati fra innocentisti e colpevolisti con un accanimento degno di miglior causa).

Non voglio negare che l’informazione abbia le sue regole e i suoi diritti, non voglio negare il diritto di cronaca, ma mi colpisce che l’informazione si riduca spesso e volentieri alla cronaca nera, quella che un tempo scivolava nelle pagine più interne dei quotidiani o campeggiava con titoli “strillati” nelle edizioni serali che, parecchi anni fa, avevano un po’ la nomea di vivere sugli scandali e sulla curiosità dei lettori.

Ci troviamo così tutti seduti in un grande salotto televisivo, dove si discute animatamente sviscerando le vite degli altri, con l’illusione di partecipare, grazie ai social network, alla ricerca della verità perchè questa è la nuova dimensione di questo modo di fare spettacolo: il pubblico viene invitato ad interagire un po’ come succedeva agli spettatori della televisione raccontata nel profetico “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury.

Qual è l’utilità di una comunicazione che solletica la curiosità, che rimesta nel torbido in modo quasi morboso, che istruisce processi mediatici e pronuncia sentenze “popolari”, che cavalca la naturale propensione degli esseri umani a dividersi tra tifosi di Coppi e di Bartali, che spettacolarizza la notizia?

Lo schermo televisivo è ormai come una finestra attraverso la quale osservare miserie, dolori, povertà che forse richiederebbero un più composto riserbo.

Milanofiori

 

Mai un dubbio.

Ormai da molto tempo assistiamo impotenti all’estinzione del “congiuntivo” ucciso dai salotti televisivi (prevalentemente sportivi, ma non solo), massacrato dal linguaggio “finto burocratico” o “amichevolmente dialettale” di non poche produzioni destinate al piccolo o al grande schermo.

Il congiuntivo langue sostituito sempre più spesso dal più rassicurante “indicativo” che tuttavia è e rimane il modo verbale che esprime la realtà nella sua oggettività  e ha la funzione  di indicare (appunto) una situazione non condizionata da dubbi o incertezze.

Il congiuntivo, invece, può indicare qualcosa di soggettivo, irreale, non sicuro, ipotetico, il congiuntivo ci racconta il dubbio, la perplessità, l’incertezza, ci proietta nella dimensione del possibile e, a mio modesto parere, ci apre al dialogo e alla varietà dei punti di vista.

Ma forse non è così, forse la scomparsa del congiuntivo non sta ad indicare la nostra riluttanza ad aprirci al possibile, ma solo un po’ di pigrizia.

Spero proprio che la motivazione sia questa.

Spazio, ultima frontiera.

Ho ritrovato su Netflix  “Star Trek“, la serie televisiva quasi leggendaria scritta da Gene Roddenberry e prodotta a partire dal 1966 (facendo due rapidi conti ben mezzo secolo fa) e mi sono persa dietro le avventure dell’astronave Enterprise “durante la sua missione quinquennale, diretta ad esplorare strani mondi, a ricercare altre forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima” (così recitava la sigla iniziale letta da uno speaker in stile “istituto luce”).

E’ con un po’ di tenerezza che rivedo gli episodi: tenerezza per l’ingenuo esotismo dei pianeti dai colori improbabili e dalle architetture in cartapesta, tenerezza per le divise tanto simili ai pigiami dell’epoca, tenerezza per il modellino dell’astronave sospeso in un cielo stellato così evidentemente finto per occhi abituati al “realismo” della computer grafica.

Provo tenerezza anche per le storie così piene di ottimismo, storie in cui il “diverso” non è quasi mai un nemico da distruggere, ma una occasione di incontro e di conoscenza, storie in cui il desiderio di esplorare e di spingersi oltre il limite risentiva ancora dell’ideale della “nuova frontiera” dell’era kennediana, storie di uomini buoni, coraggiosi, rispettosi.

“Star Trek” nasceva in un’epoca in cui il mondo guardava al futuro con curiosità, in cui realizzare un mondo di pace pareva ancora possibile anche se attraverso l’Europa si allungava la cortina di ferro, anche se si combatteva in molte parti del mondo, anche se la corsa agli armamenti era una minaccia quotidiana.

Rivedere quei telefilm è veramente un tuffo nel passato.

Brembate Torre del Sole

Andar per sentieri.

Camminare lungo i sentieri ad alta quota è una cosa che ho imparato a fare fin da piccola quando,  trotterellando dietro i passi lunghi e regolari di mio padre, percorrevamo i sentieri, da rifugio a rifugio, spesso sotto improvvisi rovesci che ci colpivano quando eravamo troppo lontani dal punto di partenza per invertire la rotta e troppo lontani dalla meta per sperare di non bagnarci come pulcini.

Poi si arrivava al rifugio, si mangiava un piatto di minestra che scaldava il cuore e si andava a dormire nei cameroni ingombri di letti  castello, con gli zaini posati ai piedi del letto.

Da adulta ho rinnovato la tradizione e, con mio marito e nostro figlio, abbiamo ricominciato ad andare per gli antichi sentieri, magari con un po’ più di attenzione alle previsioni meteorologiche (il che non ci ha impedito comunque di di essere aggrediti da epiche grandinate).

Anche i rifugi, con il passare degli anni, sono diventati meno spartani e qualche volta ci è capitato persino l’incredibile lusso di lavarci con l’acqua calda.

Ma la cosa più importante è la sensazione incredibile di camminare nel silenzio, tra cielo e terra, senza incontrare quasi nessuno, di camminare a lungo, per ore, con passo lento e regolare (come mio padre) senza sentire la fatica perchè lo spettacolo delle montagne che mutano ad ogni passo coinvolge ed emoziona e fa dimenticare la strada percorsa.

val ferret

Ottobre.

Oggi una delle mie ragazzine, durante l’intervallo, ha tirato fuori dalla cartella un contenitore pieno di castagne crude, sbucciate e dolcissime e me ne ha offerta una, la prima castagna di questo autunno.

Una volta ottobre era spesso così come in questi giorni, freddo e luminoso, e allora alla domenica, di buon mattino, si partiva alla volta delle vallate prealpine in cerca di un bosco di castagni, ma le castagne erano solo un pretesto per trascorrere una giornata all’aria aperta, nel freddo frizzante del bosco e si tornava a casa stanchi, infreddoliti e con le guance accese.

Quando abitavo a Milano le castagne finivano sul piano rovente della stufa e bruciacchiavano scoppiettanti mentre per tutta la casa si spandeva il loro profumo così caratteristico.

Era lo stesso profumo che riempiva le vie cittadine, intorno ai carrettini  delle caldarroste ed era una gioia stringere fra le mani intirizzite il cartoccio di carta gialla (chi si ricorda la carta gialla delle macellerie?) e sbucciare le castagne che annerivano di nerofumo le dita e poi affondare i denti nella polpa caldissima e saporita.

Era il profumo dell’autunno, il profumo che accompagnava la città che scivolava piano piano nell’oscurità gelida dell’inverno.

castagne
 

Un po’ di bellezza.

Ricordo che qualche anno fa, durante un viaggio d’istruzione in Alsazia (quando portare una classe fuori dai confini d’Italia non era un affare di stato) i nostri ragazzi erano rimasti impressionati dalla grazia delle cittadine, dall’eleganza delle case a graticcio dai colori delicati, dagli arredi urbani.

Si guardavano intorno e continuavano a ripetere “Che bello!” dimostrando una volta di più che noi esseri umani, grandi e piccoli, giovani e anziani, abbiamo bisogno di  bellezza, anche di una bellezza semplice, quotidiana, senza tante pretese.

Ricordo ce un gruppetto di ragazze si era incantato ad ammirare una casa con i davanzali ornati da semplicissimi vasi di fiori, ordinati e curatissimi pur nella loro sobrietà.

E’ incredibile che basti un po’ di bellezza per farci apprezzare quanto sia meraviglioso tutto ciò che ci circonda.

Forse è proprio vero che la bellezza salverà il mondo.

Colmar (Francia)

Tra le palme.

Nel dodicesimo secolo i sovrani della dinastia berbera proveniente dal Sahara, gli Almoravidi, che avevano fondato Marrakech, decisero di creare una grandissima oasi ricca di centinaia e centinaia di palme alimentandola con un sistema di irrigazione efficiente e moderno.

Il grande palmeto esiste ancora, anche se le vicende storiche legate alla presenza francese lo hanno impoverito, anche se le piante sono affette da una malattia che le rende sterili, anche se intorno sorgono ville da mille e una notte e resort a cinque stelle e un campo da golf incredibilmente verdissimo.

Il grande palmeto esiste ancora e passeggiare tra le palme è un’esperienza particolare, estremamente affascinante che regala profumo d’Africa.

Marocco - Palmeto di Marrakech

L’amore ai tempi della carta.

E’ un’ardua impresa insegnare agli adolescenti di oggi come fosse l’innamoramento e l’amore quando per comunicare c’era solo la voce e, per i più timidi, carta e penna.

Come spiegare che non ci si “metteva insieme” con un messaggio in chat, ma dopo estenuanti appostamenti degni di un romanzo di spie e lunghi conciliaboli (in cui aveva un peso rilevante l’intervento delle amiche del cuore e degli amici fidati), con scambi di bigliettini che qualche volta raggiungevano insospettabili vertici di poesia.

Probabilmente eravamo più imbranati degli adolescenti di oggi, ma facevamo incredibilmente sul serio (o almeno così ci sembrava) e i nostri innamoramenti avevano tutte le caratteristiche dell’eternità (ma allora era più facile credere nell’amore eterno).

Passavamo un sacco di tempo a parlare di noi e di noi “insieme” e, magari seduti su una panchina del parco, progettavamo il domani.

Ma soprattutto, quando qualcosa non andava per il verso giusto, non ci lasciavamo con un sms.

Sesto san Giovanni -  Parco Campari

 

Non solo giovani e belli.

Sono ragazzi giovani, visto che frequentano una quarta del Liceo Scientifico “A. Banfi” di Vimercate e sono anche belli, perchè a quell’età è veramente difficile non esserlo, ma non sono solo giovani e belli, sono anche competenti e incredibilmente seri.

Ci accompagnano, in occasione della festa patronale, a visitare gli affreschi della chiesetta di Santa Maria in Campo, strappati negli anni sessanta e collocati nella chiesa parrocchiale di Cavenago di Brianza, con una punta di emozione e tanto entusiasmo, l’entusiasmo di chi sa di aver svolto un lavoro importante di conoscenza e di recupero di una tradizione culturale antica, spiegano i dipinti con uno stile quasi “professionale” che mi strappa un sorriso.

Mi emoziona incontrare nel gruppetto uno dei miei “ragazzi” che ora,  distanza di soli tre anni dalla fine della terza media, mi appare come un giovane uomo, sicuro di sé, consapevole, impegnato.

E’ bello vederli così seri, ma anche scanzonati, allegri come lo sono i ragazzi di quell’età, ma attenti e precisi.

E’ bello intravvedere dietro le loro parole un percorso di crescita e un’esperienza di studio e di lavoro.

Cavenago