La notte delle zucche.

Non mi ricordo da quando anche in Italia si è cominciato a festeggiare Halloween (il mio pargolo sostiene che tra i responsabili ci sia una nota marca di birra), ricordo che quando ero una ragazzina e leggevo le strisce di Schultz (spesso sotto il banco durante le lezioni più noiose), non capivo bene a cosa si riferisse Linus quando nella notte di Ognissanti attendeva il Grande Cocomero (una traduzione un po’ libera per indicare una zucca).

Comunque sia la festa americana, tutta zucche ghignanti e maquillage terrificanti, si è sovrapposta al ponte lungo di inizio novembre, quello che quando ero bambina inglobava, in quattro giorni di vacanza, Ognissanti, la commemorazione dei defunti e le celebrazioni del 4 novembre.

Per il giorno dei defunti andavamo al cimitero di Musocco, dove erano sepolti tutti i miei cari che erano mancati (e allora erano pochi), armati di fiori gialli da distribuire con equità dopo aver acceso i lumini.

Le brume novembrine erano rallegrate dal sapore tutto particolare del pane dei morti, dolce e speziato, che la mia mamma mi faceva trovare, come fosse un dono, sul tavolo della prima colazione.

Erano giorni di raccoglimento, di preghiera, giorni in cui il ricordo si stemperava nel rimpianto, giorni in cui anche noi che allora eravamo piccoli, venivamo richiamati ad una più composta consapevolezza, ad una comprensione ancora in embrione del mistero della vita e della morte.

Quel raccoglimento è quanto di più lontano possa esistere dal chiassoso vagare di ragazzini vestiti con costumi terrificanti in una notte illuminata da zucche vuote e, francamente, non so se siano più fortunati loro o se lo fossimo noi.

Monforte (Langhe)

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