Archivio mensile:Novembre 2013

Sconcertata.

Questa sera qualcuno festeggerà e qualcuno si chiuderà nel proprio lutto, da parte mia non me la sento di condividere nessuno di questi comportamenti, o meglio: personalmente sono sconcertata e addolorata.

Sono sconcertata perchè pensavo che in un paese civile fosse normale che un senatore, giudicato colpevole nei tre gradi di giudizio, rassegnasse spontaneamente le dimissioni, se non altro per rispetto delle istituzioni.

Sono addolorata perchè , al contrario, sono state necessarie estenuanti discussioni su cavilli giuridico – burocratici, sono state necessarie delle votazioni, sono volate parole dure.

Chi vuole può lasciarsi andare a un tifo da stadio (da una parte e dall’altra) io continuo a sentirmi avvilita.

Mi piacerebbe vivere in un Paese “normale”.

1522.

Nella Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne vale la pena di ricordare il numero del telefono rosa, un numero telefonico a cui rivolgersi per trovare accoglienza, conforto, sostegno, aiuto e supporto giuridico legale in caso di violenza.

Fa orrore la tremenda sequenza di omicidi (non sopporto la parola femminicidio) che hanno visto delle donne come vittime, vittime di uomini che, magari, affermavano di amarle, vittime di uomini che si sentivano e si sentono titolari di un diritto di possesso sulle loro compagne, vittime di uomini deboli incapaci di accettare la propria debolezza, ma capaci di violenze per affermare la loro forza malata.

Io so di vivere in un’isola felice, fatta di amore, di rispetto, di sostegno reciproco, di una vita  nella quale si gioisce delle piccole felicità quotidiane e si affrontano i dolori e le paure tenendosi sempre per mano e nella mia isola felice non riesco neppure ad immaginare che nella vita di coppia possano esserci la violenza, l’odio, il disprezzo.

E’ necessaria una rivoluzione culturale, un percorso di educazione che porti a comprendere che i rapporti tra uomo e donna possano e debbano essere improntati solo all’accoglienza e al rispetto, è necessario un grande lavoro di sostegno alle famiglie, di supporto alle vittime e di cura di chi usa la violenza come unico mezzo di relazione.

Non basta una giornata per risolvere il problema, ma usiamo questa opportunità per informarci e per riflettere.

Lutto nazionale.

E’ stata proclamata, per oggi, una giornata di lutto nazionale per ricordare le vittime dell’alluvione in Sardegna.

Nelle scuole si farà un minuto di silenzio, ma forse sarebbe meglio fare un’ora di discussione per comprendere le cause della tragedia ed educare i ragazzi alla tutela del territorio e, in subordine, ai comportamenti coretti da adottare in caso di emergenza.

Si farà un minuto di silenzio anche negli stadi, o dove si svolgano attività sportive, ma io già so che mi verrà il mal di stomaco perchè quel minuto sarà riempito da fischi e applausi, come se il silenzio ci facesse paura, d’altra parte si fischia e si applaude anche ai funerali e nessuno sembra ricordare il terribile pregnante silenzio di Piazza del Duomo durante i funerali delle vittime di Piazza Fontana, un silenzio capace di trasmettere tutto l’orrore, tutta l’indignazione, tutto il dolore di un’intera città.

Anche le reti televisive modificheranno, in parte, la programmazione, ma continueremo a sentire, anche lì, i jingle della pubblicità, o assisteremo a trasmissioni dove il dolore fa spettacolo.

Un tempo, che ormai mi sembra tanto lontano, in caso di lutto nazionale (e il venerdì santo) l’unico canale televisivo e la radio trasmettevano musica sinfonica e informazione, ma quelli forse erano tempi più semplici e più civili e a nessuno sembrava impensabile rinunciare ad una giornata di sereno divertimento per soffermarsi a riflettere.

L’unico segno che ci richiama veramente il lutto sono le bandiere a mezz’asta sugli edifici pubblici.

Francamente mi sembra un po’ poco.

 

Sera di novembre

Giocavo seduta sul pavimento, dopo la cena serale, in attesa del mitico “Carosello” e guardavo distrattamente la televisione che, in quel momento, stava trasmettendo il telegiornale (in fondo ad una bimba di dieci anni il telegiornale interessava veramente poco allora come ora).

All’improvviso la mia attenzione fu attirata dal tono grave del giornalista e da un filmato, un po’ confuso, che mostrava un’auto scoperta che percorreva lentamente un viale soleggiato, un movimento improvviso e scomposto dei passeggeri e poi l’auto che accelera.

E poi la notizia fu subito chiara: avevano sparato al presidente degli Stati Uniti.

Lo conoscevo anch’io l’uomo ferito, un uomo giovane come il mio papà, un uomo elegante e sorridente, che sedeva ad una grande scrivania mentre i suoi bimbi giocavano sul pavimento (un po’ come stavo facendo io): per me era già un’icona.

Quella sera imparai che si può vedere la morte in diretta, imparai che in un posto lontano come il Texas c’era una città che si chiamava Dallas (molto prima che la fiction la portasse nelle case di tutti) dove potevano succedere eventi così.

Poi avrei studiato il personaggio e il contesto storico, la guerra fredda, gli errori e le sfide di quella presidenza entrata nel mito, ma lo studio e la conoscenza non hanno rimosso l’impressione di quella sera, il misto di dolore, stupore e ingenua curiosità che provai.

Sono passati cinquant’anni da quella sera.

Difficile.

E’ difficile per me scrivere ciò che sto per scrivere, perché, istintivamente, vorrei fare qualcosa subito per alleviare il dolore e la disperazione dignitosissima delle persone colpite da questa tragedia.

Ci chiederanno in tempi brevissimi di mandare un aiuto subito, un S.M.S. da due euro (con il quale, probabilmente, tranquillizzeremo la nostra coscienza e ci sembrerà di aver fatto molto), ma forse questo ennesimo disastro dovrebbe essere l’occasione per fermarci un attimo, per non farci prendere dall’emozione, ma per chiederci per quanto tempo ancora dovremo far fronte ad un’emergenza che, probabilmente, con una più oculata gestione del territorio e delle risorse non sarebbe tale.

Pago le tasse (poche o tante che siano, giuste o sbagliate che siano) e penso di poter pretendere che il denaro con il quale contribuisco alla vita del Paese sia usato per migliorarcela la vita, a tutti quanti.

Posso pretendere che il territorio sia messo in sicurezza, che gli edifici (soprattutto quelli pubblici) siano costruiti con sistemi sicuri, che si studi per prevenire gli eventi che non possono essere definiti sempre “epocali” o di “eccezionale gravità”.

Posso pretendere che non si facciano più condoni edilizi che si trasformano fatalmente in una licenza di costruire “ovunque e comunque”.

Posso pretendere che non si debba vivere in una nazione nella quale qualsiasi evento fisico o meteorologico si trasformi in un disastro.

N.B. Probabilmente alla fine anch’io, ancora una volta, mi mobiliterò per contribuire a dare una mano, ma vorrei che fosse l’ultima emergenza.

Il balcone.

Sabato scorso il cielo di novembre, per poche ore, si è ripulito dalle nubi e ci ha regalato una giornata tersa e tiepida, quasi primaverile.

In una giornata così è gradevole affacciarsi al balcone, soprattutto se il balcone sta in alto e permette una vista ampia sull’orizzonte.

Abbiamo scelto un balcone un po’ particolare, il “Balcone d’Italia” (la Sighignola), una località che si trova sulle Prealpi Luganesi, ma in territorio italiano, nella zona di Lanzo d’Intelvi, raggiungibile dal lago di Como o da Campione d’Italia (per mezzo di una strada strettissima ed impervia da “spalloni“).

Il balcone si affaccia sul lago di Lugano e offre la vista dell’arco alpino, una vista di ampio respiro che dà l’impressione di essere arrivati in cima al mondo.

Ci siamo seduti su una panchina al cospetto delle montagne innevate, abbiamo riempito gli occhi di bellezza e di luce giocando a riconoscere le vette vicine e lontane.

Dà gioia guardare il mondo dall’alto, riempie il cuore, ma fa anche comprendere quanto sia piccola e breve la nostra presenza se confrontata con le montagne antiche.

Sighignola (Balcone d'Italia) - Lanzo d'Intelv

In ginocchio sui ceci.

Si racconta che, nei tempi andati, a scuola si usassero metodi correttivi che, oggi, Amnesty International bollerebbe come torture.

La mia maestra non ne aveva bisogno, la mia maestra (che per me era la più brava del mondo) era autorevole, non alzava mai la voce, raramente ci puniva con compiti di castigo, ma le rare volte che questo fatto increscioso si verificava a casa dovevo subire anche le aspre reprimende prima di mia madre e, alla sera, di mio padre e guai se mi azzardavo a dire che la maestra aveva sbagliato (la maestra più brava del mondo non sbagliava mai, per definizione).

Ho amato molto la mia maestra e il giorno in cui mi sono laureata ho cercato il suo numero di telefono e l’ho chiamata e, incredibilmente, ho scoperto che si ricordava di me.

Alle medie e al liceo ho incontrato insegnanti appassionati, che mi hanno fatto innamorare delle materie che insegnavano e della loro professione (tanto che è diventata la mia), insegnanti preparati, che non avevano neppure bisogno di essere severi e che, come la mia maestra, non sbagliavano mai.

Oggi gli insegnanti sono criticati da molti: sono fannulloni, impreparati, incapaci di valutare, troppo (o troppo poco) severi e via dicendo.

Ogni tanto mi chiedo che fine hanno fatto gli insegnanti “che non sbagliavano mai”, ma forse, più semplicemente, non sono cambiati gli insegnanti, è cambiato il mondo che gira intorno alla scuola.

Il bene e il male.

Gli ultimi fatti di cronaca interrogano tutti noi sul ruolo del mondo adulto nei confronti dell’educazione dei bambini e degli adolescenti.

Da molti, troppi anni, abbiamo permesso che prendesse piede una mentalità tutta volta a magnificare il successo (facile) quantificato nella abilità di far soldi (facili), abbiamo accettato che l’avere contasse più dell’essere e l’apparire fosse la misura di tutto.

Provate a chiedere ad una ragazzina o a un ragazzino come immagina il suo futuro, quale professione intende intraprendere, quali motivazioni la (lo) spingono: scoprirete che la motivazione è il successo economico, scoprirete che la visibilità è un valore assoluto, scoprirete che molti sognano un futuro da ” ricchi, belli e famosi”, ma, e questo è ciò che li distingue dalle generazioni passate, non si limitano a considerarlo un sogno, lo considerano un obiettivo.

Davanti alla televisione li abbiamo protetti dalle scene di violenza, dalle brutture del mondo, ma non abbiamo badato ai messaggi falsamente dorati veicolati da fiction e varietà.

Abbiamo smesso di parlare i nostri ragazzi di sacrificio, di responsabilità, di lavoro duro, li abbiamo protetti dalla fatica e dalla disillusione, li abbiamo messi al riparo dalle difficoltà e dalle regole, li abbiamo spinti a credere che si possano raggiungere traguardi prestigiosi senza talento, senza fatica, senza studio.

Ora c’è l’urgenza di fare marcia indietro, di creare una rete educativa tra genitori, scuola, allenatori e via dicendo per collaborare ad educare i ragazzi e aiutarli a crescere in modo armonico, a rivedere le loro priorità, a distinguere ciò che è bene da ciò che è male.

 

Mani.

Osservavo ieri le mani di mia madre, mani rugose, antiche, mani che hanno tanto lavorato e ora cercano pace, scosse da un tremito  infinito.

Oggi le mani di mia madre non lavorano più, pregano o si sollevano intorno al volto quasi a sorreggere i mille pensieri, talvolta confusi, che affollano la sua mente.

Non mentono mai le sue mani, non nascondono in un sussulto di vanità gli anni trascorsi: le mani, con il loro reticolo di segni, di rughe sottili come tele di ragno, narrano le vicende di una vita lunga e operosa, ma anche di una vita serena, nella quale le ore felici hanno oscurato, almeno nel ricordo, quelle più tristi.

E poi ricordo le carezze di quelle mani, e i buffetti pieni d’affetto, mai mossi dall’ira perché, e forse è il limite del tempo che passa e cancella ciò che non vogliamo ricordare, non riesco a immaginare mia madre veramente arrabbiata.

Ansiosa sì, preoccupata per i figli da crescere in un tempo di povertà, qualche volta ingombrante con il suo desiderio spasmodico di evitarci i dolori grandi e piccoli che la vita riserva a tutti, ma veramente arrabbiata mai.

Quante emozioni mi trasmettono, ancora oggi, quando cercano le mie e le stringono, fredde e magrissime, in cerca di emozioni passate, sopite forse, ma mai dimenticate.

Cavenago di Brianza (mani)

Un ponte controverso.

Il quarto ponte sul Canal Grande, il Ponte della Costituzione, progettato da Santiago Calatrava, è nato tra mille polemiche e controversie, si tratta di un’opera particolare che, benché sia stata progettata e ultimata di recente, presenta un ostacolo non indifferente per i disabili.

Venezia, con i suoi ponti a dorso di mulo, non è una città “facile” per gli anziani o per chi ha problemi di deambulazione, ma è auspicabile che le nuove strutture vengano concepite per migliorare la vita a chi, pur avendo problemi fisici, desidera visitare (o addirittura abitare) la città lagunare.

Oggi è entrata in funzione l’ovovia che permette anche a chi fa fatica a camminare di superare l’arditissimo ponte e , anche in questo caso, sono scoppiate polemiche sui costi e sulla scarsa praticità dell’opera in questione.

Comprendo le critiche, ma ritengo che sia per lo meno accettabile che si sia voluto, in questo modo, rimediare ad un difetto ed eliminare l’ennesima barriera architettonica.

Venezia