Archivio mensile:Ottobre 2013

Giustizia e no.

In questi giorni nei numerosi resoconti sulla lunga vita di Erich Priebke leggo e sento il verbo “giustiziare” riferito al massacro delle Fosse Ardeatine.

Lo stesso vocabolo l’ho visto inciso a Mauthausen su un cartello che ricordava l’eccidio degli italiani .

Comprendo che il verbo in questione spesso venga usato come un sinonimo di “uccidere” ma vorrei sottolineare che nella radice del termine è implicita l’idea di giustizia.

Ad esempio chi viene condannato con un regolare processo, per un reato di particolare gravità, in un paese dove si applica la pena di morte viene poi “giustiziato” (ammesso che si possa chiamare “giustizia” ci che spinge gli uomini ad uccidere chi, a sua volta ha ucciso).

Nel caso delle vittime delle Fosse Ardeatine si dovrebbe semmai parlare di “assassinare”.

Alle Fosse ardeatine non si è fatta giustizia, ma la più cieca e violenta rappresaglia.

Vajont.

Sono passati cinquant’anni ma io ricordo bene la mia maestra che ci mostra la prima pagina del Corriere della Sera con l’immagine della grande diga, avevo dieci anni e forse non ero neppure in grado di capire la portata della tragedia, la mia vita, allora, non era stata ancora segnata dal dolore per la perdita di una persona cara e la “morte” era una parola conosciuta, ma non compresa.

Eppure ricordo che mi emozionò il racconto di un paese, Longarone, cancellato in pochi minuti, mi colpì il nome un po’ buffo del monte, il Monte Toc, da cui si era staccata una frana, e capii che cosa era successo dalla animazione, un po’ ingenua, della frana del Toc,  mandata in onda da un telegiornale in bianco e nero, come in bianco e nero erano le immagini dei primi filmati che mostravano un paesaggio lunare di fango dove si aggiravano minuscole figure umane.

Anni dopo la narrazione di Marco Paolini mi avrebbe insegnato i fatti e le responsabilità al di là delle emozioni, nella puntuale ricostruzione delle carte processuali raccontata proprio sui resti della frana.

Questioni di forma.

Gli ultimi decenni ci hanno abituato a parole e gesti dei nostri parlamentari non certo degni di un collegio svizzero, di conseguenza la recente battutaccia del senatore pentastellato può sembrare un peccato veniale, alla stregua di cappi e mortadelle esibite in aula in altri tempi.

Lo sconcerto può essere giustificato solo dal fatto che chi si atteggia a “nuovo che avanza” forse non dovrebbe indulgere in atteggiamenti così “da vecchia politica”, d’altra parte c’è chi dice che si tratta solo di un problema di forma.

La forma, però, è intimamente legata alla sostanza e la sostanza è la dignità del Parlamento che non può continuare ad essere svilita da comportamenti che non si addicono all’esigenza di “buona politica”  che, con sempre maggiore insistenza, si fa strada nel Paese.

Ci aspettiamo  serietà, onestà, competenza da tutti i nostri rappresentanti (nessuno escluso).

 

Gran brave persone.

Sono delle gran brave persone gli uomini che, in queste ore, si immergono per recuperare le salme delle donne e degli uomini e dei bambini, sono gran brave persone  e non solo perché  sono impegnati in un “lavoro” tragicamente indispensabile, e non solo perché compiono con scrupolo il loro dovere, ma perché svolgono la loro opera pietosa con rispetto, con commozione, con l’attenzione e la partecipazione  che dedicherebbero ai loro cari, come se là sotto ci fossero i corpi di persone amiche e non i poveri resti di esseri umani sconosciuti.

E’ innanzitutto un’opera misericordiosa la loro, che restituisce a queste persone definite “migranti” e “clandestini” la dignità di esseri umani, perché gli esseri umani, tutti gli esseri umani, hanno diritto ad una sepoltura dignitosa, hanno diritto ad un luogo dove riposare e dove qualche anima pietosa possa offrire un fiore, una lacrima, una preghiera.

Facciamo fatica a ricordare che quei “corpi” sono persone che hanno lasciato, nel loro paese, genitori, fratelli, altri esseri umani che li amano, che temono per la loro sorte o che piangono la loro scomparsa.

Per questo vorrei ringraziare gli uomini che continuano ad immergersi nell’orrore del barcone affondato, perché con la loro pietà mi ricordano che, in mezzo a tante brutture, gli uomini possono essere “belli”.

 

Festa patronale.

Alla vigilia della festa patronale il clima è decisamente bruttino “come sempre”, dirà qualcuno, ma in realtà non è vero, negli ultimi anni c’è stato bel tempo ed un caldo quasi estivo, ma è un luogo comune diffuso: la festa cade nella prime domenica di ottobre e l’impressione dell’autunno imminente è prepotente.

Un tempo la festa era l’occasione per riesumare il vestito buono, per preparare la torta paesana (una torta povera, fatta con il pane raffermo, ma che bastava a creare un’atmosfera di festosa opulenza), era l’occasione per riunire le famiglie che richiamava in paese anche chi se ne era allontanato per andare a vivere altrove, era anche un momento di intensa devozione.

Oggi l’atmosfera è un po’ più mondana, persino la torta tradizionale si è arricchita di ingredienti sempre meno poveri, e ha perso in gran parte la componente religiosa anche se la statua della Madonna del Rosario, che attraversa le vie del paese in processione, dovrebbe richiamarci all’originaria semplice fede popolare.

Buona festa del paese a tutti.

Il tempo del silenzio.

Facciamo silenzio su tutti questi cadaveri allineati e su tutti quelli che non si troveranno mai, ma facciamo in modo che non sia il silenzio dell’indifferenza, ma il silenzio del rispetto, del dolore, della riflessione, della preghiera.

Le parole, persino quelle di cordoglio, sono impotenti, nel migliore dei casi.

Se conoscessi la disperazione della fame, la mancanza totale di speranza, la certezza che il domani sarà peggiore dell’oggi e che la vita sarà una breve teoria di “domani” senza luce, probabilmente anch’io salirei su quel barcone.

Se nel mio Paese vedessi la violenza e la morte, l’esistenza appesa al filo sottile del caso, la sopravvivenza legata “ad un sì o ad un no” probabilmente salirei anch’io su quel barcone.

E mi attaccherei con tutte le forze a quella tenue bava di speranza, e spenderei fino all’ultima moneta, e soffrirei la fame, il freddo, la paura, la solitudine.

Per questo comprendo gli uomini e le donne che lasciano la propria terra, la famiglia, gli affetti, le radici per giocare a dadi la propria vita.

Li comprendo perchè anch’io farei la stessa cosa e nessuna legge, nessun muro, nessun rifiuto riuscirebbe a fermarmi.

Perchè la disperazione non si ferma con un rifiuto, con un muro, con una legge.

 

Quando la realtà…

Qualche anno fa Corrado Guzzanti si inventò uno sketch gustosissimo e un po’ surreale nel quale imitava un serissimo ministro Tremonti che proponeva, per pareggiare i conti pubblici, di vendere la Sardegna.

“Diamo via la Sardegna, c’ho un compratore” ripeteva persuasivo.

Era solo satira, certo.

Ma oggi mi è tornato  in mente, all’improvviso, quando ho letto la notizia della vendita all’asta dell’isola di Budelli.

Purtroppo la realtà supera quasi sempre la fantasia.