Archivio mensile:Giugno 2013

Quantità e qualità.

Tempo di esami: oggi comincia la maturità, mentre alla scuola media già imperversano gli orali.

Mentre il malcapitato è seduto davanti ai suoi insegnanti, che vede come giudici più o meno implacabili, in un angolo dell’aula staziona un gruppetto di supporter: c’è il compagno che sosterrà l’esame subito dopo (… e lo si riconosce dal pallore diffuso), ci sono i ragazzi che lo sosterranno tra qualche giorno e non sono ancora ben consapevoli dell’evento, c’è chi l’esame l’ha già affrontato, magari poco prima, e ha un’espressione “da vacanza” che consola.

Quando il colloquio finisce il gruppetto sciama nell’atrio e allora, invariabilmente, qualcuno si lascia sfuggire la frase “ha parlato tanto!” come se, nella valutazione dell’esame, la quantità delle parole facesse davvero la differenza.

“Come è andato l’orale?” chiede uno sparuto genitore che non si sogna nemmeno di spingersi oltre la soglia, “Ha parlato” risponde un coretto rassicurante.

Vorrei richiamare l’attenzione dei ragazzi su un fatto che tendono a sottovalutare: all’esame di terza media, come in molte circostanze della vita, la quantità conto fino ad un certo punto, non bisogna indulgere sul fatto di aver detto delle cose, ma su “quali” cose si sono dette e “come” si sono dette, bisogna riuscire a valutare la propria capacità di rispondere ad una domanda in modo pertinente e, possibilmente, esauriente.

E’ banale, lo so, ma è un po’ come quando i miei ragazzi mi consegnano un tema e mi chiedono speranzosi “è abbastanza?” (come se io valutassi i temi con lo “spannometro”.

Pietas.

Non so se sia più insopportabile l’assembramento di curiosi o il totale disinteresse, sta di fatto che la notizia della signora deceduta in spiaggia mentre intorno la vita continua come se niente fosse mi ha rattristato.

Una volta, tanto tempo fa, quando forse eravamo più civili, in presenza della morte ritrovavamo un po’ di silenzio e di compostezza e un attimo di riflessione.

Oggi, al massimo, può anche succedere che qualcuno immortali l’evento con il cellulare e poi via, di  corsa, perchè la vita continua e forse abbiamo paura di fermarci a riflettere.

Forse dovremmo ritrovare quella “pietas” che incarnava il rispetto per la dignità dell’uomo e per i valori dell’umanità.

Cifra tonda.

Nel 1953 venivano pubblicati sulla rivista Nature i risultati della ricerca che descriveva la doppia elica del DNA, veniva inaugurato lo Stadio Olimpico di Roma, Edmund Hillary e Tenzing Norgay scalavano per la prima volta l’Everest, A Cuba iniziava la rivoluzione e, proprio il 17 giugno, a Berlino i carri armati sovietici intervenivano per sedare uno sciopero degli operai.

Nel 1953, proprio sessant’anni fa, tra tanti eventi importanti la cronaca ne registrava uno un po’ più oscuro: sessant’anni fa, in una clinica milanese, attesa con ansia da un incredibile stuolo di zie, nasceva questa ragazza che oggi si ostina a credere di averne ancora solo venti (di anni).

Sessanta è una bella cifra tonda e, fino a non molto tempo fa, segnava ufficialmente l’entrata nella terza età, quando ci si ritirava dal lavoro e si cominciava a dedicare il tempo libero a sè stessi ed, eventualmente, ai nipotini.

Oggi (potenza ella tecnologia) anche il bancomat e la pagina iniziale di Google mi hanno fatto gli auguri, mentre la pagina di facebook e la memoria del mio cellulare si riempiono di messaggi festosi e allora sarà il caso che decida di festeggiare anch’io.

Ma non voglio la torta con sessanta candeline: ho il dubbio che non riuscirei a spegnerle tutte.

Eredità.

Amo molto le storie di famiglia, soprattutto quelle che si intrecciano con la storia (quella col la “S” maiuscola) e la illuminano da un punto di vista personale e originale che permette di definire meglio i contorni di eventi lontani, dimenticati o mai approfonditi.

Sarà perchè appartengo ad una famiglia nella quale la narrazione degli eventi del passato è stata, per molti anni, la fiaba della “buona notte”, sarà perchè, fin da bambina, mi incantavo a sentire i racconti dei miei genitori e dei nonni e dell’unica bisnonna che ho conosciuto, ma ascoltare i ricordi dei testimoni del passato mi affascina sempre.

Fin da bambina rivivevo nei racconti dei miei i bombardamenti su Milano, la guerra in Libia, il campo di concentramento in Sudafrica, i funerali di Giuseppe Verdi: in poche parole il mio amore per la storia nasce proprio dalla narrazione delle storie.

Tutti quei ricordi si affacciano alla mia mente e vorrei tanto avere il tempo e la necessaria serenità per trascriverli, per non lasciarli scivolare nell’oblio, per consegnarli in eredità a quei nipoti che sono molto di là da venire (o ai figli e nipoti “virtuali” che sono i miei allievi).

Sarà il mio amore per la Storia e per le storie che mi ha spinto a leggere in un fiato il libro di Lilli GruberEredità” chhe ricostruisce con infinito amore le vicende della bisnonna Rosa, attraverso le sue pagine di diario, intrecciate a quelle della sua terra natale, terra di confine, travagliata e contesa fra due guerre mondiali.

E’ una lettura che consiglio a chi, come me, ama scoprire il passato attraverso le parole dei protagonisti.

L’amico della Sciura Pina.

Ho un amico un po’ “particolare”, un signore non ancora settantenne ricoverato nella stessa casa di riposo dove è ospitata mia madre.

Pur non essendo molto anziano è affetto da una grave infermità che lo ha costretto da diversi anni sulla sedia a rotelle, di solito è molto riservato, se ne sta in camera sua a guardare la televisione, partecipa poco alle attività di gruppo e fa capolino solo per recarsi in sala da pranzo.

E’ un grande appassionato di sport in generale e di calcio in particolare, tifosissimo della Juventus segue tutte le partite e anche gli infiniti dopo-partita consumati in eterne discussioni fra giornalisti ed esperti di calcio.

Anche lui, a suo modo, è un esperto e deve aver deciso che la sua “mission” consiste nell’acculturarmi in questa disciplina sportiva.

Così, tutte le sere, mentre si reca a cena, si sofferma in corridoio, saluta calorosamente mia madre e poi mi racconta azioni, schemi, formazioni, pettegolezzi sul calcio mercato con una competenza e una precisione incredibili.

Mia madre, con l’egoismo tipico dell’età, si secca un po’ perchè si sente derubata della mia attenzione e allora cerco di farla partecipe di discorsi che, per lei, non presentano nessun interesse e così lei si rasserena e il “mio amico” sorride contento di poter condividere le proprie passioni.

Qualche volta arrivo “preparata” sulle partite del giorno prima (ce n’è sempre almeno una e mio marito è, a sua volta un esperto) e così posso interagire simulando una competenza che sono ben lungi dall’avere.

Amo questi pochi minuti di colloquio perchè ho l’impressione di riuscire, nel mio piccolo, a creare un piccolo spazio di confidenza e di simpatia.

Lo dico sempre: a volte basta proprio poco.

Corsi e ricorsi estivi.

Con l’estate imminente (manca giusto una settimana al solstizio) si verifica tutta una serie di corsi e ricorsi che contribuiscono a ricreare la giusta atmosfera.

E’ tornato un po’ di caldo (finalmente mi verrebbe da dire), sono tornate le zanzare (e qui il “finalmente” è fuori luogo), sono tornati gli esami, sono tornate le voci dei ragazzini che giocano fino a tardi in cortile, ed è tornata la programmazione televisiva tipica delle serate da giugno a settembre.

C’è una trasmissione che riesce a catturare la nostra attenzione, una trasmissione costruita con gli spezzoni delle “Teche Rai” che va in onda in prima serata, in sostituzione dei quiz e pacchi vari, una trasmissione “povera”, ma che, almeno per le persone vecchierelle come noi, risulta intrigante e carica di nostalgia.

Ogni sera viene affrontato un tema costruito attraverso piccoli brani di televisione, alcuni recenti, altri decisamente più antichi, in bianco e nero, sbiaditissimi.

Il gioco consiste nel riconoscere i personaggi, nello stupirci con frasi del tipo “ti ricordi?”, “come era giovane!” in un turbinio di “come eravamo” nostalgici e un po’ ingenui.

E’ il nostro passatempo estivo, non impegna la mente e ci regala un po’ di dolce tenerezza per il tempo andato.

E’ la notte prima degli esami, bellezza.

L’ultima formalità prima dell’inizio dell’esame di terza media è la consegna delle pagelle alla quale, spesso, partecipano nel ruolo di accompagnatori (decisamente interessati) anche i ragazzi.

Si aggirano per il corridoio con l’aria di essere lì per caso, forse per controllare che la loro classe negli ultimi due giorni non sia cambiata o forse per svagarsi un po’ dallo studio “matto e disperatissimo” (citazione dotta che i miei ragazzi dovrebbero riconoscere senza battere ciglio).

Hanno facce un po’ smorte e sorrisi tirati (come se si fossero sottoposti ad un lifting mal riuscito), si esprimono a monosillabi o peggio a gesti, sono le ombre sparute dei ragazzi vivaci che ho visto, per tre anni, fino a quattro giorni fa.

E’ la sindrome da esami, i primi esami della loro vita (io alla loro età avevo già affrontato quelli di seconda e quinta elementare e quindi ero navigata).

Ho cercato di rassicurarli, ho consigliato loro di andare a dormire presto, ben sapendo che l’adrenalina li terrà svegli più del solito perchè la notte che li aspetta è la “notte prima degli esami” quella popolata da assurde paure, da improvvise amnesie, dal più socratico dei “so di non sapere”.

Per fortuna domani è un alto giorno (senza l’apostrofo, mi raccomando).

Ci vorrebbe un canotto.

L’ultimo giorno di scuola è caratterizzato, soprattutto nelle terze, da un alto tasso di lacrime tanto che, cercando di sdrammatizzare, sono solita ripetere che, in previsione dell’imminente inondazione, “mi porterò il canotto”.

Di solito la mia affermazione viene accolta da qualche timido sorriso (tra le lacrime).

Ogni volta le lacrime mi stupiscono, perchè di solito per i ragazzi della mia scuola non si tratta di un vero e proprio addio, in realtà, abitando in un paesino di settemila anime, continueranno a incontrarsi e molti di loro si ritroveranno  nella stessa scuola superiore, se non addirittura nella stessa classe.

E allora?

Se non si tratta solo del dispiacere per la “perdita” dei compagni di cento battaglie, o peggio degli insegnanti, qual è la causa di tutto quel pianto?

Forse è l’idea di perdere un pezzetto di infanzia, con le sue sicurezze, l’idea di perdere un ambiente nel quale ci si sentiva protetti e sicuri, un paesaggio che la consuetudine ha reso familiare, suoni e rumori e voci sempre uguali e rassicuranti,.

Forse si tratta di abbandonare, per la prima volta, ma definitivamente, il nido e provare a volare in un cielo sconosciuto, ma non per questo irto di insidie.

Ciò che non si conosce può fare paura, ma rappresenta anche una sfida esaltante e nuovi traguardi, sconfitte e vittorie, delusioni ed entusiasmi.

C’è un mondo là fuori che aspetta i miei ragazzi, ci sono strade da percorrere, ostacoli da superare, nuove lacrime e nuovi sorrisi.

Dovrei piangere io, che resto irrimediabilmente qui.

Ma anche per me il nuovo anno, i nuovi ragazzi sono una sfida e, al solo pensiero del futuro, mi viene da sorridere.

 

 

Panini indigesti.

Pare che in un locale di Vienna (gestito da italiani) il menù proponga panini ispirati a boss mafiosi e a personaggi che hanno dedicato la vita (spesso perdendola) alla lotta alla mafia.

Mi sembra già una cosa di pessimo gusto usare nomi come quello di Giovanni Falcone o Peppino Impastato per “battezzare” dei panini, ma quel che è peggio (e che mi sembra improntato ad un ottuso cinismo) è la descrizione dei panini ispirati ai personaggi.

Non trovo accettabile paragonare Falcone ad un salsicciotto abbrustolito o Impastato ad un pollo grigliato.

Quella che agli autori del menù probabilmente era parsa una trovata geniale si rivela un’operazione poco intelligente, per nulla ironica e irriguardosa nei confronti di persone che dovremmo solo ammirare.

Va inoltre sottolineato che il tono generale della pubblicità non fa altro che riproporre l’immagine del nostro Paese come una terra di mafiosi, strizzando l’occhio ad un pregiudizio purtroppo sempre troppo diffuso oltralpe.

E’ inutile dire che la reazione della rete è stata quasi immediata e la pagina di Facebook si è coperta di insulti, io di solito non insulto, ma un suggerimento lo avrei: se gli autori di questa fine campagna di marketing hanno veramente nostalgia del nostro Paese potrebbero ribattezzare i panini (che so?) Leonardo, Michelangelo, Giotto e Raffaello oppure Napoli, Roma, Firenze, Venezia.

Per favore lasciate in pace i morti.

D-day

Era l’alba del 6 giugno del 1944 quando al largo della costa normanna apparvero le navi, tantissime navi, che all’improvviso occuparono tutto l’orizzonte.

Lo sbarco in Normandia è raccontato in decine di film e documentari, è entrato a far parte, con il suo racconto crudelmente cruento, dell’immaginario collettivo, ma per capire bisogna andare lassù, su quelle spiagge silenziose che oggi sono meta di turisti.

Bisogna percorrere i sentieri della Pointe du Hoc che si aggirano tra i crateri ancora visibili delle esplosioni di allora, bisogna camminare lungo Omaha Beach battuta dal vento e poi bisogna salire sul poggio dove si allineano lunghe file di croci bianche tutte uguali.

Davanti a quelle croci si ha la percezione della tragedia della guerra, basta camminare lentamente prendendosi il tempo per leggere tutti quei nomi e le date di nascita, così terribilmente prossime alle date di morte e allora i film e i documentari non sono più immagini sbiadite dal tempo, ma evocano persone giovani, giovani uomini venuti da lontano a combattere e a morire su queste spiagge.

Si cammina in silenzio tra quelle croci e non si è più turisti, ma pellegrini.

omaha beach