Archivio mensile:Gennaio 2008

Oggi non ho voglia di pensarci.

Rileggendo gli ultimi post mi sono resa conto che, sempre più spesso, ho scritto del tempo (intenso come tempo atmosferico), come succede in ascensore, quando ci si trova con qualcuno che non si conosce, ma ci si sente in dovere di riempire il silenzio imbarazzato e imbarazzante con parole poco impegnative.

“Oggi non voglio pensarci, ci penserò domani” si ripeteva Rossella O’Hara nei momenti cruciali della sua vita”dopo tutto domani è un altro giorno”: ecco io mi sento un po’ in questo stato d’animo.

Se sfoglio i giornali mi accorgo che sono troppe le notizie che richiederebbero un’attenta riflessione: dalla contestazione del Papa alla Sapienza alla crisi politica, dalle vicende giudiziarie degli ultimi giorni allo stillicidio infinito delle morti sul lavoro fino alla situazione paradossalmente drammatica dei rifiuti in Campania.

Ci sono anche notizie più leggere che comunque meriterebbero un commento come la dipartita prematura del portale Italia.it o la nuova edizione del Grande Fratello, ma francamente non ho voglia di impegnarmi.

Sto attraversando un periodo di superlavoro a scuola e tra le pareti domestiche, ho poco tempo per leggere i giornali, non ho la tranquillità sufficiente per formarmi un’opinione personale possibilmente ragionata.

In questo periodo, di conseguenza, nel mio blog parlo d’altro, per esempio del tempo, come nella miglior tradizione anglosassone, o dei ricordi d’infanzia, del mio lavoro e delle problematiche dell’educazione, mi sento vagamente in colpa perché ho l’impressione che se fossi una blogger seria commenterei le notizie d’attualità, ma in questa situazione preferisco tacere.

stampa

In una nebbiosa mattina d’inverno.

E’ fatale: dopo una settimana di pioggia e due giorni di cielo sereno arriva la nebbia, per lo meno dalle mie parti, una nebbia fitta, gelida, piovigginosa, che fluttua portata dall’aria e copre ogni cosa come una coltre biancastra dallo spessore mutevole.

Quando la nebbia si dirada un po’ il sole sembra fare capolino, è un sole timido, chiaro, si può fissare impunemente come attraverso uno schermo opaco.

Chi abita dalle mie parti, al limite della valle Padana, è abituato a convivere con la nebbia, l’ha respirata a pieni polmoni fin da bambino, anche se negli ultimi anni il fenomeno si è fatto sempre meno imponente: gli anziani ricordano, con una punta di nostalgia del tempo andato, i nebbioni fitti del passato, quando non si vedeva neppure l’altro lato della corte.

Erano i nebbioni come quello nel quale si smarrisce il nonno di “Amarcord” che, improvvisamente, teme di essere morto, dove ci si sente completamente annullati e soli, dove si perde il senso dell’orientamento e delle distanze, tutto il paesaggio muta e ciò che fino a poco prima ci era familiare diventa ignoto e quasi mostruoso.

Erano i nebbioni che ricordo, da bambina, insinuarsi nel Duomo e impigliarsi con dense volute, come incenso, fra gli archi gotici e le ogive decorate oppure quelli popolati dai leggendari spettri che, come la Dama del castello, preferiscono l’invisibilità delle notti nebbiose per aggirarsi nella città che sembra incantata.

E’ incredibile, ma, dalle mie parti, anche la nebbia ha il suo fascino arcano.

nebbia

Lasciamoli giocare.

Un post di Giuliana di qualche giorno fa mi ha fatto riflettere sul mondo dell’infanzia: si parla di una festicciola di compleanno di due bimbe di cinque anni e dei regali che spaziano dalle famigerate Winx, alle mai dome Barbie, a indumenti come minigonne e sandaletti forniti di tacco.

Non ricordo i miei cinque anni, riesco a ricostruire i miei giochi solo attraverso qualche fotografia, ma ricordo gli anni seguenti, ricordo i giochi estivi, le interminabili costruzioni di capanne di rami e foglie  dietro la casa, quando il gioco consisteva nel progettare, procurarsi i materiali e raccontarsi a vicenda una storia che, in qualche modo, motivasse la necessità di un rifugio dove trovare riparo.

Ricordo i pomeriggi trascorsi in estenuanti partite a nascondino, che non finivano mai, o in gare a palla avvelenata e a bandiera che non richiedevano giocattoli costosi, ma solo la voglia di divertirsi e di stare insieme.

Quando pioveva c’erano le costruzioni di legno, la tombola, le carte da gioco o una signora molto anziana, quella che ci affittava le stanze per i mesi estivi, che ci radunava vicino al camino e, mentre continuava a sferruzzare, raccontava storie fantasiose o spaventose.

Noi bambini, che abitavamo  nelle case affacciate sulla piazzetta, eravamo sempre in gruppo, vivevamo all’aperto e rientravamo in casa solo per mangiare, per andare a dormire o quando le mamme riuscivano fortunosamente ad acchiapparci e ci imponevano una sosta per svolgere i compiti delle vacanze.

Ho giocato tanto, da bambina,  non mi sono mai annoiata e penso che il gioco abbia contribuito a fare di me quella che sono, abbia sviluppato la mia fantasia, la mia creatività, la mia curiosità.

Mi fanno tristezza i bimbi di oggi che, nonostante o forse a causa dei moltissimi giocattoli ipertecnologici e di gran moda, riescono comunque ad annoiarsi.

Pietà popolare.

Chi va spesso in montagna sa che, lungo i sentieri, sui muri delle vecchie cascine o sulle vette è facile incontrare edicole sacre e croci: simboli antichi di una religiosità semplice, ma profonda, radicata nella cultura della gente.

Le cappellette spesso mostrano affreschi appena abbozzati, consumati dal tempo e dalla pioggia, figure ingenue protette da grate leggere dove, talvolta, una mano devota depone un piccolo mazzo di fiori o un lume subito spento dal vento.

Mi piace soffermarmi ad osservarli, cercare di decifrare l’iconografia tradizionale per riconoscere i santi tratteggiati con pochi segni facilmente riconoscibili: si tratta di un linguaggio che la gente, in passato, comprendeva immediatamente, non serviva aver studiato e neppure saper leggere, bastava saper identificare pochi simboli tramandati da tempo immemorabile.

Allora un cane con un pane in bocca permetteva immediatamente di riconoscere san Rocco, che da secoli proteggeva le popolazioni della valle dalla peste, mentre una freccia conficcata nella gamba di un aitante soldato romano indicava san Sebastiano, il protettore degli animali da lavoro.

Era una religiosità semplice, ma sincera, legata alle esigenze della vita quotidiana, al lavoro duro, alla necessità di cibo, di salute, di un po’ di serenità, come semplici, ma ingenuamente sinceri sono gli ex voto che adornano le chiesette, piccoli dipinti che narrano, con pochi tratti, lo scampato pericolo dal morso di una vipera, l’insperata salvezza dopo la caduta rovinosa in un dirupo o la sopravvivenza di uomini e animali al fulmine.

Ogni tanto mi piacerebbe avere una fede così: capace di stupirsi, capace di chiedere, capace di ringraziare.

Cappelletta

Sole.

E’ tornato finalmente a splendere il sole, dopo interminabili giorni di pioggia insistente, fredda che mi bagnava anche l’anima: alla mattina, appena alzata, mentre il caffè riempiva del suo aroma la cucina, mi affacciavo alla finestra e scrutavo speranzosa le pozzanghere nella speranza di scoprirle immobili, invece vedevo le gocce rimbalzare rabbiose o picchiettare sulla superficie dell’acqua, leggere e sottili.

Finalmente il sole all’alba si fa strada fra le nuvole, un sole nuovo, quasi primaverile, un sole che non sembrava dover tornare mai più, ed eccolo invece lì, appena dietro la scuola, trionfante e luminoso.

Vado a lavorare tutta contenta, all’intervallo le mie “lucertoline” si siedono sul gradino soleggiato e chiacchierano allegre come tanti uccellini, i maschi si sono inventati una pallina di carta e giocano a calcio con accanimento: al suono della campanella faccio fatica a radunarli, scappano da tutte le parti, non hanno voglia di tornare in classe, il Sacro Romano Impero è lontano mille miglia dai loro interessi, nei loro occhi c’è già un presagio di primavera.

Mentre torno a casa alzo lo sguardo, all’orizzonte le mie montagne brillano coperte di neve contro il cielo azzurro: la settimana è stata faticosa, ma sono di buon umore, mi viene quasi voglia di correre e canticchiare a mezza voce.

Certo che è un bel guaio essere meteoropatici.

alba

Imparare a leggere.

Finalmente è iniziato il corso di lettura ad alta voce, cinque incontri serali, dalle 21 alle 23: arrivo in biblioteca, infreddolita, sotto la pioggia battente che in questi giorni imperversa dalle mie parti, è una serataccia che avrei trascorso volentieri in casa, ma un impegno è un impegno.

Cerco di scacciare il vago sentimento di pentimento che si insinua nella mia mente, entro nella sala adibita al corso, c’è un lungo tavolo illuminato da alcuni faretti e un leggio.

A poco a poco arrivano anche gli altri partecipanti, alla spicciolata, una decina in tutto (io per principio arrivo sempre in anticipo), l’insegnante si presenta, c’è un po’ di imbarazzo, poi cominciamo gli esercizi: ciascuno di noi deve presentarsi secondo una modalità diversa, a me toccano i toni e la postura di un politico impegnato in un comizio.

Dopo le prime frasi cominciamo a scioglierci e a metterci in gioco, il buon umore serpeggia intorno al tavolo, l’esercizio si rivela davvero divertente così, quando dobbiamo impegnarci nella lettura di un articolo di giornale come se fossimo degli animali, siamo ben decisi a mettere da parte ogni timidezza.

La serata si conclude con la lettura di alcuni brani da “Esercizi di stile” di Queneau, quando ci alziamo per uscire ci rendiamo conto che la lezione, benchè impegnativa dopo una giornata di lavoro, è stata liberatoria ed il tempo è volato.

Valeva veramente la pena di uscire  di  casa in una piovosa sera di gennaio.

Thinking Blogger Award.

Anche se un po’ in ritardo ringrazio Elisabetta e Alberto che mi hanno nominato per il “Thinking Blogger Award“: un “meme” che ha lo scopo di segnalare i blog “che fanno pensare”.

Ringrazio entrambi perchè è gratificante scoprire che ciò che scrivo interessa a qualcuno e, qualche volta, stimola la riflessione: quando ho iniziato l’avventura di questo blog avevo l’intenzione di condividere esperienze, idee, impressioni e riflessioni e sono contenta che, almeno ogni tanto, questo succeda.

Le regole per partecipare a questa iniziativa sono poche e semplici:

  • Partecipare se si è stati nominati.
  • Lasciare un link al post originario inglese
  • Inserire nel post il logo del “Thinking blogger award”.
  • Indicare i blog che fanno pensare.

A mia volta nomino:

D’anima, d’acqua e di respiro, Kromeblog, Legione straniera, Solo Testo e Eva Carriego.

Fuori dal nido.

Mi fanno un po’ tenerezza le mamme (e anche i papà) dei ragazzini di prima media che, improvvisamente, si trovano faccia a faccia con delle persone completamente diverse da quelle che conoscevano (o credevano di conoscere) fino a pochi mesi prima.

E’ dura accettare che i cuccioli vogliano lasciare il nido, in fondo il nido è ancora caldo e accogliente, nulla sembra cambiato, eppure i piccoli fanno timidi tentativi di volo libero, vogliono più autonomia, affermano la propria identità opponendosi a tutto, ma soprattutto ai genitori, diventano polemici, discutono su tutto, si chiudono in ostinati mutismi che si sciolgono solo quando sono in compagnia dei loro amici, cominciano ad interessarsi al loro aspetto, ai vestiti, al taglio dei capelli.

Qualche volta i genitori decidono di parlarne con gli insegnanti, per cercare qualche istruzione per l’uso, in fondo gli insegnanti hanno a che fare quotidianamente con orde di preadolescenti inquieti, allora bisogna rassicurali, i loro figli si comportano in modo assolutamente normale, non si può trattenerli, bisogna però accompagnarli in un momento così delicato.

Il ruolo dei genitori è fondamentale: devono diventare una presenza discreta, ma attenta, devono essere pronti a fornire appoggio e aiuto, ma altrettanto preparati all’idea che i figli non chiederanno nulla.

Se sapranno essere al fianco del cucciolo nel modo giusto resteranno in sintonia con lui, otterranno la sua confidenza e, quel che più conta, la sua fiducia.

Leggere una fotografia.

Tra le attività che amo svolgere in classe, oltre all’interpretazione dei documenti storici, c’è la lettura delle fotografie e delle fonti iconografiche: spesso, infatti, è più facile comprendere e memorizzare alcuni concetti attraverso le immagini che non attraverso un testo scritto.

Quando frequentavo la scuola media la mia insegnante di lettere, per spiegare il Verismo, sosteneva che il Verga descriveva la realtà come se fosse una fotografia, impietosa e veritiera, in nessun modo edulcorata, in nessun modo contraffatta.

A me piace che i ragazzi capiscano che la fotografia, pur nella sua obiettività, è sempre un’interpretazione della realtà, l’autore, nel momento dello scatto, sceglie l’inquadratura, la luce, l’effetto e tutte le variabili che gli permettono di meglio esprimere il “messaggio” che intende trasmettere.

E’ evidente che è diversa una fotografia di una località scattata per pubblicizzarne le bellezze turistiche o per denunciarne il degrado ambientale: eppure non è infrequente che la bellezza coesista col degrado.

Allora è importante che i ragazzi capiscano che una immagine, prima di tutto, esprime un’idea, trasmette un messaggio e bisogna sempre ricordare che la fotografia non è una registrazione asettica dell’esistente, ma un modo per raccontare una storia, esprimere un parere, dare un giudizio.

Così un piccolo fiore secco, abbarbicato alla roccia in una fredda giornata d’inverno, racconta l’amore per la vita e per la bellezza.

fiore d'inverno