La prima volta.

Come si fa a non ricordare la prima volta: il senso di euforia e insieme di smarrimento, l’impressione profonda di trovarsi in una situazione tante volte immaginata, ma mai vissuta, qualcosa di cui hai sentito parlare, ma che in realtà non conosci e, anche se ti sei preparata, hai letto ciò che c’era da leggere, hai ascoltato attentamente i racconti di chi ci è passato prima, riesci solo vagamente a intuire, capisci che cambierà radicalmente la tua vita, ma hai il timore del cambiamento.

Avevo ventitré anni quando, stringendo fra le mani la nomina del preside, mi sono trovata faccia a faccia con la mia prima classe: insegnante precaria quant’altri mai, titolare di una supplenza di quindici giorni, non ancora laureata (perchè negli anni settanta, in Lombardia, c’era posto anche per chi stava ancora frequentando l’Università, soprattutto per le supplenze brevi).

Il primo impatto col mondo della scuola è stata la vista di un ragazzino che arrivava dal fondo del corridoio, con un taglio profondo nel braccio (aveva appena sfondato il vetro della porta dei bagni: allora nella scuola la sicurezza era un optional).

Mi ero presentata puntuale, con un batticuore da far paura e mi ritrovavo catapultata in un film di Dario Argento: per qualche minuto mi sono chiesta se quella era proprio la professione che intendevo intraprendere, mi sono sentita in trappola, spaventata, dubbiosa, con una voglia irrefrenabile di scappare.

Non sono scappata e non sono scappata neppure davanti a una classe di ventisette ragazzini pronti a mangiarsi la supplente in insalata, ho inalberato il cipiglio delle grandi occasioni, ho spiegato per due ore senza mai sedermi (non mi siedo mai neanche adesso), ho imparato i nomi a memoria a tempo di record, ho intuito quali ragazzi avrei potuto “tirare dalla mia parte” per farmi aiutare nella gestione della classe: in pratica ho capito quasi subito che quello era proprio il mio mestiere.

Poi la supplenza, per quelle strane alchimie che capitano, a volte, nella scuola italiana, è durata per tutto l’anno, rinnovata di volta in volta ogni due settimane e, nonostante gli inevitabili errori causati dall’inesperienza, ho portato la classe agli esami.

Ogni tanto li incontro ancora quei ragazzi, mi vogliono un bene dell’anima anche ora che sono dei quarantenni padri e madri di famiglia: qualcuno è diventato architetto, qualcuno medico o farmacista, qualcuno avvocato, ma anche chi non è arrivato all’università è riuscito a realizzarsi nel proprio lavoro o nell’impegno sociale e politico.

Oggi non si entra più così impreparati nelle classi, oggi gli insegnanti sono dotati di strumenti adatti allo svolgimento della professione e, probabilmente, procedono molto meno di me per tentativi ed errori, ma io so che è grazie a quella “leggendaria” prima volta che ho imparato il mio mestiere e quando incontro i miei ragazzi di allora provo ancora una gratitudine immensa per quanto mi hanno insegnato.

3 pensieri su “La prima volta.

  1. Hauru

    la mia prima volta dall’altra parte della barricata è stata ovviamente in prima elementare ,ricordo ancora la terrificante donna che si ergeva statuaria dietro la cattedra e ricordo pure di non averla mai vista ridere in tutti gli anni passati nell’edificio di via rimembranze.
    Era selettiva con la classe ,nel senso che abbandonava chi si ostinava a restare indietro e spingeva oltre il traguardo verso la tappa successiva chi era predisposto alla volata (non il sottoscritto) l’ho odiata per tutti quegli anni ,per come metteva soggezione e per la disciplina quasi militare che cercava di imporre, ma con il senno di poi …aveva ragione , quegli anni, assieme agli insegnamenti della famiglia, mi hanno insegnato sin dall’inizio prima ancora della matematica e dell’italiano l’importanza del rispetto

  2. Mariko

    Ogni volta che leggo i tuoi racconti, apprezzo il modo di scrivere e la fluidità delle tue parole. Riesci a far “accendere lo schermo” e a far vedere le immagini che hai descritto.
    E’ un piacere passare da te.

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