Archivio mensile:Aprile 2007

Ancora sul telefono.

Qualche mese fa, in un post, mi lamentavo del mio difficile rapporto con il telefono, di come squilli sempre nei momenti più inopportuni e spesso per motivi, almeno secondo il mio giudizio, futili.

Nel frattempo la situazione mi sembra peggiorata, ormai sette telefonate su dieci, fra quelle che ricevo, rappresentano tentativi abbastanza insistenti di appiopparmi qualche oggetto del quale non sento la mancanza, di propormi qualche nuovo servizio che mi serve pochissimo o di rifilarmi qualche convenientissimo (mi chiedo per chi) contratto di telefonia.

Se prende la telefonata mio marito, un uomo tutto d’un pezzo e di poche parole, sbatte giù la cornetta senza tanti complimenti, non appena intuisce il tenore della conversazione.

Io sono una persona abbastanza timida e disposta ad ascoltare e questo è la mia rovina, perché resto sempre impegolata in conversazioni che non riesco a troncare in modo gentile come vorrei, interrompere bruscamente la comunicazione corrisponde, per me, a sbattere la porta in faccia a qualcuno ed è un comportamento che non mi piace, ma qualche volta diventa indispensabile se non voglio acquistare mobili in arte povera, olio d’oliva pugliese, un ciclo di massaggi in un centro estetico, un corso di spagnolo e un viaggio sul Mar Rosso (tutto in un pomeriggio nel quale cerco disperatamente di prenotare per telefono una risonanza magnetica).

Devo inoltre fare grande attenzione a non pronunciarmi in espressioni che potrebbero assomigliare ad un assenso: un amico mi raccontava di  essersi trovato impegolato in un contratto che non voleva e che non aveva avuto intenzione di stipulare sulla base della registrazione di una telefonata nella quale aveva dimostrato un blando interesse per la proposta (logicamente era andata persa la parte conclusiva del dialogo nella quale affermava di non essere interessato al contratto).

Ho l’impressione che, in fin dei conti, il comportamento di mio marito sia comunque vincente, da parte mia ho imparato a simulare un accento vagamente straniero e a rispondere velocemente che “la signora” non c’è…..lo so che è ridicolo, ma è questione di sopravvivenza.

Sul lago.

In montagna il tempo muta in fretta, capita talvolta di partire con il tempo sereno per una camminata e ritrovarsi, verso mezzogiorno, quando le nubi si addensano più minacciose, a dover ridiscendere precipitosamente a valle per evitare di bagnarsi anche le ossa (quante volte mi è capitato!).

Ovviamente nelle giornate di tempo variabile si decide di optare per passeggiate meno rischiose e, quando l’estate è particolarmente incerta, per esempio come nel mese di agosto dello scorso anno, una delle mete predilette è il lago.

In pochi chilometri, scendendo dalla Valsassina a Lecco o a Bellano ci si trova su uno dei laghi più belli d’Italia: il Lario (per gli amici il lago di Como, quello di manzoniana memoria).

Lungo la sponda che va da Lecco a Colico ci sono alcune località veramente molto suggestive, forse meno famose di quelle della sponda comasca (dove ha messo su casa anche George Clooney) ma sicuramente meritevoli di una visita, a mezza costa, si snoda il “Sentiero del Viandante”, l’antica strada che permetteva di raggiungere Colico senza scendere sulle sponde del lago: è un percorso agevole, spesso delimitato da muretti a secco, che sfiora i paesi rivieraschi, facile da percorrere anche nei mesi invernali.

Lungo il sentiero si incontra un antico maniero, il Castello di Vezio, forse appartenuto alla regina Teodolinda., che si erge su uno sperone di roccia sopra Varenna, una delle perle del lago, può essere raggiunto anche dalla cittadina in automobile, anche se io preferisco salire la ripida rampa che si stacca dal centro e s’inerpica sulla montagna, perché, lungo il tragitto, è bello soffermarsi a riprendere fiato e godersi splendidi scorci sul lago.

Nell’area del Castello, da alcuni anni, è ospitato un centro di allevamento e addestramento di rapaci: capita spesso di assistere alle evoluzioni di questi splendidi animali (soprattutto l’elegantissima poiana di Harris) che si staccano, superbi, dal guanto del falconiere, si alzano nel cielo con grandi volute e ritornano, apparentemente docili, al richiamo dell’addestratore, fra le esclamazioni di stupore dei presenti, soprattutto dei bambini che sono sempre numerosissimi, incuriositi, ma anche un po’ impauriti, dall’aspetto di questi splendidi uccelli.

Ai piedi del castello si allarga una balconata sul lago che offre alcuni fra i più bei panorami su Varenna.

poiana di harris

Responsabilità.

“Se ti fai male poi non venire qui a piangere”

Quante volte ho sentito ripetere questa frase dai miei genitori, in buona sostanza significava: “sei libera di fare quello che vuoi, hai cuore e cervello per capire cosa è giusto, se decidi di fare qualcosa che non va ricordati che dovrai sopportarne le conseguenze”.

E’ la frase che mi ha accompagnato fin dall’infanzia quando mi arrampicavo su alberi e dirupi, quando decidevo di fare un giro in bicicletta invece di sedermi a studiare, quando sceglievo di partecipare ad un’assemblea non autorizzata.

Non era una minaccia, era semplicemente l’unico modo che i miei genitori avevano per richiamarmi al mio senso di responsabilità: sono stata una bambina vivace e un’adolescente testarda e indipendente, loro sapevano cosa mi avevano insegnato e avevano deciso di fidarsi del mio giudizio invece di limitarsi, un po’ velleitariamente, a proibirmi qualcosa, sapevano che in qualsiasi momento io mi sarei soffermata a ponderare le mie decisioni e che me ne sarei assunta la responsabilità.

Solo quando sono diventata madre a mia volta ho capito quanto sia difficile l’arte di guidare un figlio e nel contempo lasciargli anche la libertà di sbagliare, perchè sbagliando si cresce, perchè gli esseri umani imparano per tentativi ed errori.

Questo rimprovero ad alcuni genitori di oggi, che difendono i comportamenti indifendibili dei figli, che li proteggono in ogni circostanza, anche quando andrebbe data loro un po’ di autonomia: l’incapacità di permettere loro di crescere ed essere responsabili delle loro azioni.

Un albero per amico.

Tanto tanto tempo fa (in una galassia molto lontana) sono stata anch’io una ragazzina e mi sembra di ricordare che non avessi comportamenti sostanzialmente dissimili dalle “mie” fanciulle in fiore.

Mi piaceva stare in compagnia, raccontare all’amica del cuore i piccoli segreti, passare il pomeriggio girando sempre per le stesse vie del paese, nella vana speranza di incontrare casualmente “qualcuno”, ridere per niente e piangere per tutto.

Ogni tanto, però, sentivo un irrefrenabile impulso a stare da sola per poter pensare ai fatti miei con un po’ di tranquillità senza che qualche adulto di passaggio mi chiedesse all’improvviso “a cosa stai pensando?” gettandomi nel più patetico imbarazzo: di solito stavo pensando a qualcosa che, allora, non avrei confessato neanche sotto tortura.

Quando ero in vacanza in montagna (ebbene sì, sempre la Valsassina) avevo imparato ad arrampicarmi sugli alberi: c’era un abete molto vecchio sul limitare del parco-giochi dove mia madre portava mio fratello, che allora era particolarmente piccolo e rompiscatole, e, se mi obbligava a seguirla, dopo poco tempo sparivo tra i rami più alti, usando quelli più bassi come agevoli gradini di una scala a pioli.

Allora ero molto agile e sgusciavo tra i rami con sicurezza, mi portavo dietro un libro e qualcosa da sgranocchiare e mi perdevo, per ore, nella lettura o nella contemplazione del paesaggio, con la schiena appoggiata al vecchio tronco rugoso e le gambe, che erano sempre graffiate, penzoloni nel vuoto (una specie di Forrest Gump ante litteram).

Forse ero stata influenzata dalla recente lettura del “Barone rampante” e mi immaginavo di non scendere più, ma di trascorrere tutta l’esistenza muovendomi tra i rami, con il profumo inebriante della resina che mi solleticava le narici, osservando il mondo là sotto solo di tanto in tanto, quando la brezza apriva un varco tra le fronde.

Poi ho smesso di arrampicarmi come uno scoiattolo, perché ero cresciuta e mi vergognavo di quell’abitudine un po’ puerile, ora tornerei volentieri, ma il fisico non mi permette più di sfidare la gravità come allora…eppure il mio amico albero è ancora lì maestoso e paziente che sembra ancora aspettarmi, con le sue braccia accoglienti, per offrirmi attimi di solitudine e di quiete.

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Esattamente sei mesi fa…

Esattamente sei mesi fa incominciavo l’avventura di questo blog, un po’ titubante e non senza qualche perplessità, francamente avevo seri dubbi sulla possibilità che la cosa potesse continuare a lungo: mi conosco bene, so che se un’esperienza non corrisponde alle mie aspettative mi stufo subito, so di essere abbastanza incostante.

Tuttavia mi trovavo in una situazione un po’ particolare (…e mi ci trovo tuttora): problemi familiari che mi hanno caricata di tanto lavoro in più togliendomi, d’altra parte, molta libertà di movimento, per cui mi sono ritrovata spesso chiusa in casa con un po’ di tempo a disposizione (non molto in verità, ma si deve pur sopravvivere).

Questa infausta (…o fausta) congiuntura è stata la causa scatenante, poi il resto è venuto da sè, ho cominciato a scrivere, più per me stessa che per gli altri, per mettere un po’ d’ordine tra le mie idee confuse e così è nato il blog.

A poco a poco sono arrivati i primi commenti, il mio aggregatore si è riempito a dismisura, il mio blogroll si è allungato e posso dire che ad alcuni nomi ormai corrispondono dei veri e propri amici, persone che leggono i miei post, persone che leggo quotidianamente.

Mi sono ritrovata nella condizione che penso sia comune a molti, ormai se qualcosa mi colpisce, mi addolora, mi intenerisce, mi indigna o mi diverte mi siedo alla tastiera e scrivo un post.

D’altra parte mi è sempre piaciuto scrivere, scrivo di getto, senza fatica e mi rendo conto che, quando scrivo, riesco ad esprimermi meglio che parlando…perciò credo proprio che continuerò a scrivere, sempre per me stessa e se qualcuno avrà voglia di leggere sarà sempre il benvenuto.

Cambio di stagione.

La fine di aprile segna definitivamente ( di solito) lo sdoganamento dell’abbigliamento estivo e l’archiviazione di quello invernale: si tratta di una di quelle incombenze che la “brava” donna di casa (vedi “La grande enciclopedia della donna“) affronta con giubilo e zelo senza pari, siccome io NON sono una donna di casa e non sono neanche tanto “brava” il giubilo è ampiamente di là da venire.

Provo una botta d’invidia incredibile per alcune amiche che affrontano garrule il cambio di stagione: ripongono, insaccano e infiocchettano, come se fosse niente, quintalate di vestiti, mentre io mi aggiro scorbutica e ringhiosa, in preda ad un cupo sconforto, nella vana ricerca di quell’attrezzo che serve per riporre abiti e cappotti, con le loro belle grucce, nella parte superiore dell’armadio, e che sparisce ogni volta.

Va inoltre sottolineato che siccome, da tempo immemore, passo le vacanze in montagna, non posso dedicarmi ad un vero e proprio cambio di stagioni, con tanto di sacchi di plastica e naftalina, perchè può sempre capitare che in luglio venga immediatamente richiesta la presenza di un pile o di una giacca a vento allogata, chissà dove, in alta quota.

Per questo motivo le grandi manovre restano un po’ a mezzo, guardo mucchi di indumenti chiedendomi quali possano effettivamente essere riposti in modo definitivo e quali potrebbero venir buoni in un immediato futuro e questa scelta mi riempie di ambasce.

Inesorabilmente va a finire che alcuni passino in alto, con repentini e faticosi pentimenti, e altri, assolutamente inutilizzabili, restino tra i piedi fino al prossimo inverno.

Tanto so già che, una volta effettuata l’operazione, con tutti i dubbi e i ripensamenti che comporta, cambierà anche il clima e dovrò inerpicarmi nella dolorosa ricerca di quegli indumenti che credevo di poter ignorare per almeno sei mesi.

Arranco.

Praticamente manca un mese alla fine della scuola e, come al solito, mi accorgo di arrancare, ogni giorno mi pesa, ogni passo mi pesa.

In questo periodo si affastellano un sacco di interrogazioni, verifiche, simulazioni d’esame, adempimenti burocratici, corsi e ricorsi, spettacoli teatrali, correzioni, patemi miei e dei ragazzi: tutte situazioni che mettono a dura prova le mie coronarie.

Si aggiunga che soffro di pressione bassa (il mio cardiologo sostiene che è una benedizione del cielo!) il che mi fa sentire ancora più affaticata e stranita all’arrivo dei primi caldi e in più, di solito, in aprile e maggio mi viene regolarmente sonno a qualsiasi ora del giorno.

Vago con l’aria persa per la scuola, mi dimentico quasi tutto, vengo inseguita regolarmente da una provvidenziale bidella (lo so che si chiama personale ausiliario, ma non rende) che tenta disperatamente di farmi firmare le circolari, dopo essersi assicurata che le abbia memorizzate, io memorizzo, ma rimuovo nel giro di pochi minuti, per cui non so mai bene dove sono, cosa devo fare e, qualche volta, chi sono.

Mi consola il fatto che i miei ragazzi non stanno meglio:

“Il sindaco ci invita alla manifestazione del 25 Aprile!”
“Quand’è?” mi chiede uno dei più svegli…trasecolo, ma neanche tanto.

Non ci viene neanche voglia di ridere, perchè la situazione comincia a manifestarsi in tutta la sua sconvolgente tragicità.

Nelle ultime ore, complici la primavera e il caldo innaturale, abbiamo appurato che:

  • L’aggettivo isolato deriva da isola (incredibile ma vero!)
  • A Gerico si sono svolte le nozze di Cana (…e a Cana?)
  • Cervinia prende il nome dal Cervino (chi l’avrebbe mai detto?)
  • San Martino è il nome del paese (dove la nebbia sale agli irti colli).

Vista l’attuale situazione, a un mese dagli esami, si può affermare senza tema di smentita che siamo alle cozze (…o alla frutta se preferite).

Silenzi.

Vicino a casa mia, in montagna (vicino si fa per dire, saranno almeno due chilometri) c’è un piccolo convento di Carmelitane, ospitato in una villa tra i boschi e io ho preso l’abitudine di andare a fare quattro passi, di solito nel pomeriggio, quando il tempo non promette nulla di buono e quindi è meglio non avventurarsi sulle alte vette, per andarle a trovare.

In realtà vado a trovare Suor Virginia, che è quasi mia coetanea, vive in monastero, in stretta clausura, da più di vent’anni e prima di prendere i voti lavorava in un ospedale.

E’ una donna molto simpatica, sempre allegra e sorridente, quando mi faccio annunciare la sento scendere di corsa le scale, poi ci incontriamo, divise dalla grata, e ci salutiamo in modo festoso.

Non deve stupire questa mia amicizia, in realtà, superato il primo momento di imbarazzo e perplessità che sempre mi prende quando penso alla vita monastica di clausura, le nostre chiacchiere sono quelle di due vecchie amiche, che si vogliono bene e sono desiderose di condividere esperienze, pensieri e sentimenti.

Le parlo della mia famiglia, del mio lavoro, dei problemi degli adolescenti con i quali condivido buona parte del mio tempo, lei ascolta attenta, fa domande argute, perchè non tutto le è chiaro, io infatti tendo a dimenticarmi che la sua vita, all’interno del monastero, le preclude la conoscenza di alcuni fenomeni che per me sono “normali”.

Per esempio conosce internet, sa cos’è un blog, è a conoscenza degli avvenimenti della politica internazionale e dei dibattiti che animano la vita del nostro paese, ma non ha mai visto un centro commerciale e non riesce nemmeno ad immaginarselo e sa cos’è una fotocamera digitale perchè le ho mostrato la mia e le ho spiegato, mentre mi ascoltava stupita, che non è più necessario un rullino e le foto sono subito visibili sul display.

Lei ascolta tutto e sorride indulgente, il suo sguardo interessato, ma lontano, mi dà la misura di quanto siano poco importanti, dal suo punto di vista, alcune delle preoccupazioni che assillano la nostra giornata, è come se avesse imparato a guardare il mondo da lontano.

Intorno c’è un grande silenzio e si tende naturalmente a parlare sottovoce e, a poco a poco, la grata che ci divide non è più un ostacolo, ma diventa una soglia, un punto di contatto tra due mondi solo apparentemente diversi e separati, ma che si intersecano in modo indissolubile.

Ogni tanto mi chiedo che cosa possa spingere una persona, al di là della fede, a rinchiudersi tra quattro mura, a scegliere di restare “prigioniera”, ma poi mi rendo conto che anche certe nostre “prigioni” senza sbarre, tra lavoro, abitudini, convenzioni e convinzioni, in fondo non sono meno soffocanti.

L’unica vera differenza è che le nostre “prigioni” sono piene di stress e di affanni, la sua è un’oasi di serenità.

la grata

Ristrutturazioni.

Un altro week end in montagna: c’è un clima quasi estivo, il cielo è velato, fa caldo anche se, ogni tanto, si muove una brezza leggera, i prati sono punteggiati di fiori, non i crochi, i primi fiori che spuntano quando si scioglie la neve, ma primule, violette, erica e migliaia di fiorellini più anonimi , ma coloratissimi.

Andiamo a fare una bella passeggiata in una zona di alpeggi, era da luglio che non passavo da queste parti e devo dire che il paesaggio è abbastanza mutato: dappertutto sono aperti dei cantieri, si tratta soprattutto di ristrutturazioni di vecchie cascine che, come per magia, crescono, si allargano, si allungano e si trasformano in vere e proprie ville, con muri in pietra e travi in legno, graziose ed accoglienti, ma che sicuramente non hanno nulla a che vedere con le costruzioni originarie.

Anche i sentieri, che erano piuttosto stretti e impervi, si sono trasformati in strade larghe, sterrate, dove possono passare agevolmente ruspe e camion: ho l’impressione che, senza far troppi clamori, questo pezzo di montagna si stia urbanizzando e la prospettiva francamente non mi piace.

Il fascino di questi luoghi è legato, oltre al panorama e all’aria buona, alla loro relativa inaccessibilità che assicura silenzio, interrotto solo dai campanacci delle mucche, e tranquillità, invece si vedono già le conseguenze dei mutamenti: moto che passano rombando ed obbligandoci a rifugiarsi sul bordo della strada, fuoristrada ingombranti, rumorosi e relativamente puzzolenti, che si inerpicano senza difficoltà obbligandoci a scappare nei pascoli.

Camminare a piedi sta diventando davvero un’impresa, bisognerà rassegnarsi e cercare qualche luogo non ancora (per ora) contaminato dalla ristrutturazione selvaggia e dalle relative infrastrutture, purtroppo, però, basta un vecchio rudere, bastano quattro pietre perché inizino i lavori.

Non sono contraria al progresso e alle comodità, perbacco anche a me piace abitare in una casa comoda, riscaldata, confortevole, però mi rattrista vedere la montagna devastata, gli alberi sradicati, i sentieri stravolti e il silenzio cancellato dai rumori del traffico.

viole tricolor

Prova generale.

Ieri prova generale a teatro, un teatro vero, con un palcoscenico vero, con un sipario vero, con l’impianto luci e l’impianto audio veri.

C’è sempre un po’ di tensione in questi casi, la prima è fra meno di due settimane e non c’è più il tempo materiale per prendere le misure del palcoscenico.

Mi spiego meglio: al giovedì pomeriggio gestisco, insieme ad una pazientissima ed organizzatissima collega, il laboratorio teatrale a classi aperte, questo significa che abbiamo un anno scolastico per mettere venti ragazzini (provenienti da tutte le classi della scuola) in condizione di recitare una pièce teatrale della durata di trenta quaranta minuti.

Il gruppo si forma in base all’adesione degli studenti che scelgono di fare attività teatrale per passione, per esclusione (non hanno trovato niente di meglio da fare), per amicizia (con qualche compagno che ha fatto la stessa scelta), così la mia collega ed io ci troviamo di fronte ogni anno un gruppo molto variegato, non necessariamente composto da personaggi con particolari talenti espressivi, ma questo è proprio il bello.

Ci dividiamo i compiti: io mi preoccupo soprattutto della regia e della recitazione e la mia collega guida i ragazzi nella stesura del canovaccio oltre a tenere d’occhio la sottoscritta che, almeno per quanto riguarda questa attività, è inaffidabile, infatti la mia creatività sfrenata e la sottile vena di follia che mi caratterizza mi spingono a modificare battute e gesti fino a cinque minuti prima di andare in scena.

Lo spettacolo, solitamente, prevede la rappresentazione di una storia inventata dai ragazzi, senza costumi e scene particolari, senza microfoni o altri sistemi di amplificazione della voce, senza un copione scritto, ma improvvisata su un canovaccio…insomma praticamente senza rete.

Per un anno intero si fanno esercizi di mimica e di dizione, si inventa la storia, si improvvisano le scene, si scelgono i ruoli: tutto nello scantinato della scuola, poi, verso la fine di aprile, si esce allo scoperto e si va a provare, per una sola volta, nel teatro che ospiterà lo spettacolo.

I ragazzi imparano a controllare l’emozione, a improvvisare soluzioni, a cavarsela nei momenti di difficoltà, a gestire il panico e tutto questo serve loro non solo ad ottenere una performance gratificante, ma anche ad autocontrollarsi in altre occasioni, magari più importanti (come ad esempio un esame).

Per questo motivo mi piace fare animazione teatrale, perchè so che è un buon modo per fornire ai ragazzi gli strumenti per cavarsela in un sacco di situazioni, fuori e dentro la scuola anche se le due ore passate nel famoso scantinato sono davvero faticosissime.

…e tra due settimane si va in scena…