Archivio mensile:Marzo 2007

Non è di me che hanno bisogno….

Non è di me che hanno bisogno quelli che hanno puntigliosamente digitato queste chiavi di ricerca, ma

di un tecnico esperto in elettrodomestici:

  • connessione di un motore da lavatrici (…ma connessione con che?)
  • lavatrice motorino guasto (non provarti a smontarlo!)
  • motori lavatrice (…ecco, hai provato e ora te ne serve uno nuovo)
  • stabilizzatore televisione (ne esistono ancora?)
  • può il calzino trovare la lavatrice? ( i miei calzini sicuramente no)

di un medico:

  • chi fa un’angiografia (un angiografo o un angiologo?)
  • mal di schiena notte (…gran brutta compagnia)
  • svenimanti museo egizio (…e sindrome di Stendhal)
  • che male può fare un cellulare (dipende da dove ti colpisce)
  • cos’è l’INR (sapessi…)
  • calorie bruciate nel camminare (pochissime)
  • come si opera la prostata ( tanto sei anestetizzato, mica lo devi fare tu)

di uno psicologo (o forse uno psichiatra)

  • dimenticare chi non ci ama più (…una bella sbronza?)
  • frasi sugli errori della vita (quali errori?)
  • una vita senza poesia ( è come una doccia senza l’acqua)
  • parliamo di donne quelle belle (giusto! quelle brutte che si arrangino)
  • perchè invidio sempre gli altri? (perchè no?)
  • zampino (quello della gatta?)
  • colpevole in passione (non mi sembra tanto grave, peggio la concussione)
  • mi innamorai della mia collega (…e allora?)
  • discorsi inutili (appunto)
  • quando non se ne può più (si smette)

Di un negozio ben fornito:

  • cerniere in metallo con ali (non sapevo neppure che esistessero)
  • appendini con i numeri per le discoteche (tutti belli ordinati)
  • dispaly banco frutta (tutti belli ordinati e in coda)

Un sentito ringraziamento a:

  • io sto con pina (grazie per il tifo)
  • pina unica (…ma non dovevi…)
  • pina guru (sono commossa)

In gita senza il cellulare.

E’ ormai una tradizione consolidata nella scuola dove insegno che, arrivati in terza media, i ragazzi partecipino ad un viaggio d’istruzione di diversi giorni: le mete più gettonate sono state in passato Parigi, la Provenza, Praga, Napoli, Salisburgo.

Quest’anno il viaggio, organizzato in accordo con l’amministrazione comunale, avrà come destinazione Roma, dove i ragazzi avranno l’opportunità di visitare il Senato e di assistere ad una seduta (speriamo non particolarmente burrascosa).

Fin qui tutto bene, anche se alcune famiglie hanno sollevato qualche obiezione sulla meta scelta: Roma, infatti, non era considerata una città appetibile e non perché i ragazzi l’avessero già visitata, ma perché non si trova all’estero e la gita oltre frontiera sembra più gita.

Ma la cosa che ha fatto discutere di più è stata la decisione dei consigli di classe di proibire, ben prima delle direttive ministeriali, l’uso del cellulare durante il viaggio.

In realtà, al di là degli ultimi avvenimenti incresciosi, balzati agli onori delle cronache, chi ha accompagnato i ragazzi in gita sa che i cellulari sono una vera iattura: durante il tragitto in pullman ( lungo o breve che sia) è tutto un rutilare di suonerie, tenute a volume altissimo, perchè i ragazzi si chiamano, si mandano sms, si spediscono foto e filmati nello spazio di pochi metri quadrati.

C’è qualcuno che gioca con il cellulare anche durante la visita delle città d’arte: penso spesso ad un allievo che, di cinque giorni a Parigi, ricorda praticamente solo il record conquistato in non so quale giochino.

Infine l cellulare diventa un simpatico strumento per organizzare fughe notturne, assembramenti sediziosi in una sola stanza, rendez-vous improbabili.

Per questi motivi, e anche per provare ad avviare un percorso di disintossicazione, quest’anno i ragazzi di terza che vorranno partecipare alla gita dovranno lasciare il cellulare a casa.

Impareranno così che si può comunicare con i genitori ansiosi di avere loro notizie anche da una cabina telefonica, che gli alberghi italiani di solito sono tutti forniti di telefono perfettamente funzionante, che per far fronte alle emergenze ci sono gli adulti che li accompagnano e che sono incaricati di aver cura di loro.

Mi sembra ancora un sogno…cinque giorni senza squilli inopportuni!

roma

Dietro ad una finestra.

Ho già raccontato che amo fotografare le finestre: ogni tanto mi rendo conto di essere un po’ buffa, ma se vedo una finestra particolare, con una forma curiosa, inserita in un muro antico, con un riflesso affascinante nel vetro, chiusa da vecchie persiane scrostate o impreziosita da una tenda che crea drappeggi armoniosi, punto la macchina fotografica e catturo l’immagine, qualche volta correndo il rischio che il proprietario della casa mi apostrofi in malo modo per chiedermi cosa cavolo sto facendo.

Giuro che non voglio curiosare, non mi interessa “sapere” cosa succede all’interno, mi piace immaginare, raccontarmi una storia, inventarmi gli abitanti e la loro esistenza partendo dal loro “biglietto da visita” verso il mondo.

Provo la stessa sensazione quando viaggio in treno (se non fila troppo veloce) mi piace guardare le case, immaginare infinite vite, fissare la storia in un attimo, in un’immagine, poi il treno fugge via e il racconto fantasioso si chiude, ma non ho bisogno di assicurarmi della veridicità delle mie invenzioni, non ho bisogno di conoscere la realtà, la conosco già perchè gioco a crearla.

Quante storie raccontano le finestre, quanti dolori, quante gioie, quanti momenti d’amore, quanti scatti d’ira, quanta noia, quanta ansia, quanta solitudine, quanta povertà e quanta opulenza o forse non raccontano nulla, semplicemente mi piace abbandonarmi alla mia fantasia.

Mi sembrano occhi spalancati, occhi socchiusi per difendersi dalla luce, occhi stupiti davanti ad uno spettacolo insolito, occhi chiusi nella quiete del sonno, occhi che guardano il mondo e rispecchiano un mondo interiore, come tanti specchi di anime che posso solo intuire.

La finestra diventa così uno specchio scuro dove si riflettono i miei pensieri più nascosti.

Finestra

Sciambola!

Sciambola, a Milano, significa divertimento, più o meno serale, più o meno sfrenato, che implica una non irrilevante ingestione di alcolici.

Sciambola è anche un locale, in Valsassina (esatto buona parte della mia vita ruota intorno a quella valle deliziosa), posizionato tra Cassina e Moggio, anzi più esattamente si tratta di un “wine bar” dove mi piace andare a rilassarmi e bere un caffè, alla mattina, o un bicchiere di Gewurztraminer, all’ora dell’aperitivo.

Sciambola

L’ambiente è “da montagna”: molto legno alle pareti, un salottino con un camino spesso acceso, lunghi tavoli con panche.

C’è sempre un po’ di musica, di solito musica giusta, il volume è basso, si lascia sentire, ma non ti impedisce di fare quattro chiacchiere.

Le luci sono calde e soffuse, ma sufficienti per permetterti di leggere un giornale, se ti gira di farlo.
I gestori sono simpatici, ti fanno festa quando arrivi e ti coccolano magari accompagnando il caffè con fettine di torta calda e il vino con invitanti stuzzichini.

Insomma è un locale dove vado proprio volentieri, magari dopo una camminata in montagna, tra la doccia e la cena, dove mi trovo a mio agio, dove posso scambiare quattro chiacchiere o starmene in un angolo a guardare fuori dalla finestra e a pensare indisturbata ai fatti miei.

Da ultimo (e non guasta) anche i prezzi sono…”amichevoli” .

aperitivo

Voglia di primavera.

Week end in montagna: anche qui è arrivata la primavera, i pendii sono punteggiati di alberi carichi di fiori bianchi, sui rami spuntano foglie di un verde tenero nuovo nuovo, il bosco è tutto un canto accompagnato dal frenetico battere di un picchio.

Anche i prati sono coperti di primule e crochi, c’è un’aria di risveglio e anch’io mi accorgo che cammino con più lena, come se anche i miei muscoli avessero voglia di svegliarsi dopo il letargo invernale.

Intanto che annaffio i miei fiori, estenuati da questa stagione siccitosa e innaturale, mi lascio coccolare dal sole, dalla brezza, dai cinguettii.

Avevo proprio bisogno di una giornata così, tranquilla, serena, non oziosa, perché l’ozio è un lusso che non posso permettermi, ma un po’ meno frenetica di quelle divise tra lavoro e casa, tra l’attenzione ai miei ragazzi e l’attenzione per la mia mamma, ormai quasi cieca e bisognosa di cure e di rassicurazioni.

Anche mia madre, sulla sua poltroncina di vimini, si lascia accarezzare dal sole e alza il viso a cercare un barlume di luce, cerca di intuire le sagome dei fiori e degli alberi: è in pace con se stessa e meno arrabbiata con la sua menomazione.

E anche questa è una piccola felicità

crochi

Intercettazioni.

Mi dà un po’ fastidio l’idea delle intercettazioni telefoniche, mi destabilizza pensare che, mentre sto parlando, con la mia migliore amica, dell’ultimo film, che potrei anche definire una bomba, qualcuno possa mettersi in allarme o possa appuntarsi i miei giudizi, non sempre pietosi, su qualche collega anche se, onestamente, non credo che qualcuno possa prendersi la briga di intercettare me, ma non si sa mai nella vita, potrei chiamare qualcuno che, a sua volta, sta sotto controllo e io di controllo (o per meglio dire autocontrollo) non ne ho per nulla.

Ogni tanto, mentre parlo al telefono, mi ritrovo a pensare a come le mie parole potrebbero essere interpretate da uno che non mi conosce e soprattutto non conosce il mio gergo, i miei modi di dire.

Faccio un esempio per chiarire il concetto.

Molti anni fa mio padre lavorava per un tizio, che a me sembrava un tantino losco, che, in famiglia, avevamo allegramente ribattezzato “la piovra”: quando il suddetto passava da casa nostra, solitamente davo un colpo di telefono a mio padre ed il tenore della conversazione era più o meno questo:

“Ciao papà, è stata qui la piovra”
“Bene, cosa voleva?”
“Aveva da proporti il solito lavoro sporco” (espressione che stava ad indicare qualche incombenza assolutamente lecita, ma noiosa come inventariare componenti elettroniche ).

Capite cosa intendo? Roba da commissione antimafia.

Ma c’è di peggio: lo zio di Verona, che aveva una grande fattoria, di tanto in tanto macellava un maiale ed aveva la simpatica abitudine di dare ai suoi animali (soprattutto ai maiali) il nome di qualche esponente politico del partito che gli piaceva di meno.

Per carità di patria ci inventeremo un nome di fantasia, per esempio Pincopallo, le telefonate suonavano pertanto così:

“Venite su domenica”
“Perchè?”
“Giovedi ammazzo Pincopallo, così poi facciamo festa tutti insieme!”
“Perchè vuoi eliminare proprio Pincopallo?”
“Sta diventando un po’ ingombrante”
“Pensi di usare la pistola?”
“No lo scanniamo”
“Mi raccomando fai sparire le tracce di sangue che i bambini sono impressionabili”

Ora mi chiedo dove sarebbero finiti mio padre e mio zio se le loro telefonate fossero state intercettate: roba da arresto.

Purtroppo anch’io ho ereditato il gusto delle ardite metafore, soprattutto quando parlo al telefono e mi “scaldo” per qualche avvenimento che mi fa indignare.

D’ora in poi devo stare più attenta e impormi un minimo di sana autocensura, non vorrei mai dovermi ritrovare a cercare di spiegare qualche espressione ambigua a chi pensa di aver già capito tutto.

Ogni tanto…

Ogni tanto mi accorgo che soffro un po’ della sindrome di Peter Pan, non riesco a crescere, non riesco ad osservare il mondo che mi circonda con lo sguardo disincantato di un adulto, mi lascio ancora stupire, mi lascio ancora imbrogliare, non riesco a fare della “dietrologia”, sono diretta e non capisco, o mi rifiuto di capire, i pensieri contorti.

Poi ci sto male, mi sento delusa quando scopro la mancanza di sincerità, quando mi rendo conto che non sempre chi mi circonda è onesto, che non sempre le azioni e le scelte sono guidati da nobili fini, ma, al contrario, hanno, come unico riferimento, il tornaconto personale.

Mi verrebbe da dire: svegliati bimba, sei grande!

Ma non mi piace un mondo di relazioni false, nel quale si deve stare sempre in guardia, il detto “homo homini lupus” non fa per me.

Mi piace guardarmi intorno e scoprire le piccole cose che mi procurano gioia, soprattutto in questa stagione, quando il sole illumina le splendide mattinate serene e, mentre vado a scuola, lo vedo occhieggiare tra i rami ancora spogli e riflettersi sulle prime gemme nuove nuove.

Mi piace sedermi su un molo e osservare l’acqua nel suo perenne movimento, e ascoltare il suo suono, sempre uguale e sempre diverso, quasi ipnotico.

Più che mai sento la necessità di sincerità e bellezza: immagini belle che mi riempiano gli occhi, parole sincere che mi scaldino il cuore.

E invece devo fare quotidianamente i conti con la realtà, con le scartoffie inutili, con i discorsi inutili, con le sigle incomprensibili (…questa mattina una collega mi ha apostrofato alle otto del mattino con un “Come ti regoli con il pecup delle uda?”).

Già come mi regolo?

Semplice non mi regolo, chiudo il cervello e scappo altrove, su quel famoso molo, ad ascoltare il canto delle onde e a tirare briciole ai gabbiani.

Chi vuole restare in mezzo a discorsi e discordie si accomodi per oggi mi chiamo fuori.

Azzurro

Formidabili quegli anni.

Qualche sera fa è andata in onda una trasmissione che rievocava il 1963, con immagini di repertorio interessantissime: la visita di Kennedy a Berlino ( con il famoso “ich bin ein berliner), la marcia a Washington per chiedere i diritti civili e Martin Luther King (“I have a dream”), il concerto di Joan Baez e la tournè italiana dei Beatles, i monaci buddisti che si davano fuoco a Saigon e il generale De Gaulle che incontra il tedesco Adenauer.

Nel 1963 avevo dieci anni e capivo poco di quegli avvenimenti, ma a tavola se ne parlava (allora la televisione non era un rumore di fondo continuo) e anch’io ascoltavo, chiedevo ai miei genitori di chiarirmi i concetti più difficili e loro, per fortuna, erano prodighi di spiegazioni.

Poi sono passati gli anni, ma mi rendo conto che le parole che avevo udito si erano come sedimentate nella mia coscienza, anche quello che non riuscivo a capire aveva contribuito a creare il mio modo di pensare e ora scopro che alcuni semi importanti sono stati gettati allora, se io oggi penso che tutti gli uomini hanno uguali diritti, che con la violenza non si ottiene nulla, che la pace è un bene assoluto, che non dobbiamo pensare solo a noi stessi, ma siamo, in qualche modo, responsabili anche degli altri forse lo devo proprio ai discorsi che i miei genitori avevano rielaborato per me, perché capissi idee ben più grandi della mia testolina.

Come ho già avuto modo di dire sono stata una bambina fortunata, non perché cresciuta nell’agiatezza, che di soldi a casa mia se ne sono visti sempre pochini, ma perché ho avuto, nei miei genitori, un punto di riferimento costante, la mia “seconda stella a destra…verso il mattino”.

Vorrei….

Oggi vorrei fare la valigia, quella che una volta stava sempre sotto il letto pronta per ogni evenienza, e partire: mi è venuta un irrefrenabile desiderio di essere altrove quando ho ritirato la posta (che ormai arriva sempre più raramente).

Tra le innumerevoli buste con fatture, estratti conto, bollette e altre amenità consimili è scivolata per terra una cartolina, spedita da una coppia di amici felicemente pensionati, con raffigurata una veduta di Parigi.

Mi è venuta immediatamente la tipica “frenesia dei piedi”, non riuscivo a stare seduta, ho cominciato a sfogliare le innumerevoli guide turistiche che affollano la libreria nell’ingresso: non mi serve un viaggio lungo, non mi servono atmosfere esotiche, mi basterebbe partire per qualche giorno, tornare per l’ennesima volta a Parigi (c’è sempre qualcosa da vedere), o fare un giro a Cracovia, giusto per vedere come sta la mia amica Hanna e andare con lei a mangiare all’Ariel, il ristorante tipico casher, proprio nel Kazimierz, il vecchio ghetto, o fare una scappata a Sorrento, dove ero stata così bene, o starmene qualche giorno in Umbria, così riposante e splendida, soprattutto in primavera.

Mi basterebbe passare tre o quattro giorni sulle Alpi svizzere oppure andare di nuovo a Camogli e percorrere il sentiero che porta a San Fruttuoso, per poi risalire di nuovo il promontorio e scendere a Portofino.

Sarà questa primavera anticipata, saranno le cartoline che scivolano a tradimento dalla posta, ma vorrei non essere obbligata ad andare a lavorare domattina e soprattutto…vorrei che Pasqua non fosse ancora così lontana.

Camogli

Elogio di Olga.

Chi legge il mio blog sa che, di tanto in tanto, mi diverto a raccontare, oltre ai miei ricordi d’infanzia, piccoli acquarelli del mondo contadino del passato.

Logicamente non si tratta di esperienze personali (sono antica, ma non così antica), ma di rielaborazioni di testimonianze raccolte fra gli anziani del mio paese e principalmente da Olga.

Vi chiederete: chi è Olga?

E’ presto detto: una signora (nel vero senso della parola) nata nel 1920 e, purtroppo, morta tre anni fa, dall’intelligenza pronta e dallo spirito caustico, che ha condiviso con me le perle della sua memoria inossidabile, della sua saggezza contadina del suo stile di vita sobrio ed essenziale, regalandomi momenti di commozione e divertimento e appagando instancabilmente la mia curiosità di conoscere il passato.

Era nata, vi dicevo, nel 1920, a tre anni aveva perso la madre ed era stata allevata con la sorella e due cugini, anche loro orfani, dalla nonna paterna, una donna semianalfabeta, ma dall’enorme saggezza, aveva perso anche il padre, un uomo celebre in paese per la dirittura morale e l’autorevolezza, all’età di dieci anni.

Aveva frequentato fino alla quarta elementare, che corrispondeva alla scuola dell’obbligo, poi la nonna le aveva fatto ripetere la quarta perché non restasse a casa inoperosa, ma aveva una vastissima cultura autodidatta, aveva letto Manzoni, Tolstoi, Dumas, Svevo e molti altri, sforzandosi di comprendere sempre meglio, ad ogni nuova rilettura, ciò che le era sfuggito nella precedente.

A tredici anni era entrata in fabbrica, nell’opificio dove si produceva la seta, e ben presto era diventata una attenta tessitrice.

Poteva essere considerata la memoria storica del paese perchè pochi particolari le sfuggivano, era in grado di elencare intere classi elementari, componenti delle corali e dei gruppi politici, avvenimenti remoti e ormai dimenticati.

Non si era mai sposata come diceva nel suo italiano forbito che alternava al dialetto “per tema d’imbattermi in un uomo ignorante” e così il suo enorme patrimonio di conoscenze e ricordi rischiava di perdersi per mancanza di eredi naturali.

Quando la conobbi decisi che nulla sarebbe andato smarrito, le facevo visita, soprattutto in primavera e in estate, nella sua casa di ringhiera addossata alla chiesa, ci accomodavamo in giardino, all’ombra della vite rampicante, accendevo il registratore e la lasciavo parlare a ruota libera, sicura che avrebbe estratto dalla sua memoria innumerevoli racconti affascinanti.

Per lei era una gioia avere qualcuno che la stesse ad ascoltare attentamente e non si stancava mai di ricordare.

Quando è mancata ho provato un grande rimpianto per non averle potuto dedicare più tempo, perché aveva ancora tante cose da insegnarmi e io avevo ancora tanta voglia di imparare.

vecchio paese