Archivi giornalieri: 11 Febbraio 2007

Scuola d’altri tempi.

Quando penso alla mia infanzia, un’infanzia felice di bambina coccolata da un intero mondo di adulti, mi stupisco sempre nel notare come differisca, in modo sostanziale, per lo meno in alcuni aspetti, dalla vita dei bambini di oggi.

Una delle esperienze che caratterizzano questa differenza è quella della scuola elementare.

A differenza dei bambini di oggi non avevo mai frequentato l’asilo (allora si chiamava così, poi si è trasformato in scuola materna ed ora in scuola dell’infanzia) un po’ perché la mia mamma, come molte allora, non lavorava fuori casa e poteva accudirmi, un po’ perché avevo già capito la forza della resistenza passiva, a colpi di scioperi della fame, quindi mi rifiutavo di mangiare e la mia mamma, preoccupata dell’esiguità del mio peso, preferiva tenermi d’occhio durante i pasti.

La mia scuola, un vecchio edificio in un quartiere storico di Milano, mi sembrava enorme: in realtà c’erano tre sezioni maschili e tre femminili per un totale di trenta classi.

Il primo giorno di scuola mi ritrovai in un androne buio, in mezzo a tante bambine come me e, quando la maestra mi chiamò, lasciai un po’ titubante la mano di mia madre, era evidente che non avrei potuto più praticare la resistenza passiva e mi rassegnai.

La classe era molto grande, con il soffitto altissimo e grandi finestre che, mi sembra di ricordare, avrebbero richiesto una bella ripulita.

La maestra era una signora dai capelli grigi, elegantissima nel suo grembiule verde sul quale sfoggiava un filo di perle, con la voce calma e ferma, ma dotata di un sorriso dolcissimo.

Anche noi indossavamo il grembiulino bianco con un enorme fiocco azzurro, che ci distingueva dalle bambine delle altre sezioni che avevano il fiocco di colore diverso.

Nella nostra classe c’erano tre file di banchi appaiati “i quartieri”, una lavagna girevole che strideva ad ogni movimento, la predella e la cattedra, messa lì, in alto, come un trono.

Sulla parete laterale c’era la fotografia, incorniciata e ornata di fiori secchi legati con un nastro tricolore, che raffigurava un soldato morto, credo durante la prima guerra mondiale, che chiamavamo confidenzialmente “il caduto” (da piccola innocente non capivo da dove e come fosse caduto, e soprattutto mi chiedevo perchè la mettessero giù così dura, in fondo anch’io cadevo spesso senza fare tante storie, ma intuivo che non fosse la stessa cosa).

Prima di iniziare le lezioni stavamo sull’attenti di fianco al nostro posto, recitavamo le preghiere ed ascoltavamo, in un silenzio compunto, l’altoparlante della classe che diffondeva l’Ave Maria di Gounod (o forse di Schubert).

Per i primi mesi si scriveva con la matita, pagine e pagine di aste, puntini e cerchietti, poi, quando la mano diventava sicura si veniva promossi all’uso della penna con il pennino e l’inchiostro.

Il rito di passaggio era complicato, bisognava imparare ad intingere il pennino nel calamaio, senza caricare troppo o troppo poco inchiostro bisognava imparare ad usare il nettapenne e la carta assorbente per non produrre strani ghirigori sul foglio.

La cosa veramente divertente consisteva nella scelta del pennino: ne esistevano di tante forme, alcuni erano da battaglia, altri più costosi e delicati, tutti avevano forme caratteristiche.

Il più simpatico rappresentava una mano chiusa con l’indice proteso, ma era piuttosto raro, difficile da usare e facile a spuntarsi.

Esauriti i preliminari cominciava la lezione, ma questa storia la racconterò un’altra volta…

milano scuola elementare 1963 64