Archivio mensile:Novembre 2006

Le dolenti note.

Ho visto di recente il Blog7 in Condottadove sono riportate le note disciplinari più creative (e più demenziali) collezionate dagli studenti italiani.

Ad una prima lettura superficiale devo dire che mi sono divertita non poco anche perché, essendo del mestiere, ho cercato di visualizzare le situazioni stigmatizzate dalle note e le ho trovate in molti casi esilaranti.

Mi sono chiesta a cosa corrisponda un “urlo forestale” (sic), e ho immaginato che in qualche modo abbia a che fare con una citazione dotta di Tarzan, il che ben si adatterebbe all’altra nota “…crede di essere una scimmia e saltella sul pavimento” (forse in questo caso lo studente intendeva citare Cita)-

Ma lasciamo perdere queste considerazioni, basta leggere il blog per rendersi conto che la fantasia dei ragazzi è superata soltanto da quella dei loro insegnanti.

Da molto tempo ritengo che la nota disciplinare sia nel migliore dei casi, inutile: se viene scritta sul diario la maggior parte dei genitori la legge distrattamente, o non la legge affatto, comunque, il più delle volte, l’insegnante si dimentica di controllare la firma, che spesso è falsificata e quindi…se la nota è scritta sul registro allora il preside dovrebbe “prendere provvedimenti” (non si sa bene quali), la morale della favola è che spesso gli allievi, lungi dall’essere preoccupati per il loro andamento scolastico, cominciano a gareggiare fra loro nel collezionare le più creative (la presenza in rete del blog mi sembra un preoccupante indizio di questo fenomeno).

E allora?

Come vincere il senso di frustrazione e impotenza che ci prende quando siamo alle prese con una classe difficile?

Visto che la strada della repressione non sembra portare in nessun luogo, è necessario ripensare al nostro lavoro di insegnanti e porsi davanti ai ragazzi non come chi vuole o deve inculcare loro delle nozioni, non importa come, ma pensare con loro e per loro delle nuove vie per arrivare allo scopo finale: quello di imparare e di crescere.

Ciascuno deve trovare il proprio modo, non ci sono ricette preconfezionate, ma posso affermare, dopo 30 anni di onorato servizio, che non esistono classi veramente indomabili, bisogna trovare la forza e il coraggio di mettersi in gioco ogni giorno, con umiltà ed onestà intellettuale.

Rumori di fondo.

Spesso non ci facciamo neanche più caso ma la nostra vita è accompagnata da un commento sonoro continuo (non propriamente musicale), che ci accompagna in ogni momento.

Mentre sto scrivendo, per esempio, dalla finestra arriva il consolante rumore di un martello pneumatico (non siamo soli nell’universo), il rombo di un aereo sopra le nuvole, la sirena di un’ambulanza che corre in autostrada; dall’altra stanza si insinua un commento sportivo, dai toni concitati, di una gara non meglio identificata; tutto intorno è un susseguirsi di motore dell’ascensore, cane del vicino del piano di sopra che zompa da un divano all’altro, figlia del vicino dell’appartamento di fianco che si esercita al piano, sedie e mobili trascinati, lucidatrici e aspirapolvere e via discorrendo.

In questo impasto di suoni, che ogni tanto mi piacerebbe misurare, così solo per curiosità e a fini puramente statistici, mi accingo a correggere, con la dovuta concentrazione, i temi dei miei ragazzi…questo forse può spiegare perché, ogni tanto, i miei giudizi sembrano esageratamente severi, forse non è solo colpa dei ragazzi (e di come scrivono) forse il problema sta un po’ anche nel mio cervello continuamente sollecitato da un flusso continuo di decibel sopra la soglia di tolleranza.

Poi ogni tanto me ne vado nella casetta tra i monti per il week end…ho la fortuna di possedere un appartamento con balcone sul bosco, stretto fra due altri appartamenti quasi mai abitati.

E’ lì che scopro che il silenzio è una musica.

Intendiamoci, anche in montagna non esiste il silenzio assoluto, ma se i suoni che sento sono il frusciare del vento fra le foglie, il canto notturno di un allocco, o lo scorrere incessante di un torrente nel fondo della vallata, allora è un altro paio di maniche.

Quando sono lassù, mentre mi chiedo incuriosita dove diavolo siano finiti tutti gli altri, mi rendo conto che dovremmo avere più cura, non solo della qualità della vita dell’aria o dell’acqua, ma anche della qualità dei suoni a cui siamo esposti, forse vivremmo meglio, sicuramente elimineremmo una causa non secondaria di stress.

A vita bassa.

La stampa di oggi riporta la notizia che il preside dello storico liceo Berchet, di Milano, ha adottato una iniziativa ironica e un po’ provocatoria per richiamare l’attenzione dei genitori e degli studenti sulla moda dei pantaloni a vita bassa.

Anche nelle scuole medie inferiori, un po’ periferiche come quella dove insegno, è largamente in uso fra i preadolescenti l’esposizione della biancheria intima.

Si sa l’adozione di un comportamento, più o meno trasgressivo, più o meno irritante per gli adulti, aiuta i più giovani a fare gruppo, a cercare un’identità e a riconoscersi.

La trasgressione non consiste tanto nel mostrare l’elastico e buona parte di slip e boxer (peraltro rigorosamente griffati o rigorosamente taroccati), ma nel provocare reazioni, che vanno dal semplice fastidio all’ira funesta tra gli insegnanti obbligati ad assistere allo spettacolo non richiesto.

Tanto vale allora gettare sulla questione il ridicolo che merita, un po’ come ha fatto il preside del liceo milanese, e creare momenti di discussione fra i ragazzi, per aiutarli a comprendere che non è in gamba chi segue pedissequamente una moda, ma chi sa essere originale, chi si inventa un modo di essere che si adatti al “suo” stile, chi è libero di scegliere se seguire o no una moda, se adottare o no un comportamento.

Se gli adulti che vivono a contatto con questi ragazzi riuscissero a trasmettere loro quanto sia importante essere, prima di tutto, sé stessi forse non avremmo bisogno di discutere tanto di progetti educativi e di strategie.

La vita quotidiana e la pubblicità

Torno a parlare di pubblicità perché trovo l’argomento abbastanza intrigante, ogni tanto, infatti, gli spot sono veramente azzeccati, tanto da essere più appassionanti dello spettacolo che interrompono.

In realtà qualche volta, anzi spesso, le storie sono decisamente avvincenti, ma non raggiungono lo scopo per cui sono stati create: mi capita talora di ricordare uno spot o un gingle, ma non il prodotto reclamizzato, addirittura neanche la categoria merceologica a cui appartiene, il che non mi sembra producente, almeno dal punto di vista dei committenti.

Inoltre ho notato che, soprattutto negli ultimi tempi, le storie si sono adeguate, come è logico, alla nuova situazione del tessuto sociale.

Non viene rappresentata quasi più la famiglia canonica degli anni sessanta\settanta (papà che torna dal lavoro, mamma garrula casalinga, due o tre figli di misura decrescente, tutti sorridenti intorno ad un tavolo, in estatica contemplazione di un pollo); oggi la famiglia della pubblicità è più simile all’attuale realtà: papà ritornati single, che fingono di non ricordare (o forse non ricordano veramente) il nome del pargolo; papà che condividono la pasta con il sugo reclamizzato con un bimbo completamente estraneo al quale, però, vogliono bene come se fossero il vero papà; padri single con figlio a rimorchio invitati a cena da madri single con analoga prole.

Se non ce ne fossimo accorti grazie all’esperienza personale basterebbe la pubblicità per farci capire che la società italiana è mutata.

Gli spot sottolineano anche il fenomeno dell’invecchiamento medio della popolazione (è evidente che la terza età sta diventando prepotentemente il nuovo target), perciò assistiamo ad una profusione di adesivi per dentiere, rimedi per l’incontinenza, creme antirughe, additivi alimentari che stanno ad indicarci che il marketing ha scoperto questo nuovo segmento di consumatori.

Sono invece sparite le figure come la mitica Kaori o la bimba, decisamente asiatica, che sbarcava tristissima da un aereo e veniva accolta dal calore di un abbraccio e di un piatto di spaghetti: forse che, anche nella pubblicità, l’oriente, così estremo e così vicino, ci fa paura?

Il misterioso, tragico caso del calzino spaiato.

Vi sembra un po’ esagerato il titolo di questo post?

Allora è evidente: non siete donne e/o non siete casalinghe e/o non siete single disordinati.

Una delle cose che più detesto è stirare (è ovvio per quanto riguarda il lavaggio ci pensa la lavatrice), ma forse è più detestabile riporre gli indumenti in bell’ordine nei cassetti e negli armadi, perché è in quel momento che si scopre che c’è qualche calzino che è rimasto inesorabilmente senza compagno.

Per quanto riguarda la mia biancheria, logicamente, il problema non si pone, visto e considerato che io uso quasi esclusivamente collant, ed è umanamente impossibile spaiarli, ma quando si tratta degli uomini di casa allora la situazione si complica.

I calzini si annidano negli angoli più remoti, sotto i letti preferibilmente mai in coppia, si incollano alla volta del cestello della lavatrice, si smarriscono nel tragitto fra il bagno e lo stenditoio oppure vagano raminghi nel limbo del “calzino solitario” dove vengono ritrovati solo quando è stato definitivamente eliminato il compagno.

Per risolvere la situazione e salvaguardare la mia integrità mentale, mi sono decisa all’acquisto di dozzine di calzini tutti uguali, stessa taglia, stesso colore, stesso tessuto, nella pia illusione di salvarne almeno un paio.

Effettivamente qualche volta succede di trovare una coppia ben assortita, in questi casi, però, uno dei due calzini ha un buco irreparabile, o il bordo slabbrato, o si è stinto per un lavaggio sbagliato.

In un angolo della lavanderia conservo un grande cesto (di quelli natalizi, in vimini, con un vezzoso fiocco) dove ripongo i calzini solitari che, come in un’agenzia matrimoniale poco efficiente, restano in fiduciosa attesa di un compagno per la vita (attesa che, temo, sarà delusa).

Lo sci, ovvero l’arte della felicità

L’altro ieri, mentre attraversavo la strada per andare a scuola, ho gettato uno sguardo alla mia sinistra, anche per non finire sotto una macchina, e ho scorto sulle montagne all’orizzonte la prima neve.

Di solito vedere le cime innevate mi mette di buon umore, significa che è tempo di tirar fuori sci e scarponi, controllare l’attrezzatura, assicurarsi di rientrare nella tuta e prepararsi a qualche giornata in assoluta libertà sulla neve,

Ho cominciato a sciare quando ero molto piccola, avevo degli sci di legno pesantissimi e di lunghezza mostruosa (allora per misurarsi gli sci si usava allungare il braccio sopra la testa e si otteneva così un paio di attrezzi più adatti al salto dal trampolino che alla discesa), con degli attacchi che definire “di sicurezza” era francamente ridicolo, indossavo scarponi di pelle altrettanto pesanti infine, ancorata al suolo da svariati chili di materiali, affrontavo delle salite terrificanti (sì avete capito bene, “salite”: mio padre era convinto della bontà di una educazione spartana quindi, prima di concedersi il sibaritico lusso di una discesa, bisognava salire, con gli sci ai piedi o sulla spalla, fino al punto di partenza).

Anche raggiungere i campi di sci era un’impresa: si partiva ad ore antelucane (nel vero senso della parola) a bordo di una volonterosa seicento, sul cui portapacchi erano legati gli sci, ci si inerpicava su per montagne scoscese, su strade fiancheggiate da precipizi e dopo una serie di curve e tornanti finalmente si giungeva a destinazione quando era quasi mezzogiorno.

Ogni tanto, per raggiungere una meta più lontana, come Cervinia o Madonna di Campiglio, ci aggregavamo ad uno sci club del nostro quartiere, viaggiavamo in pullman tra canti alpini e scambi di vettovaglie, ma la partenza, in questi casi, avveniva ad ore ancora più antelucane.

Logicamente sono un’autodidatta dello sci, cinquant’anni fa non era pensabile affidarsi ad un maestro, e così mi ritrovo con uno stile pazzesco, carico il peso dalla parte sbagliata, vado in rotazione, ne faccio di tutti i colori, ma scendo da qualsiasi pendio, curvo quando voglio e mi fermo quando serve e tanto mi basta, non devo mica vincere una medaglia olimpica.

Alla fine della giornata ora, come allora, mi libero degli scarponi (devo dire che questo è il momento più piacevole), mi infilo in un bar (se c’è il camino acceso è meglio) e mi concedo una cioccolata calda per recuperare le calorie perse.

E’ in queste rare occasioni che mi convinco che la felicità esiste.

Motori di ricerca

Utilizzare un motore di ricerca non è sempre facile, anche se è una delle prime nozioni che si insegnano nei corsi propedeutici alla navigazione in internet (ivi inclusi i corsi di aggiornamento per insegnanti).

Innanzitutto bisogna sapere cosa diavolo stiamo ricercando (…e questo può già essere un problema non indifferente)

Poi bisogna sforzarsi di condensare la nostra ricerca in una parola chiave o in una breve locuzione, digitare diligentemente il frutto delle nostre elucubrazioni nell’apposita casellina del motore di ricerca che più ci piace ed aspettare il miracolo: cioè che sullo schermo compaiano in bell’ordine i siti di cui abbiamo bisogno.

Qualche volta non tutto fila liscio e ci ritroviamo un elenco di pagine web che poco o nulla corrispondono a ciò che ci interessa, allora bisogna armarsi di santa pazienza ed ipotizzare nuove chiavi di ricerca, in modo da ottenere il risultato sperato.

Ok: il giochetto è tutto sommato semplice….

…ma per capire meglio il meccanismo ho dato un’occhiata, su Google Analytics, alle parole chiave immesse dai visitatori del mio blog ed ho scoperto, con non poco stupore, il seguente elenco:

  • sport per sedere basso e mollo
  • vita quotidiana in polonia
  • calorie bruciate nella camminata
  • nome emporio
  • scuse fantasiose
  • inventare scuse
  • code di vita quotidiana
  • viaggi istruzione compenso
  • kamasutra
  • danni allagamento pc
  • come si veste la pina
  • quadro cane sul punto di sprofondare
  • il capitan della compagnia
  • pina rumore
  • svenimenti al museo egizio
  • odio il telefono cellulare perche
  • il capitan della compagnia
    Mi sto ancora chiedendo perplessa se i miei visitatori hanno trovato ciò che cercavano…

Tempo di leggere

Un altro dei ricordi molto vivi dell’infanzia è legato ad una serie televisiva, “Ai Confini della realtà” che presentava situazioni abbastanza angosciose, a metà strada tra l’onirico e il paranoico.

Fra tutti i telefilm che ero riuscita a vedere, sfuggendo alla ferrea legge del “dopo carosello tutti a nanna”, ce n’era uno che mi aveva tormentato per anni (e che recentemente ho rivisto riproposto in una collana di D.V.D.) dal titolo: “Tempo di leggere”

La storia è semplice: c’è un ometto molto mite, molto miope e grande amante della lettura che lavora in una banca, angariato dal capoufficio e dalla moglie, non riesce a trovare il tempo per dare sfogo alla sua passione nè un’occasione per condividere con altri il piacere della lettura.

Durante una pausa pranzo, che il protagonista trascorre rinchiuso nel caveau, per leggere in santa pace, scoppia un ordigno atomico. Il nostro uomo esce allo scoperto e scopre la totale distruzione di ogni forma di vita, ma, dopo un comprensibile momento di smarrimento, si rende conto che ha finalmente tutto il tempo che vuole per immergersi nei libri.

Rintraccia la biblioteca nazionale, recupera migliaia di volumi, li suddivide per gli anni che immagina gli restino da vivere e si accinge finalmente a leggere…ma gli cadono gli occhiali e le lenti si spezzano.

Il telefilm si chiude sull’omino che vagola, praticamente cieco e solo, senza più alcuno scopo nella vita.

Si può immaginare quale impressione un simile spettacolo avesse prodotto in una bambina amante della lettura ( al punto di arrabbiarsi se a Natale riceveva banali giocattoli e non libri) e che, guarda caso, portava lenti spesse un dito.

Per un tempo abbastanza lungo ho avuto crisi di panico e incubi notturni (…e poi dicono che la televisione non fa male)

Il commissario Maigret e l’atmosfera di Parigi

Di recente sono stati messi in vendita i D.V.D. delle “Inchiestre del Commissario Maigret” la serie di sceneggiati televisivi (negli anni sessanta la “fiction” si chiamava così), prodotti dalla R.A.I. e messi in onda intorno al ’68.

Rivedere i filmati è stata una botta di nostalgia incredibile, innanzitutto per la bravura indiscussa degli attori fra i quali spiccava un gigantesco Gino Cervi (il Peppone dei film di Don Camillo).

Ricordo che allora, quando vidi gli sceneggiati per la prima volta, mi innamorai dei romanzi di Simenon, che cominciai a leggere avidamente, e di Parigi, o almeno dell’immagine di Parigi che ne traspariva.

Quando, circa dieci anni dopo, mi ritrovai sulle sponde della Senna o nei vicoli di Montmartre la mia colonna sonora era la tristissima canzone di Luigi Tenco (Un giorno dopo l’altro), sigla di una stagione.

Da Maigret ho imparato ad amare i bistrot, le piccole brasserie dove si può consumare un pasto veloce, il Pernod bevuto in piedi, appoggiata al bancone di un minuscolo Cafè.

Parigi ha, per me, l’atmosfera smorzata dei filmati in bianco e nero, la dolcezza delle albe brumose, con lo scivolare leggero delle chiatte sul fiume, il vociare dei piccoli mercati.

Certamente conosco ed ammiro anche la città monumentale, ma mi ritrovo a casa mia nei piccoli vicoli, mal illuminati dove si consuma la vita nella sua quotidianità

Transilvania, istruzioni per l’uso

Qualche anno fa ho fatto un viaggio in Romania, ospite di amici rumeni, quando il paese era appena uscito dall’era Ceausescu e stava attraversando una difficile fase di transizione.

Dopo un fortunoso viaggio in autobus fino a Budapest, venimmo letteralmente raccattati dai nostri amici, che ci portarono a Oradea, la città sul confine dell’Ungheria, da dove sarebbe iniziato il nostro itinerario attraverso la Transilvania e la Bucovina.

Va detto che i nostri ospiti, come la stragrande maggioranza dei rumeni fortunati, in quanto titolari di un mezzo di trasporto, erano proprietari di una Dacia, l’auto di regime, praticamente l’unico veicolo in circolazione in quelle lande.

La Dacia era un’auto fantastica, a metà tra un’utilitaria e una piccola berlina, abbastanza comoda e praticamente indistruttibile. Tutte le Dacia in circolazione erano simili, pochissime varianti di colore (tra il bianco e il beige), serrature universali (particolare di grande comodità, visto che la nostra amica lasciava spesso le chiavi nel cruscotto e se ne accorgeva dopo aver chiuso tutte le portiere con la sicura).

A bordo di questo fantastico mezzo ci mettemmo in viaggio attraverso la Transilvania (ebbene sì il paese di Dracula), ma ben presto dovemmo renderci conto che non era possibile mantenere una tabella di marcia decente, le strade, infatti, anche in prossimità delle città, erano popolate da una fauna lussureggiante: cicogne appostate sui pali della luce che ci osservavano perplesse e decidevano di decollare verso il nostro parabrezza, allegre famigliole di oche che attraversavano la strada con una lentezza esasperante, mucche che andavano e venivano dai pascoli in assoluta solitudine, bufali che leccavano con indifferenza la linea bianca al centro della carreggiata.

Quando invece dovevamo superare un veicolo spesso si trattava di un carretto stracarico di fieno e contadini e trainato da un cavallo riluttante e poco incline a farsi sorpassare.

Fu così che, dopo aver viaggiato per tutta la giornata ci ritrovammo a poche centinaia di chilometri dal punto di partenza, sotto un temporale monsonico e di pessimo umore.

Arrivati in prossimità di un valico sui Carpazi intravvedemmo una costruzione che ricordava un antico e lugubre maniero, dove troneggiava la scritta “Hotel Dracula”.

Vista la presenza nel gruppo di due ragazzini (uno rumeno e uno italiano) di età preadolescenziale fu praticamente impossibile allontanarci da lì.

E fu così che trascorremmo la notte in un castello, riadattato ad albergo, ma non troppo, con le stanze addobbate con lampade a forma di pipistrello e quadri inquietanti alle pareti, dopo aver mangiato delle polpette dalle quali fuoriusciva un’impressionante rivolo di salsa, accuditi dal personale che ricordava il cast della “Famiglia Addams”.

In realtà, tuttavia, l’albergo era comodissimo, il luogo incantevole e il panorama dei Carpazi bello da mozzare il fiato…ma questi particolari li notammo solo il giorno dopo, alla luce del sole.