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Il fascino di Vienna.

Non si può passeggiare per le strade di Vienna senza subirne il fascino: qui si respira l’atmosfera di una città un tempo signora di un Impero e oggi capitale di uno stato tutto sommato minuscolo, una città che mostra nei suoi palazzi signorili un’opulenza trascorsa, ma non dimenticata, una città che conserva con orgoglio chiese barocche, edifici Jugendstil e residenze moderniste costruite quando lungo le sue strade e nei suoi parchi si potevano incontrare Klimt, Freud, Schiele e Mahler.

Mi piace Vienna perché, nella sua impronta teresiana, mi ricorda un po’ la mia Milano, la città a cui contende l’invenzione della Wiener Schnitzel tanto simile alla mitica cotoletta alla milanese.

Ci vorrebbe più tempo per sedersi nei suoi eleganti caffè e lasciar passare le ore leggendo un giornale (rigorosamente ancorato ad un bastone) davanti ad una tazza fumante ed a una fetta di torta, catturati dalla bellezza delle porcellane e dallo scintillio dei cristalli.

Ci vorrebbe più tempo per lasciarsi trasportare dai valzer di Strauss, così gioiosi e malinconici al tempo stesso, che sono un po’ come questa città dove la gioia di vivere e la nostalgia del passato convivono.

Vienna è così: bellissima e vivace, ma anche silenziosa (basta infilarsi in un vicolo tra le chiese e i palazzi), scintillante di vetrine opulente e ingentilita dai colori pastello delle residenze signorili, è una città di contrasti dove si ha l’impressione che la vita possa scorrere tranquilla, dove la grandezza del passato si sposa felicemente con la contemporaneità.

Vienna (Austria)

Milano, 12 dicembre 1969.

Nel 1969 avevo sedici anni, frequantavo il liceo ed ero una ragazzina che da poco aveva lasciato i calzettoni chiusi nel primo cassetto.

Avevo fretta di crescere, come credo accadesse a tutti gli adolescenti, ma la mia vita era ancora legata quasi unicamente alla scuola, allo studio e alle scampagnate con la mia famiglia, non avevo una compagnia di amici e amiche con cui trascorrere il tempo libero.

Al sabato pomeriggio, quando staccavo un po’ dallo studio, ascoltavo “Bandiera Giaalla”, il programma di Arbore e Boncompagni “rigorosamente riservato ai giovanissimi” (come recitava lo slogan di apertura della trasmissione) che mi dava l’occasione di sentire canzoni inedite o uscite da poco sul mercato italiano e di restare aggiornata sulla musica.

Ero una ragazza tranquilla, moderatamente studiosa, afflitta da una insopportabile timidezza che cercavo di nascondere.

Sulla mia assoluta normalità si abbattè, quel pomeriggio, mentre mi trovavo con la mia famiglia nella cascina di alcuni amici di papà dalle parti di Inverigo, la notizia della bomba di Piazza Fontana che aveva devastato la Banca Nazionale dell’Agricoltura causando diciaassette morti e ottantotto feriti.

Ora, a distanza di tanro tempo, mi rendo conto che quella notizia aveva chiuso definitivamente un periodo della mia vita, che quel giorno avevo iniziato a diventare una persona adulta.

Milano Piazza Fontana

Neve per l’Immacolata.

Il giorno dell’Immacolata la Valsassina si è ammantata di una lieve coperta di neve fin dalle prime ore del mattino.

Appena alzata, ancora in pigiama e con una tazza di caffè fumante tra le mani, sono restata per qualche minuto immobile davanti alla finestra ad osservare i fiocchi di neve danzare nell’aria, incantata e stupita come quando ero bambina e le nevicate mi affascinavano anche se erano uno spettacolo più abituale e spesso anche la pianura spariva sotto una coltre soffice di neve.

Cavenago di Brianza

I profumi di dicembre.

Ci sono dei profumi che risvegliano nella mia mente un’ondata di ricordi, ricordi che mi riportano a momenti della mia infanzia legati al Natale e alle feste.

Spesso mi basta sbucciare un mandarino per rivedermi con la mia famiglia in una stanza calda illuminata dalle luci intermittenti dell’albero di Natale, la tavola ormai sparecchiata dopo il pranzo e le bucce profumate che finiscono nella stufa per avvolgerci con il loro aroma intenso, mentre dal panettone appena affettato mi giunge il profumo dei canditi e dell’uva passa.

La stessa sensazione affiora quando sento il profumo della cannella che mi ricorda i pomeriggi invernali trascorsi nella latteria affacciata sulla piazzetta del mio quartiere, la cannella spruzzata sulla panna montata che si mescolava al profumo di lavanda della mia nonna e mi regala un senso di calore affettuoso.

E poi c’è il profumo un po’ bruciato dello zucchero filato che assaporavo praticamente solo una volta all’anno quando, per sant’Ambrogio, andavamo alla “Fera di Oh Bej Oh Bej”, il mercatino intorno alla basilica milanese, dove acquistavamo le statuine per il presepe e i decori per l’albero.

I profumi sono potenti agganci della memoria e per questo motivo, soprattutto in questo periodo dell’anno, amo circondarmi di cose buone che mi permettono di ricordare, senza nostalgia, ma con gioia i momenti della mia infanzia che mi riempiono di serenità.

Moggio

In viaggio con L’Arlecchino

Il treno rapido ETR252, più conosciuto con il nome di “Arlecchino”, venne prodotto nel 1960 dalla Breda sul modello del più celebre “Settebello ETR 300” del quale imitava la foggia, la struttura e la livrea, ma aveva solo quattro carrozze invece di sette.

Fu inaugurato il 23 luglio 1960 per le Olimpiadi di Roma.

Ho viaggiato su questo elegantissimo treno nell’agosto del 1972 quando, avendo già prenotato il soggiorno in albergo a Roma e non trovando posto a bordo di treni più economici, decidemmo di regalarci un viaggio in prima classe, a bordo di un treno quasi leggendario, dotato di un salottino con poltrone girevoli e vetrata panoramica sui binari.

Ora, a più di mezzo secolo, la “Fondazione Ferrovie dello Stato”, grazie alla passione e alla competenza dei suoi aderenti, ha rimesso sui binari questo gioiello (l’unico sopravvissuto dei quattro treni originali) e ieri abbiamo avuto la fortuna di poter viaggiare a bordo dell’Arlecchino alla volta di Brescia.

Che dire?

Si è trattato di un’esperienza unica, un ritorno al passato ricco di emozioni.

Milano - Lambrate "l'Arlecchino"

Vedrò Abu Simbel.

.Nel 1960 il presidente egiziano Nasser diede inizio ai lavori per la costruzione della grande diga di Assuan il che prevedeva la formazione di un enorme bacino artificiale (che poi avrebbe preso il nome di lago Nasser) che avrebbe inevitabilmente sommerso molte opere costruite dagli antichi egizi fra le quali sicuramente le più significative erano i templi di Abu Simbel.

Allora la comunità internazionale si attivò, grazie all’ intervento dell’Unesco, per stendere un progetto e reperire i fondi necessari per salvare i templi.

Si decise di tagliare gli edifici in blocchi e spostarli in un luogo più arretrato e più elevato e così, tra il 1964 e il 1968, l’opera fu portata a termine grazie anche alla guida esperta dei cavatori di marmo italiani di Carrara, Mazzano e Chiampo.

Io allora ero poco più che una bambina, non sapevo neppure cosa fosse l’Unesco, ma avevo studiato a scuola l’antico Egitto e ne ero rimasta affascinata così come mi aveva affascinato quell’opera di alta ingegneria, che avevo visto attraverso dei tristissimi documentari televisivi rigorosamente in bianco e nero, ed era nato in me il desiderio di vederli dal vivo almeno una volta nella vita.

Tra poco meno di una settimana, se tutto andrà come deve, sarò proprio là, al cospetto dei templi di Ramses II e della regina Nefertari sicuramente emozionata, sicuramente affascinata, ma anche grata a coloro, che in un’epoca sicuramente meno tecnologica di oggi, hanno saputo e voluto salvare tanta bellezza.

Non vedo l’ora.

Museo Egizio - Il Cairo (Egitto)

Fare i conti con il passato.

Ieri, camminando per le vie di Moggio, il paese della Valsassina dove trascorro le mie vacanze ormai dal lontano 1960 (ma prima le trascorrevo un po’ più in basso, in un paese dal nome molto simile, sempre in Valsassina: Maggio) all’improvviso ho rivisto con gli occhi della memoria, il paese così come era tanti anni fa.

Non so dire se mi piacesse di più allora o se lo preferisco come è ora, forse mi piaceva essere una bambina, mi piaceva giocare con i miei coetanei sbucciandomi le ginocchia sui ciotoli di piazza Pradello, o tuffando le mani nell’acqua gelida del lavatoio, o correndo nell’Agro, il grande prato che oggi è tagliato da una strada e che ospita il centro sportivo.

Forse mi piaceva il fatto che allora Moggio fosse veramente “altrove” rispetto alla città che lasciavo a fine giugno per trascorrere tre mesi di vacanza (ma allora si chiamava “villeggiatura”) tra queste montagne che assicuravano avventure epiche.

Amo ancora questo paese anche se oggi è così diverso e amo ritrovare i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza che ancora sopravvivono, magari ristrutturati, ripuliti, mutati, in una “ricerca del tempo perduto” di sapore valsassinese.

Dopo sessantanni quassù non riesco ad immaginare un altro luogo dove trascorrere le vacanze, ricaricare le batterie e ritrovare me stessa.

Moggio