Archivi categoria: ecco perché mi lamento

Stress.

La giornata dell’uomo moderno, ma soprattutto della donna moderna, è ricca di continue fonti di stress che, alla fine della giornata, ci lasciano esauste e un po’ esaurite.

Chi deve ricoprire, nell’arco delle ventiquattr’ore,  svariate mansioni, oltre a quelle canoniche di moglie, madre e lavoratrice, che richiedono molteplici competenze e specializzazioni come (per esempio) taxista, cuoca, infermiera, badante, consulente economico, insegnante, elettricista, psicologa, esperto informatico e angelo del focolare rischia di ritrovarsi stremato e in preda ad una dilagante frustrazione.

Come se non bastasse ci sono mille piccole situazioni quotidiane che contribuiscono ad accentuare lo stress e che, almeno per quanto mi riguarda, sembrano irrimediabilmente senza speranza:

  1. Il bucato monocolore, nonostante l’acchiappacolore che, nei momenti topici, non acchiappa (da notare che i colori sono quasi sempre tinte pastello poco adeguate agli indumenti e alla biancheria dei maschi adulti di casa)
  2. L’acqua della pasta che non bolle mai, ma soprattutto quando ho fretta
  3. Il latte nel bricco che bolle proditoriamente, deborda e inonda il piano cottura a cui aderisce con una tenacia degna di miglior causa.
  4. I calzini spaiati (ne ho una collezione)
  5. Il sale della lavastoviglie che finisce sempre quando l’utile elettrodomestico è stracarico di piatti e pentole unte.
  6. Le batterie della fotocamera che si esauriscono al cospetto di un tramonto da urlo.
  7. La inspiegabile sparizione della ricetta di quella torta che mi veniva così bene e di cui non ricordo assolutamente gli ingredienti.
  8. Le ciabatte che si imboscano quando rientro a casa con un paio di scarpe scomode.
  9. Il cellulare introvabile mentre squilla (però quando smette lo trovo subito).
  10. Le chiavi di casa che tintinnano nella borsa, ma non si lasciano afferrare.

Lo so, si tratta di piccoli inconvenienti a cui potrei rimediare con un po’ di ordine e metodo, ma forse anche questo sarebbe fonte di ulteriore stress.

panni stesi

 

Con occhi nuovi.

Sono occhi nuovi quelli con cui ho imparato ad osservare il mondo: gli occhi di chi spinge ogni giorno una carrozzina per disabili e deve studiare percorsi sicuri per evitare marciapiedi sconnessi, tombini sporgenti, gradini traditori, troppo alti o troppo ravvicinati, buche e sampietrini mobili.

A mio marito e a me piace viaggiare, lo facciamo con passione, insieme, come succede ormai da quando eravamo poco più che ragazzi e ci piacerebbe farlo ancora, ma ogni spostamento anche piccolo richiede un lavoro di pianificazione che manco lo sbarco in Normandia.

Bisogna assicurarsi che i mezzi di trasporto siano idonei, che alberghi, ristoranti, musei e gallerie abbiano ascensori adeguati e nessun gradino da superare, che ci siano aree di parcheggio abbastanza larghe per affiancare la sedia a rotelle all’auto per permettere il passaggio dal sedile, che le stazioni della metropolitana abbiano i montascale funzionanti.

Spesso, prima di recarci in qualche luogo vicino a casa nostra, provo da sola il percorso per verificare che, all’ultimo momento, non ci troviamo di fronte a qualche barriera insuperabile oppure, quando mi ritrovo in qualche luogo con mio figlio mi trovo ad osservare “Ecco qui potremmo (o non potremmo) portarci papà”.

Ma gli imprevisti sono sempre in agguato: sono le auto parcheggiate sui marciapiedi o attraverso i varchi, sono i servizi per disabili inagibili, sono i montascale e gli ascensori guasti, sono le rampe troppo ripide.

E’ un mondo pieno di barriere che, come sempre succede, si vedono solo quando ci si trova nella necessità di affrontarle e bene ha fatto il regista Bertolucci che ha denunciato al sindaco Marino la non accessibilità della Capitale.

Coloro che, come mio marito, hanno le gambe che non funzionano più non possono rassegnarsi a non utilizzare neppure gli occhi, la mente e il cuore e a starsene rinchiusi in un piccolo spazio protetto.

E’ una questione di civiltà.

Brunate

Musica.

Comprendo che in estate il caldo e l’allungarsi delle giornate facciano venire voglia di stare fuori di casa un po’ di più, soprattutto alla sera.

Comprendo che il parco sotto casa mia sia un luogo ideale per trascorrere le serate al fresco e comprendo anche che si sia un po’ di animazione, un po’ di musica per allietare le persone che desiderano trascorrere qualche ora serena.

Comprendo anche che la musica sia ad alto volume, anche perché le finestre aperte sembrano amplificarla, e mi impedisca di leggere un libro o di vedermi un film, “pazienza” dico tra me e me, “anche ascoltare la musica può essere piacevole”.

Quello che non comprendo è perché i cantanti debbano essere così inesorabilmente stonati.

Cavenago

Ecco, appunto.

Ormai non riesco quasi più a sopportare le persone che, quando qualcosa non funziona come dovrebbe, si abbandonano ad estenuanti filippiche contro la corruzione dilagante e i più fantasiosi complotti (o gomblotti che dir si voglia).

Si badi bene, anch’io penso che, purtroppo troppo spesso, se qualcosa non va, ci siano delle precise responsabilità, ma non è sempre il caso di abbandonarsi ad esercizi di dietrologia a buon mercato.

Oggi, per esempio, ho notato una signora che, davanti alle porte automatiche dell’ospedale che restavano inesorabilmente serrate, ha cominciato a concionare contro gli sprechi di denaro pubblico e gli appalti poco limpidi che fanno sì, per esempio, che le porte di un ospedale nuovo di pacca non si aprano.

La signora si chiedeva a gran voce dove fossero finiti i soldi, chi se li fosse mangiati, come fossero stati scelti i fornitori mentre intorno una piccola folla consenziente si andava addensando tra commenti poco lusinghieri e gesti di sconforto.

Poi qualcuno le ha fatto sommessamente notare che si trattava di una porta dedicata all’uscita e, per questo motivo, dotata di un vistoso segnale di divieto d’accesso.

L’indomita signora, per nulla convinta, si è diretta con passo fiero verso la porta d’entrata sibilando tra i denti:

“Comunque quella porta non si è aperta!”

Ecco, appunto.

Milano

Settimana di carnevale.

Lo so che per il resto del mondo oggi è il “Mercoledì delle Ceneri” ed è iniziata la Quaresima, ma a Milano siamo nel pieno della settimana di Carnevale e quindi, visto che “semel in anno licet insanire“, si sa che dobbiamo aspettarci qualche scherzetto.

Oggi, visto che c’era lo sciopero del trasporto pubblico, ho deciso di anticipare un po’ il rientro a casa per evitare di incappare nella maledizione degli ultimi metrò, solitamente strapieni.

Scesa dal tram ho infilato l’entrata di “Lanza” per prendere il metrò della linea due (direzione Gessate – Cologno Nord).

Per chi non è aduso al trasporto pubblico milanese vorrei precisare che, sullo stesso binario, si alternano i treni diretti verso i due capolinea che viaggiano sullo stesso tratto fino alla fermata di Cascina Gobba dove imboccano ciascuno la propria direzione.

Nelle stazioni viene annunciato (sul tabellone luminoso e a voce, in italiano e in inglese) il treno in arrivo e la destinazione, quindi è abbastanza difficile sbagliare.

Ho atteso con pazienza che arrivasse un treno per Gessate, ho controllato che sulle fiancate e nella vettura ci fosse scritto proprio “Gessate”, mi sono seduta e ho cominciato a leggere anche se, ad ogni fermata, ho sentito annunciare in più lingue la destinazione (ovviamente Gessate).

Peccato che al bivio di Cascina Gobba il treno abbia imboccato il binario per Cologno, così, alla prima fermata, mi sono affrettata a scendere (e con me almeno una trentina di persone) e a raggiungere trafelata il binario opposto per tornare indietro.

Che cosa devo pensare di questo disguido?

Ovviamente: scherzo di Carnevale!

Milano e dintorni Metro

Gentile signora (bis)….

Lei che viaggia comodamente seduta in orario di punta sul metrò che riporta a casa i pendolari, con a fianco (a destra e a sinistra) i suoi due pargoli (di età variabile tra i sette e i dieci anni) di ritorno, a giudicare dai borsoni, da una palestra o da una piscina o, a scelta, da un campo di calcio, lei che, mentre le persone in piedi intorno  (sicuramente più anziane e più stanche dei suoi pargoli) la guardano con un misto di odio e di raccapriccio, non si sogna neppure lontanamente di invitare l’esausta prole ad alzarsi e a cedere il posto, anzi inganna il tempo ingozzandoli di merendine senza preoccuparsi che gli involucri finiscano sul pavimento o abbandonati sul sedile, lei, dicevo, non immagina neppure il coro di muti accidenti e rimproveri sibilati tra i denti che le aleggiano intorno.

Ma se non lo immagina neppure, che glielo dico a fare?

Milano metrò

Insulti.

Girando per la rete risulta evidente come l’insulto sia definitivamente diventato una forma di comunicazione tra persone: chi non la pensa come te (in ambito sportivo, economico, politico e via dicendo) viene apostrofato con termini offensivi e ardite metafore.

Di volta in volta si rischia di essere definiti imbecilli, caproni, melma fetida (e taccio di termini molto meno eleganti che mi rifiuto persino di ripetere) da persone che neppure ti conoscono, che non conoscono la tua storia, che, di solito, si limitano a generalizzare: il “nemico”, proprio perchè “nemico” può essere solo insultato.

Ho sempre pensato che il linguaggio violento, l’insulto triviale siano l’ultima spiaggia di chi non ha argomenti, di chi è incapace di dialogare di chi è tanto insicuro da aver paura del confronto civile.

Mi piacerebbe vivere in un mondo dove la gente ti giudica per quello che sei, per come ti comporti, dove si discute, magari animatamente, ma senza mai trascendere nell’offesa, dove si può anche sprecare del tempo ad ascoltare le ragioni dell’altro.

Utopia.

 

L’albero del maiale.

L’albero del maiale non è, come qualcuno potrebbe pensare, quello che produce frutti deteriori come il “porcellum”, oggi bocciato dalla consulta come incostituzionale.

L’albero del maiale è quello che nasce e si sviluppa dai misteriosissimi “semi” del maiale che vengono appositamente “lavorati” immagino allo scopo di farli germogliare.

Mai sentito parlare di “semi di maiale” ?

Io sì.

Oggi, ascoltando le notizie di alcuni telegiornali, a proposito del blocco del Brennero operato dagli agricoltori in difesa dei prodotti italiani, per diverse volte ho sentito, nell’elenco degli alimenti sotto accusa, citare  l’espressione “semi lavorati di maiale”, pronunciata proprio così, con una bella pausa (una cesura poetica?) tra “semi” e “lavorati”, come se si intendesse parlare di due parole distinti e non si alludesse, come è più probabile, a carni “semilavorate“.

Molte volte, ascoltando la lettura delle notizie, sussulto nel sentire espressioni spezzate da pause improbabili (come se chi legge il gobbo, nel momento di andare a capo, non si accorgesse che la frase non finisce lì) che rendono incomprensibile il senso della frase.

Evidentemente l’enjambement non è più oggetto di studio.

E così succede di immaginare fiori e alberi di maiale spuntare dai fantomatici semi.

Per fare un albero, si sa, ci vuole il seme……

Ma dove credeva di essere?

Dove credeva di essere il turista svedese che ha bloccato un treno a Calalzo di Cadore perchè gli era precluso l’accesso con la sedia a rotelle?

In Svezia?

Chi, come me, viaggia con una persona disabile (senza sedia a rotelle, ma con gravi difficoltà di deambulazione, che non sempre è un vantaggio) sa benissimo che in Italia è un’impresa improba.

Capita di imbattersi in stazioni della metropolitana non attrezzate con ascensori, treni con gradini altissimi, scale senza corrimano, scivoli impraticabili, ascensori guasti o chiusi e chi più ne ha più ne metta.

Capita di dover correre (si fa per dire) da un marciapiede all’altro, percorrendo scale e sottopassaggi perché il treno in arrivo viene deviato su un binario diverso da quello preannunciato.

Ogni volta che ci mettiamo in viaggio studio con attenzione orari e percorsi, scelgo stazioni che so essere più moderne (e attrezzate), ma non sempre è possibile e non sempre tutto fila liscio.

Capisco che abbattere le barriere architettoniche può essere difficile e costoso, ma penso che anche i disabili abbiano il diritto ad una mobilità decente, senza dover sempre ricorrere all’automobile.

E’ una questione di civiltà.

Varenna

 

Manipoli e coorti.

La riforma del”esercito romano attuata da Gaio Mario, oltre a introdurre un nuovo sistema di reclutamento, sostituì i manipoli (che erano stati usati nelle guerre Sannitiche) con le coorti  (utilizzate per la prima volta da Scipione l’Africano) più compatte e adatte alle battaglie campali.

Qualcuno si chiederà perché mai mi sia impegolata in questa (noiosa?) disquisizione sulle formazioni militari dell’antica Roma, in realtà il motivo è semplice: sono stufa di sentir cantare “stringiamoci a corte” quando qualcuno intona l’inno nazionale (quello che tutti noi che ci diciamo italiani dovremmo conoscere).

Mi chiedo di che “corte” si tratti, forse di quella in trepida attesa del royal baby? Forse di quella dei Savoia? E poi perché mai dovremmo stringerci a corte?

Il testo scritto da Goffredo Mameli recita “stringiamci a coorte” che farà un po’ vintage, ma almeno ha un senso.

Piantiamola di storpiare il “Canto degli Italiani