Archivio mensile:Marzo 2018

Il pezzo di carta.

Quando ero una ragazzina così veniva definita la laurea o il diploma a casa mia, con una espressione un po’ ironica che, tutto sommato, sta a significare che se è importante conseguire un titolo di studio, a quel “pezzo di carta” deve necessariamente corrispondere una conoscenza solida, conseguita grazie alla serietà del lavoro.

Oggi mi sembra che le cose stiano in modo un po’ diverso e forse ha ragione il prof. Burioni, nel suo filmato a quattro mani con Cattelan, quando afferma con provocatorio sarcasmo che  è “inutile faticare sui libri, per la laurea bastano 20 like su Fb”.

E l’impressione è un po’ quella: sui social è sempre più normale trovare persone che pontificano di medicina, di giurisprudenza, di economia, di tutto lo scibile umano senza alcuna conoscenza approfondita degli argomenti, senza alcun fondamento scientifico, metodologico o epistemologico.

E il paradosso sta proprio nel fatto che più le affermazioni sono senza fondamento, più ottengono risonanza fino a diventare “vere” come verità di fede.

Pochi argomenti sfuggono a questo stile di diffusione della conoscenza, a questo “bricolage” della cultura: per esempio nessuno confuta il teorema di Pitagora, o la formula per calcolare il volume della sfera, o una buona traduzione di un testo omerico, ma forse questi temi non sono messi in discussione solo perché, in realtà, non interessano a nessuno.

Milano - Centro

Vorrei partire.

Esco per andare a scuola, piove e a fatica mi destreggio tra la borsa e l’ombrello, il cielo oggi è grigio e mi intristisce un po’ e mi fa nascere dentro un gran bisogno di partire, magari per un luogo dove il sole non sia solo un pio desiderio e non si tratta solo di sfuggire a questo clima inclemente, si tratta piuttosto di una voglia di qualcosa di nuovo, di diverso che mi liberi dalla strada sempre uguale che percorro ogni giorno.

Per fortuna c’è il mio lavoro, ci sono le ore in classe che non sono mai routine, ci sono le sfide quotidiane, le scoperte e, in fondo, è quasi come intraprendere ogni giorno un nuovo viaggio.

Ma poi faccio ritorno a casa e allora comincio a sognare di luoghi che non conosco, di viaggi avventurosi, di cibi, di colori, di atmosfere, di storie.

Per ora, tuttavia, devo restare qui, tra queste mura, tra queste strade, almeno per un po’ di tempo.

L’unico viaggio che c’è nel mio immediato futuro è il fatidico “viaggio d’istruzione” delle classi terze che quest’anno ci porterà nelle Marche, tra ermi colli e biblioteche e sudate carte.

In fondo non è il giro del mondo, ma non mi lamento e poi, come si suol dire, non è importante la meta, ma il viaggio.

In volo verso Baku

Alohomora.

“Alohomora” è uno degli incantesimi più semplici, Hermione ha imparato la formula da autodidatta quando, in attesa di iniziare il corso alla “Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts”, si dilettava a sfogliare i libri di testo e, in particolare, il “Manuale degli incantesimi – Volume I”.

L’incantesimo in questione permette di aprire una porta chiusa, anche in assenza della chiave corrispondente, cosa che si rivela molto utile quando si tratta di accedere a qualche luogo vietato agli studenti.

Tra tutti gli incantesimi insegnati a Hogwarts “Alohomora” mi sembra utilissimo, soprattutto quando ho fretta e devo rientrare a casa, e la mia borsa, che ha la capienza di un “bagaglio in stiva” si rifiuta di restituirmi le chiavi.

Resto lì, con l’aria non particolarmente furba, mentre la mano vaga a tentoni tra telefonino, penne, portafogli, monete sparse, verifiche da correggere, borsetta dei medicinali, occhiali da vista, occhiali da sole, fazzoletti di carta, fazzoletti di stoffa e mille altre inutili cianfrusaglie.

Come mi piacerebbe riuscire a concentrarmi e ad aprire la porta con la forza del pensiero.

Milano portale

Perché amo l’arcobaleno.

E’ quasi una magia che attira il mio sguardo e mi stupisce ancora come quando, da bambina, sognavo di raggiungere la pentola d’oro nascosta laggiù, all’orizzonte, dove la linea multicolore sembra nascere dal suolo.

Amo l’arcobaleno perché spesso appare quando sta ancora piovendo e si staglia contro il cielo cupo di nuvole minacciose, ma all’orizzonte spunta il sole, presagio e speranza di un tempo migliore.

L’arcobaleno non appare dopo la tempesta, ma annuncia la fine della tempesta, non è un premio per aver sopportato la sofferenza, ma è la promessa che il dolore avrà fine e tutto ci sembrerà più bello e colorato.

Mi piace l’arcobaleno perché è ancora un’attesa, ma è già un’attesa gioiosa.

Arcobaleno

Mille lire.

Per dei ragazzi cresciuti nell’era dell’euro non è facile capire come fosse il mondo delle lire, mi chiedono di “tradurre” e quando spiego loro che mille lire corrispondono a cinquanta centesimi mi guardano divertiti.

Non possono comprendere, i giovani virgulti che oggi non si chinerebbero a raccogliere una monetina da cinque centesimi, che per noi, generazioni della lira, una moneta da cento lire rappresentava un piccolo colpo di fortuna.

E come spiegare loro che, in un tempo ormai remoto, le monete erano sparite, quasi inghiottite nel nulla, ed erano state sostituite dai mini assegni che intasavano le nostre tasche come cartacce inutili?

Con mille lire, poco prima che l’euro sostituisse il tanto rimpianto vecchio conio, si comprava il giornale, si beveva un caffè e si poteva acquistare poco d’altro.

Vimercate - il Must - Mille lire

Nati per leggere.

Passare qualche ora a leggere per e con dei bambini piccolissimi è una vera gioia, perché poche cose sono gratificanti come gli occhioni spalancati, i sorrisi gratuiti, le piccole mani che si allungano per afferrare le pagine, o le figure, o le tue stesse mani.

E’ bello scoprire (o riscoprire) che i piccoli hanno bisogno di storie, hanno bisogno che qualcuno le racconti loro, che sfogli con loro le pagine di un libro condividendo il divertimento un po’ ingenuo di scoprire le immagini multicolori che narrano di lupi imbranati, di balene irreali, di tartarughe sagge, di bambini pieni di fantasia.

Sedersi a terra con loro, sorridere con loro, stupirsi con loro non ha prezzo.

Milano - Tempo di Libri

Passeggiando nel parco.

Durante il breve viaggio a Londra, sul finire della scorsa estate, abbiamo dedicato le prime ore di domenica mattina ad attraversare Hyde Park, la grande macchia di verde nel cuore della città caotica e cosmopolita.

Siamo entrati dal cancello a fianco del grande Memoriale del Principe Alberto, brillante e lucido sotto i raggi del sole, dopo una notte di pioggerella insistente, e abbiamo passeggiato per i vialetti, ben tenuti e ordinati, incrociando londinesi impegnati in un salutare jogging, signore intente ad osservare i loro cani, ubbidienti e ben addestrati, correre liberi sul tappeto verde tra gli scoiattoli, distinti signori intenti a leggere il quotidiano su una panchina.

Hyde Park è ordinato e selvaggio al tempo stesso, nei giardini di Kensington, accanto alla statua di Peter Pan, non è raro scorgere pappagalli variopinti posati oziosamente sui rami, mentre tutto intorno è un continuo frusciare di foglie e  frullare di ali e crepitare di rami spezzati.

La passeggiata attraverso Hyde Park, mentre la grande città si risveglia, è uno dei ricordi più piacevoli di Londra.

Londra - Hyde Park

Londra - Hyde Park

Londra - Hyde Park

Le buone cose di pessimo gusto.

Come nel salotto dell’amica di nonna Speranza, descritto da Gozzano, un tempo le case di molti erano ingombre di soprammobili, posati su vezzosi centrini (per non graffiare il piano lucidissimo del buffet), che ai nostri occhi di contemporanei appaiono un po’ tristi e goffi e ingombranti.

Chi appartiene alla mia generazione non può non ricordare i cavallini di vetro di Murano o le bamboline in costume regionale o i carrettini siciliani che sembravano creati solo per attirare polvere, muti testimoni di epici viaggi, che facevano bella mostra di sé nei salotti “buoni” destinati a restare vuoti e silenziosi e tirati a lucido nell’attesa dell’arrivo di qualche ospite di riguardo.

Mi vergogno un po’a dirlo, ma a me è restata la passione per il souvenir di pessimo gusto tanto è vero che, quando sono in viaggio, non mi do pace finché non acquisto una di quelle palle di vetro che, una volta capovolte, lasciano cadere una fitta nevicata su monumenti ed edifici celebri.

Ho capito di aver toccato il fondo quando ho riportato a casa da Marrakech una palla di vetro con la neve che si posava leggera sulle palme di un’oasi e sui dromedari.

Le mie palle di neve, con la loro ingenuità disarmante, stanno tutte lì a prendere polvere su una mensola nel salotto della casa in montagna e quando le guardo provo un po’ di vergogna e tanta tenerezza.

Roma

Mi avevano regalato il meccano.

Solo dopo molto tempo ho compreso quanto fossero “avanti” i miei genitori che, oltre alle bambole vezzose che hanno invaso la mia infanzia, mi avevano regalato il “Meccano” e il “Piccolo chimico”.

Ricordo che ho passato ore a costruire improbabili strutture metalliche, applicandomi con zelante impegno a stringere viti e bulloni, così come ho trascorso molto tempo a tentare di far esplodere la casa mischiando le varie sostanze (con l’aiuto di un complesso manuale di istruzioni).

Forse i miei genitori avevano pensato che fosse giusto offrirmi diverse possibilità e che nessun gioco dovesse essere escluso a priori perché ero una bambina.

Avevo un’indole curiosa e mi annoiavo in fretta a cucinare “per finta” e a imbandire merende eleganti per le mie bambole, preferivo di gran lunga leggere un libro o sedermi di fianco a mio padre e osservarlo mentre riparava qualche apparecchio elettrico difettoso, facendo infinite domande sui fili di diversi colori, sui collegamenti, sugli interruttori.

E mio padre rispondeva sempre, con la sua infinita pazienza, probabilmente intuendo che non ci fosse nulla che la sua bimba non potesse e dovesse conoscere.

Solo più tardi ho imparato, sedendo vicino alla nonna o ad una vicina di casa paziente, a ricamare, a lavorare a maglia e all’uncinetto, ad attaccare un bottone (per gli orli mi sto ancora attrezzando) e ho persino trovato gusto nell’applicarmi a delle attività più tipicamente “femminili”.

insalatiera

Le donne.

La mia bisnonna si chiamava Saffo (si sa che dalle parti di Parma c’era una discreta creatività in fatto di nomi, d’altra parte mia madre, sua nipote, si chiama Cabiria) e mi adorava visto che per i primi sei anni sono stata la sua unica pronipote (e comunque l’unica femmina tra i suoi pronipoti).

Quando ero piccola passava il suo tempo a leggermi i fumetti inventando suoni assurdi sulle onomatopee, poi quando sono cresciuta e ho imparato a leggere andavo a casa sua al sabato pomeriggio, dopo aver attraversato la città in tram, ed ero io a leggerle il giornale dal momento che la vista la stava abbandonando.

Allora mi sembrava vecchissima e bellissima, forte e serena, sempre pronta a sorridere, sempre pronta a comprendere, provata da tanti dolori, la morte del marito e poi quella del figlio amatissimo, ma mai rassegnata.

Mia madre, ora che ha la sua età di allora, le assomiglia molto, nel fisico e nello spirito e quando sto con lei ritrovo la stessa forza serena che mi stupiva allora come ora.

E quando mi dicono che assomiglio a mia madre sorrido perchè so (o mi illudo di sapere) che la forza di quelle due donne così speciali in qualche modo mi è stata tramandata.

Domani è la festa della donna ed è una gioia passarla con mia madre e, magari ricordare insieme la mia amatissima bisnonna.

Cavenago di Brianza