Un pezzo di cielo.

Quando ero a bambina abitavo a Milano in una casa di quattro piani ai margini dell’Isola, il quartiere dove era nato mio padre e dove viveva ancora mia nonna, dove c’era la mia scuola e l’oratorio che frequentavo (… e prima di me mio padre e i miei zii), dove c’era la latteria con la panna montata spruzzata di cannella e la cartoleria dove acquistavo i quaderni e i pennini prima che suonasse la campanella.

La casa in cui vivevo era un edificio ottocentesco, con appartamenti di grandi proporzioni e soffitti altissimi (… o almeno a me sembrava così), noi abitavamo al terzo piano e non c’era l’ascensore, ma ampie scale con la ringhiera in ferro battuto e il corrimano in legno lucidissimo.

Passavo molto del mio tempo in casa a leggere o giocare perché non c’erano parchi o giardinetti vicini e nel piccolo cortile, chiuso tra quattro muri, era proibito giocare (allora non si badava molto ai “diritti” dei bambini).

Ogni tanto mi capitava di alzare lo sguardo e ricordo che osservavo quel piccolo pezzo di cielo per capire come sarebbe stato il tempo e vedevo il sole al tramonto riflettersi nei vetri della casa di fronte e le nubi correre portate dal vento e il buio della sera colorarsi delle luci della città.

Quel piccolo pezzo di cielo era un limite e un’opportunità: c’era poco da vedere, ma moltissimo da immaginare, c’era un mondo là fuori che potevo colorare con la mia fantasia.

cielo

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