Questione di privacy.

Seduta in una sala d’aspetto cerco di leggere, ma sono distratta dalle telefonate a voce altissima dei vicini e dalle chiacchiere un po’ “da bar” di un gruppetto di persone impegnate in una discussione sullo stile “andava meglio quando andava peggio”.

Alzo gli occhi dalla mia lettura che diventa sempre più faticosa e mi lascio cullare dalle parole che sento senza veramente ascoltare.

Poi mi colpisce il tono stentoreo di un signore “ben informato” che racconta di un imminente “chip  sottopelle” che verrà istallato (nel braccio, nel collo o nell’orecchio come i cani?) per decisione  di un non ben precisato governo (a poco più di un mese dalle elezioni è bello scoprire che qualcuno sa già come sarà il futuro governo).

Si alza un coro di vibrate proteste contro questa evidente violazione della libertà personale e della privacy, ma vi viene da pensare che le manifestazioni di sdegno sarebbero più credibili se tutti quanti non stringessero tra le mani uno smartphone che permette una precisa geolocalizzazione (che noi stessi, un po’ inconsapevolmente, abbiamo autorizzato).

E pensare che io, nella mia ingenuità, mi stupisco ancora quando il mio “telefono” mi chiede se il caffè che sto bevendo è di buona qualità o mi suggerisce in quali ristoranti entrare (sulla base dei miei gusti e delle mie abitudini).

Ho l’impressione che un chip sarebbe meno invasivo.

Marocco - In volo verso casa

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