Archivio mensile:Luglio 2016

Ci vorrebbe un po’ di tempo.

Ci vorrebbe un po’ di tempo per attraversarla tutta questa nostra Italia e soffermarsi a visitate tutti quei piccoli borghi che sono un po’ esclusi dai circuiti del turismo di massa, che magari vediamo di sfuggita percorrendo a grande velocità l’autostrada che ci porta in vacanza, arroccati su un colle, con le case in pietra tutte uguali o coloratissime, o bianche con i tetti spioventi e i balconi accesi  dai colori dei fiori.

Ma quando riusciamo a trovarlo quel tempo e riusciamo a muoverci a passo lento, senza l’assillo di andare da qualche parte allora ci può capitare di scoprire gioielli preziosi, paesini tranquilli dalle architetture semplici, luoghi dove la vita sembra quieta e le pietre dei selciati hanno visto passare la storia senza lasciarsi scalfire.

Mi è capitato, vagando per le Langhe, o nell’entroterra ligure, o nelle vallate alpine di incrociare luoghi così e mi sono resa conto di quanto perdiamo muovendoci in fretta, con gli occhi sempre fissi sull’orologio.

Priero

Ogni caso.

Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
E’accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’animo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?

Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore

Wislawa Szymborska (1923 – 2012)

Liguria 2005

… E poi non rimase nessuno.

Di solito non assegno molti compiti per le vacanze (in fondo le vacanze sono vacanze), generalmente mi limito ad assegnare un po’ di ripassi assortiti, un testo (da inviare per posta elettronica) e qualche romanzo da leggere (un paio di libri in tre mesi mi sembra il minimo sindacale) .

Tra i romanzi proposti c’è il mitico “Dieci piccoli indiani…” di Agatha Christie che, anche se forse non è quello meglio riuscito, sicuramente è il più intrigante.

Gli ingredienti ci sono tutti: i personaggi fortemente caratterizzati (tutti sospettabili, tutti più o meno “antipatici”, tutti colpevoli di delitti più o meno gravi), l’isola deserta (che è un po’ come una “stanza chiusa” dilatata), le morti che si susseguono in una sequenza infernale, la storia che si dipana con ritmo incalzante, la conclusione inaspettata (niente spoiler per favore!).

E’ un romanzo che amo molto e che spero convinca i ragazzi che leggere può essere un’esperienza persino emozionante.

Liguria 2005

 

Con gli occhi bassi.

Mi sono accorta, sedendo al ristorante, su un mezzo pubblico, su una panchina del parco, ma anche camminando per strada, che è sempre più difficile incrociare gli sguardi delle persone che ci circondano e non perchè le persone siano diventate improvvisamente timide o abbiano qualche colpevole segreto da nascondere, ma più semplicemente perchè gli occhi di molti sono ormai ineluttabilmente incollati agli schermi degli smartphone.

Spesso mi capita di osservare gruppetti di ragazzi, seduti in cerchio intorno ad un tavolino, impegnati a leggere e rispondere ai messaggini, con le dita che corrono frenetiche sugli schermi, senza mai alzare la testa, senza mai alzare lo sguardo, compresi e prigionieri di una nuova solitudine.

Sono ragazzi connessi col mondo, ma paradossalmente soli anche quando stanno in gruppo.

Non alzano lo sguardo e non si accorgono del mondo che li circonda (come il ragazzino impegnato in un videogame nella piazza più bella di Praga, al cospetto dell’orologio astronomico che probabilmente ha visto solo su internet).

Non alzano lo sguardo e non si accorgono degli infiniti occhi che potrebbero incrociare, delle infinite espressioni di felicità, di dolore, di gioia, di amore che non conosceranno mai (a meno che qualcuno non condivida un selfie).

Mi sbaglierò, ma ho l’impressione che si stiano perdendo qualcosa.

Praga

 

Io non ho paura.

La lunga scia di sangue che ha attraversato Parigi,  Bruxelles, Orlando, Dacca,  Nizza e Wurzburg oggi ha toccato Monaco e poco importa che non sia ancora chiara la matrice dell’attentato, poco importa se chi uccide sia un lupo solitario o faccia parte di un gruppo organizzato, se abbia pianificato ogni minimo particolare o sia semplicemente uscito di casa con la voglia di colpire.

Quello che importa è che tutti noi ci siamo accorti di una nuova precarietà, di una nuova insicurezza ed è naturale avere paura, tutti noi ci siamo resi conto di vivere in un clima di violenza che ha connotati barbarici ed è naturale esserne spaventati.

Ma tutto ciò non deve e non può mutare la nostra vita, tutto ciò non deve e non può impedirci di uscire di casa e viaggiare e incontrare gente e conoscere e amare e, magari, anche cercare di essere felici.

Se ciò non fosse avremmo già perso, se ciò non fosse non saremmo più vivi, ma solo sopravvissuti.

 

Anche loro sono miei colleghi.

La scure della repressione dopo il fallito colpo di stato si è abbattuta anche sulla scuola e molti insegnanti sono stati arrestati o sospesi dal lavoro.

Molti di loro probabilmente sono semplicemente persone libere che lo studio ha reso avvezze a leggere la realtà con spirito critico, senza piegare la schiena, senza adeguarsi al pensiero unico.

A loro dedico le parole di Gaetano Salvemini che, dall’esilio, dopo l’arresto e  il carcere, inviò al rettore una lettera di dimissioni di altissimo profilo:

“Signor Rettore la dittatura fascista ha soppresso, oramai, completamente, nel nostro paese, quelle condizioni di libertà, mancando le quali l’insegnamento universitario della Storia – quale io la intendo – perde ogni dignità, perché deve cessare di essere strumento di libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante, oppure a mere esercitazioni erudite, estranee alla coscienza morale del maestro e degli alunni.
Sono costretto perciò a dividermi dai miei giovani e dai miei colleghi, con dolore profondo, ma con la coscienza sicura di compiere un dovere di lealtà verso di essi, prima che di coerenza e di rispetto verso me stesso. Ritornerò a servire il mio paese nella scuola quando avremo riacquistato un governo civile”.

Il velo.

La scorsa estate, a Istanbul, ho indossato spesso il velo quando dovevo visitare una moschea e stavo attenta ad indossare abiti non troppo corti o scollati (come del resto mi comporterei entrando in una chiesa cattolica), poi toglievo le scarpe ed entravo nello spazio sacro dove l’abbigliamento è un segno di rispetto nei confronti di Dio (e delle persone che in Dio credono).

Fuori, per la strada, il velo spariva nella borsa (a meno che non decidessi di ripararmi dal sole troppo cocente) e giravo per la città abbigliata con gli stessi abiti con cui girerei per Milano, mai troppo succinti o vistosi, ma questo è il mio modo di vestirmi.

Per la strada incontravo donne vestite all’occidentale e donne coperte da lunghi paludamenti scuri che lasciavano intravvedere solo gli occhi e nessuna mi sembrava fuori luogo.

Più spesso, lontano dalle città, ho visto donne che si coprivano il capo con un foulard annodato sulla nuca e le gonne lunghe, un po’ come le nostre contadine di tanto tempo fa, ho visto donne che frequentavano la scuola di tessitura per imparare a tessere tappeti con il nodo gordiano e assicurarsi così la possibilità di avere un lavoro grazie al quale affrancarsi dalla necessità di dipendere economicamente dal marito.

Ho avuto l’impressione che le donne cercassero una nuova dignità

Ho avuto l’impressione che le donne godessero di una discreta autonomia e della libertà di scegliere.

Oggi arrivano dalla Turchia notizie inquietanti che sembrano preludere ad un balzo indietro nel tempo, all’epoca precedente la rivoluzione laica di Ataturk e questo fatto mi preoccupa e mi intristisce.

Avanos (Turchia)

Quattro passi alla mattina.

Come era prevedibile il mio ritorno in pianura ha coinciso con il ritorno del caldo e così sono passata dal maglione invernale alla canotta più fresca nel giro di poche ore (e poi qualcuno si stupisce se ho il raffreddore).

Se al pomeriggio ciondolo per casa in cerca di un angolo fresco, di un punto d’incontro delle correnti d’aria alla mattina, prima che il sole cominci a picchiare come un martello, mi sforzo di camminare un po’, magari facendo quattro passi verso le Foppe attaccandomi alla pia illusione che lo specchio d’acqua procuri un po’ di frescura ( e non solo un tripudio d’insetti di ogni forma e misura).

Non c’è silenzio lungo il percorso perchè il frinire delle cicale è l’unico suono udibile, che riesce ad annullare persino i rumori del traffico che provengono dall’autostrada, è un suono continuo, insistente, quasi metallico che, a poco a poco, diventa un’abitudine, un pezzo irrinunciabile delle nostre giornate che si attenua solo quando cede il passo al canto, più delicato, ma ugualmente insistente, dei grilli.

Ricordo di aver udito un frinire così insistente solo fra i giardini preziosi dell’Alhambra di Granada o nei parchi adorni di palme imponenti di Siviglia, ma quella era un’estate dal caldo record (anche per l’Andalusia).

Un po’ rintronata dalle cicale cammino fino allo stagno, sotto un cielo di metallo senza una nuvola,  e poi mi siedo sulla panchina in cerca di fresco e inseguo ricordi che credevo sepolti.

Cavenago di Brianza - Le Foppe

 

Oggi si cambia.

Sono un tipo un po’ irrequieto e ogni tanto sento il bisogno di cambiare altrimenti rischio di annoiarmi.

E allora ho deciso: cambio i colori, cambio l’aspetto del blog.

E’ un po’ come quando si cambia colore alle pareti di casa, o si acquistano nuove tende o un nuovo divano e all’inizio si fa fatica a riconoscere gli ambienti, ma dopo poco tempo non ci si ricorda nemmeno di come fossero prima.

So che può essere un po’ destabilizzante per chi è abituato a passare da queste parti, “i miei venti lettori” come diceva con un po’ di falsa modestia il Manzoni (nel mio caso non si tratta di modestia né falsa né vera: i lettori sono proprio una ventina), ma sono sicura che sarà facile abituarsi alla nuova faccia di questo blog.

Nella testata ho messo la foto delle mongolfiere in volo sulla Cappadocia perchè è un’immagine che amo molto, un ricordo che amo molto.

E allora non mi resta che augurare buona lettura a chi avrà voglia di venire a trovarmi.

Inchiodata davanti alla TV.

In questa settimana in montagna ho preso l’abitudine di passare la serata facendo quattro passi o leggendo un libro, poi, verso mezzanotte, prima di andare a dormire davo un’occhiata a “Rai News 24” giusto per vedere se era successo qualcosa di importante e, per due sere, sono restata con gli occhi incollati allo schermo per cercare di capire, per cercare di sapere fino a ore tardissime.

Giovedì sera le immagini della strage di Nizza mi hanno riempito la mente e il cuore di dolore e di orrore e di incredulità per ciò che stavo vedendo.

Dopo ristoranti,  bar e discoteche la morte ha colpito per la strada, in una sera d’estate, in una sera di festa, mentre gli occhi di tutti erano catturati dal fascino dei fuochi d’artificio.

Mi sono venute in mente le parole di un sopravvissuto di Auschwitz che spiegava lo stato d’animo suo e di molti  con una frase terribile “Non sapevi quale comportamento fosse quello giusto, non sapevi cosa ti avrebbe salvato la vita” e ho pensato che anche per noi, oggi, questo pensiero è terribilmente attuale: non sappiamo quali luoghi possono essere pericolosi, quali situazioni devono essere evitate se la morte può colpire in un ristorante, in un bar, in discoteca o per la strada.

Mi rifiuto di accettare che l’unico comportamento sicuro sia quello di starsene tappati in casa, di non salire su un metro, o su un aereo, di non cenare con gli amici in un ristorante in centro, di non passeggiare per una via affollata.

E poi, la sera seguente, ho acceso di nuovo la televisione e come uno schiaffo mi hanno colpito le immagini delle vie di Istanbul invase dai carri armati e sono rimasta lì, di nuovo, fino a tarda notte per cercare di capire la sorte di quella città, di quella nazione che ho amato tanto, mentre la memoria ripercorreva i luoghi dove avevo passeggiato serena e curiosa, con lo spirito gioioso di chi sta visitando un luogo stupendo, carico di storia e di civiltà, esotico, ma non troppo.

Non ho quasi più il coraggio di accendere la tv.

Istanbul