Archivio mensile:Maggio 2016

Riservatezza.

In questa epoca dominata dai social network quando grandi dolori bussano alla  porta, quando accadono immani tragedie sembra naturale esprimere il dolore, il turbamento attraverso brevi frasi sincere, ma spesso intrise di retorica.

Io non ci riesco.

Solo raramente, molto raramente, riesco a trovare le parole per commentare o forse non mi sforzo neanche di cercarle perchè di fronte al dolore, mio o di altri, mi chiudo in una sorta di timida riservatezza, di pudore dei sentimenti che non significa certo che io non provi sentimenti ed emozioni, anzi è proprio vero il contrario,: i miei sentimenti ci sono e sono profondi e sono strettamente privati.

Di fronte al dolore tutte le parole, le migliaia di parole che potrei dire o scrivere, mi sembrano inadeguate a consolare, a rassicurare, a confortare.

Se le circostanze lo consentono preferisco esprimere la mia solidarietà con un gesto, un sorriso, una stretta di mano, una carezza.

Oppure con un rispettoso silenzio.

Milano - Monumentale

 

 

Rissa in Galleria.

La Galleria Vittorio Emanuele II , che collega Piazza del Duomo con Piazza della Scala, fin dalla sua inaugurazione, avvenuta nel 1876, è diventata il salotto buono della città, centro della vita della borghesia milanese che qui passeggiava, si dava appuntamento, frequentava i negozi eleganti, i caffè e i ristoranti scintillanti di luci.

Ancora oggi, benché sia percorsa a passo veloce da drappelli di turisti che sostano solo nell’ottagono per compiere un ben noto rito scaramantico (ai danni del povero toro simbolo di Torino) e intanto fotografano le vetrine più prestigiose, si possono  notare gruppetti di signori eleganti che discutono di politica e di finanza (o forse più semplicemente di calcio) e signore altrettanto eleganti che sostano in ammirata contemplazione delle ultime creazioni di Prada.

In Galleria si passeggiava agli inizi del ‘900 e anche oggi i milanesi rallentano il passo, orgogliosi della sua raffinata bellezza.

Proprio agli inizi del ‘900 (per l’esattezza nel 1910) Umberto Boccioni ambienta tra le luci della Galleria una delle sue prime opere, non ancora futurista, ma già ricca di quella ricerca del dinamismo e della velocità che caratterizzerà i suoi capolavori seguenti: “Rissa in Galleria”.

Nel quadro, conservato a Brera, si intravvedono due donne che si stanno accapigliando davanti alla buvette di Gaspare Campari, mentre, tutto intorno, la scena è animata da figure di uomini e donne che convergono verso il centro della rissa forse per dividere le due contendenti o forse solo per curiosare.

Nel quadro Boccioni ha saputo ricreare l’anima della Galleria, cuore della città, dove eleganza e ricchezza si mescolano alla quotidianità, dove le vite incontrano altre vite tra le luci sfavillanti e i marmi lucidi che ne rimandano i riflessi.

Milano - Brera

Orgoglio Italia.

Ebbene sì, sono orgogliosa del mio Paese, della sua bellezza che è così diffusa da passare addirittura inosservata, quasi trascurata, della sua arte, della sua cultura, delle sue mille città che, da sole, basterebbero a dare lustro a qualsiasi nazione e noi passiamo in mezzo a queste meraviglie con la noncuranza di chi alla meraviglia ha fatto l’abitudine.

Capita, in una giornata uggiosa, di chiudersi in una pinacoteca, dopo aver fatto colazione ad un tavolino di un caffè in un quartiere pittoresco di Milano, e di lasciarsi trascinare dalla bellezza che riempie gli occhi e l’anima.

Capita di incantarsi davanti alle figure aggraziate di Raffaello, alla Madonna, giovane sposa, con le guance soffuse da un delicato rossore, che protende la mano per ricevere l’anello dello sposo.

Capita di trovarsi lì, quasi sospesi nel tempo e nello spazio, e di guardarsi intorno e chiedersi come abbiamo fatto a meritarci tanta bellezza e cercare di intuire quali magiche correnti della storia e della cultura abbiano potuto creare simili capolavori.

E allora cresce l’orgoglio per questo Paese e la gioia di essere i depositari di un tale patrimonio artistico.

Milano - Brera

Anche l’occhio…

Qualche tempo fa, durante un viaggio in Alsazia, mi sono imbattuta spesso in qualche vetrina che ha catturato la mia attenzione per i colori pastello, per i profumi e, come ho potuto verificare di persona, per i sapori delicati.

Ricordo piccoli negozi dalle pareti rivestite in boiserie, con gli scaffali in legno zeppi di grandi vasi di vetro colmi di dolcetti colorati in pasta di mandorle, di meringhe dalle sfumature tenui e di macarons coloratissimi.

I macarons, per chi non li conoscesse, sono pasticcini fatti con due dischi di meringa e pasta di mandorle accoppiati, ripieni di ganache al cioccolato o di marmellata o di crema al burro.

Non li amo particolarmente perché sono dei dolci veramente troppo dolci (e pesanti) per i miei gusti, ma sono bellissimi da vedere e poi, una volta tanto, si può anche indulgere in un peccato di gola.

Ricordo i giorni in Alsazia come un tuffo in un mondo di colori: colorati erano i dolci come colorate erano le pareti delle case  a graticcio tipiche di Colmar, colorati come i disegni dei libri di fiabe della mia infanzia.

Forse il ricordo più vivido che conservo è proprio quello di aver passeggiato per qualche giorno in un libro di fiabe,

Riquewihr (Francia)

La musica nel DNA.

Da ragazza strimpellavo un po’ con la chitarra, ma avrei voluto imparare a suonare come suonava mio padre (… e come poi avrebbe fatto mio fratello), mi piaceva la musica, mi piaceva ascoltarla, mi piaceva cantare.

Mio padre suonava con passione e accompagnava le note con la sua voce limpida, la chitarra lo aveva accompagnato in Libia, durante la guerra, e in Sudafrica durante la prigionia e forse aveva contribuito a dargli un po’ di serenità in quei giorni bui, in cui era facile perdere la ragione.

Anche mio nonno strimpellava un po’: il mio nonno materno, di cui porto il nome, suonava il mandolino e anche lui amava la musica, in fondo era nato a Parma e, da ragazzino, aveva frequentato il loggione del mitico Regio.

La musica lirica gli era restata nel cuore e nelle orecchie e, benché sia morto quando ero molto piccola, ho nella mente il ricordo di mio nonno, seduto vicino alla radio, con un libretto d’opera posato sulle ginocchia e la mano che segue lieve le note.

Turandot è una delle prime fiabe che ricordo perché mio nonno me la raccontava spesso, accompagnando il racconto con il canto di alcune arie che, ancora adesso, risuonano nelle mie orecchie familiari come le filastrocche dell’infanzia.

Forse è proprio grazie a mio nonno e a mio padre che amo così tanto la musica, la amo in modo istintivo, senza saper suonare, senza saper leggere uno spartito, forse senza capirne molto, ma amo lasciarmi portare dalle note, perchè la musica per me è un luogo dell’anima, senza spazio e senza tempo, dove la mente si rasserena e tutto è armonia e bellezza.

Cavenago

La quarta parete.

Oggi pomeriggio in classe abbiamo visto un film ormai vecchissimo “La storia infinita” che i miei ragazzini di prima media (o almeno la maggior parte di loro) non avevano mai visto.

La storia è affascinante e narra  del regno di Fantàsia che viene divorato dal nulla perchè gli uomini hanno rinunciato ai loro sogni, alle loro speranze che sono le sole cose capaci di alimentarlo e di farlo vivere.

Il racconto si snoda attraverso l’incontro con creature fantastiche come l’essere millenario, il maghetto che si sposta con un pipistrello insonnolito usato come un deltaplano, la lumaca da corsa, il mordiroccia e il fortuna drago e segue il giovane guerriero Atreyu nel suo lungo viaggio attraverso il grande regno minacciato dal nulla.

Il legame tra lo spettatore e la narrazione è il piccolo Bastian il quale, chiuso nella soffitta della scuola dove si è rintanato per sfuggire ad un compito in classe, legge nel libro magico la storia del giovane Atreyu e trascina con sé i piccoli spettatori e li porta, attraverso la quarta parete che si spalanca sul racconto, fino al capezzale dell’Imperatrice.

Solo alla fine i ragazzi scoprono di aver seguito Bastian e Atreyu nella loro avventura e la scoperta li riempie di stupore e comprendono che  la loro immaginazione, i loro sogni, le loro speranze sono importanti per loro e per coloro che li circondano e che i loro sogni sono uno spazio di libertà di cui nessuno potrà mai privarli.

In volo verso Roma

Piccoli sogni.

A volte non è necessario sognare in grande, basta avere qualche piccolo sogno, possibilmente realizzabile senza grandi sforzi, per guardare avanti con un sorriso.

Bastano piccoli sogni quieti, sogni che non sconvolgono l’esistenza, che non la cambiano, ma che  rendono piacevole la vita che abbiamo.

Impariamo a camminare attraverso i nostri sogni, con un passo che sembra un passo di danza, con un passo leggero che non disperda la sottile materia dell’immaginazione, in punta di piedi per non svegliarci.

Turchia - Lago Salato ( Tuz Gölü)

Io e le due ruote.

Quando vedo le persone che girano tranquillamente in biciclette per le vie del paese provo sempre un po’ di invidia, io non ho un buon rapporto con le due ruote, faccio fatica a mantenere l’equilibrio (cosa che, per esempio, sugli sci mi riesce benissimo), mi lascio prendere dal panico e rischio sempre di fare un volo (cosa che alla mia tenera età non è consigliabile).

Sarà forse perché ho imparato ad andare in bici piuttosto tardi infatti, visto che da bambina abitavo in una zona piuttosto trafficata di Milano, fino a quando la mia famiglia non si è trasferita fuori città, quando avevo undici anni, l’uso della bicicletta era praticamente proibitissimo (mia madre era molto ansiosa e protettiva), anzi fino a quattordici anni non ho nemmeno mai avuto una bici tutta mia.

Prima di allora ogni tanto andavo a trascorrere una settimana di vacanza da mia zia, in un paesino tranquillissimo del Veneto immerso nel verde, allora mi cimentavo con la bicicletta di mio cugino, che era già un adolescente , e provavo a pedalare con grande difficoltà su una bici da uomo, pesantissima e alta quasi come me.

Ad ogni cambio di direzione mi ritrovavo per terra, con le ginocchia sbucciate dalla ghiaia e l’autostima in caduta libera, ma caparbiamente tornavo in sella perchè non sono un tipo che si arrende facilmente.

Così non ho mai imparato a muovermi in bicicletta con naturalezza e ora mi sembra un po’ tardi per provarci.

Ma un po’ mi dispiace…

Milano

Simmetrie.

Al Pirelli Hangar Bicocca è possibile visitare (dal 07.04 al 31.07.2016) l’esposizione  di Carsten Höller intitolata “Doubt”, una mostra interattiva, o per dirla come i critici d’arte “di estetica relazionale” per molti versi sorprendente.

Il visitatore si trova subito a dover scegliere tra due percorsi luminosi per poi passare da tunnel completamente bui e un po’ claustrofobici o da labirinti di accecanti luci intermittenti, può infilare  la testa in un acquario e azionare una macchina che fa volare funghi velenosi, può girare appeso ad una specie di parapendio (ma attenzione è indispensabile prenotare il volo) o sedersi su una giostra  e addirittura può passare la notte a dormire in uno dei due letti a disposizione, letti che si muovono quasi impercettibilmente, quasi a propiziare un sonno che immagino un po’ inquietante.

Le istallazioni sono disposte lungo l’asse centrale della navata oscura,  in modo da creare quasi un muro divisorio che offre una visione solo parziale delle opere così in un gioco di visioni simmetriche.

Lo scopo dell’autore belga non è solo quello di offrire immagini spettacolari e fuori dagli schemi ai visitatori, ma di attirare i visitatori stessi all’interno delle opere d’arte così che ne diventino parte e si spezzi la rigidità del punto di vista unico.

Milano - Pirelli Hangar Bicoccca

Nel bunker.

E’ strano passare dal caldo di questa domenica di fine maggio, al freddo un po’ umido quasi da cantina del rifugio antiaereo della Breda, è strano passare dall’aria festosa piena di rumori del Parco Nord, ai sibili delle bombe, alle esplosioni che risuonano in queste gallerie dove il tempo sembra essersi fermato, è strano passare dalla luce del sole a questa penombra, rotta solo da rare luci, probabilmente molto più vivide di quelle di allora.

Agli operai non piaceva scendere nel rifugio, lo spazio era poco e con le porte di cemento chiuse c’era aria solo per due ore, gli operai avevano paura di fare la fine del topo sotto quelle volte apparentemente così fragili, quasi a fior di terra e preferivano scappare nei campi o addossarsi ad un pilastro portante della grande fabbrica che, tuttavia, in caso di crollo non li avrebbe protetti.

Il bunker racconta una storia di lavoro e di paura ed è uno dei pochi resti di quella che era una parte della grande fabbrica, in quest’area così fortemente industriale da essere un bersaglio fin troppo facile per i bombardieri inglesi, i potenti Lancaster del Bomber Command che tante incursioni compirono proprio sul triangolo industriale.

Stare lì, anche per pochi minuti, seduta su quella panca al buio dà una strana sensazione, la sensazione di rivivere un passato che non mi appartiene, ma che ho sentito raccontare dalle parole di tanti testimoni e anche dei miei cari, di mia madre che tante ore ha trascorso nel buio di un rifugio tra paura e speranza.

Milano Parco Nord - Bunker Breda