Non è finzione.

Anche in passato i grandi casi di cronaca nera suscitavano l’interesse e la curiosità un po’ morbosa ella gente, lo testimonia, ad esempio, il caso dell’uccisione di una donna e sei suoi tre figli in via San Gregorio a Milano nel lontano 1946, tanto che Buzzati ebbe a scrivere:

« E voi parlatene pure, se vi interessa tanto, leggete i resoconti, contemplate le fotografie, andate pure, se non potete farne a meno, alla Corte d’Assise, discutetene alla sera. Però vi resti fitto nel cuore il ricordo di quei tre bimbi selvaggiamente uccisi, di quei tre faccini rimasti là, immobili per sempre, con l’espressione stupefatta, di quel seggiolone da lattante da cui colò il tenero sangue. Le anime dei tre innocenti sovrastano, con pallida e dolorosa luce, la folla riunita al tribunale; e può darsi che vi guardino. »

Lo scrittore invitava i curiosi, coloro che divoravano i resoconti giornalistici (allora non c’era la televisione a servirci la morte, le indagini e i processi in diretta) a non dimenticare che non si trattava di finzione, che i morti erano reali, che reale erano il sangue, il dolore e l’orrore.

Oggi le trasmissioni televisive ricostruiscono omicidi e indagini con minuziosa puntualità, si sostituiscono agli inquirenti e, talvolta, ai giudici rendendo questi fatti di cronaca un grande spettacolo, non dissimile dai telefilm polizieschi, suscitando curiosità che si manifestano nelle discussioni tra innocentisti e colpevolisti, nel lugubre turismo sui luoghi dei delitti (ricordo ancora i pellegrinaggi dell’orrore a Cogne e ad Avetrana).

Dovremmo sempre ricordare però che questi spettacoli si fondano su dolore vero, sulla morte vera, sullo strazio di chi resta.

Forse dovremmo accostarci a queste storie in punta di piedi, con rispetto e partecipazione, lasciando che il silenzio le avvolga.

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