Archivio mensile:Gennaio 2014

Passati per il camino.

Oggi è il giorno della memoria e allora in questa giornata, ma non solo oggi, ricordiamo tutte le vite spezzate, tutti gli affetti cancellati, tutte le persone diventate cenere e fumo per la crudele, insensata brutalità di cui gli esseri umani possono essere capaci.

Ricordiamo e impegniamoci a mantenere viva la memoria: non permettiamo che la negazione e l’oblio cancellino ciò che è stato.

Aiutiamo le giovani generazioni a conoscere e a non dimenticare.

Mauthausen

Il cielo è gratis.

Oggi, nella breve pausa della mia giornata ospedaliera, ho fatto una velocissima fuga in centro per visitare il grattacielo Pirelli, che, di tanto in tanto, viene aperto al pubblico.

Mi sono un po’ stupita perché, benché la giornata fosse splendida e ventosa e il panorama delle montane superbo, c’era pochissima gente in coda per salire all’ultimo piano.

Dopo pochi minuti per l’accreditamento (la visita è gratuita, ma è necessario presentare la carta d’identità e la tessera sanitaria regionale) abbiamo visitato la mostra fotografica “Momenti di Lombardia” e poi siamo saliti al trentunesimo piano, allo spazio Belvedere, praticamente ad un passo dal cielo.

Che dire dello spettacolo che si gode da lassù in una giornata serena?

Francamente non ci sono parole per descrivere la città adagiata ai piedi dell’edificio circondata da una chiostra di montagne innevate: ci siamo soffermati a lungo per individuare edifici e quartieri resi quasi irriconoscibili dall’inusitato punto di vista.

E’ un vero peccato che ci fossero pochi visitatori: non capita spesso di toccare il cielo con un dito.

Milano

Lettori.

Ieri c’è stato lo sciopero del trasporto pubblico locale: non so quanti abbiano effettivamente aderito e se “dalle diciotto a fine servizio” ci sia stato veramente il blocco totale dei mezzi di superficie e non, ma comunque ho potuto osservare che, con l’approssimarsi dell’ora di inizio dell’agitazione, le vetture del metrò dirette dal centro verso la periferia arrivavano stipate all’inverosimile di passeggeri.

Tutta la Milano che lavora in centro e vive fuori si stava spostando contemporaneamente.

Sono riuscita fortunosamente a salire su una vettura ritrovandomi a dover gestire uno spazio di pochi centimetri quadrati e mi sono rassegnata a raggiungere Gessate con un confort degno di un carro bestiame, ma tant’è: ho aperto il mio Kobo e ho cominciato a leggere, giusto per far passare il tempo e rendere il viaggio un po’ meno disagevole.

Alla prima fermata la calca non si è allentata, ma, guardandomi attorno, mi sono accorta che tutti coloro che mi circondavano avevano impugnato un libro e stavano, come me, leggendo con accanimento, cercando di mantenere un equilibrio precario e assumendo le posizioni più strane.

Sul vagone c’era un silenzio da biblioteca, rotto solo dallo stridore del metrò e dagli annunci (peraltro incomprensibili) degli altoparlanti nelle stazioni.

Mi ha fatto uno strano effetto (e mi ha consolato) quella folla di lettori silenziosi, intenti ad occupare nel modo più proficuo possibile il tempo e lo spazio (poco) disponibili.

Chi ha detto che gli italiani non leggono?

Sui metrò stracarichi che li riportano a casa posso assicurare che centinaia di lavoratori leggono eccome.

Mi sembra un gran bel segnale.

Come le montagne russe.

I giorni in ospedale sono un po’ così, come le montagne russe, con un alternanza estenuante di giorni buoni e di giorni cattivi, di sbalzi d’umore (del consorte e miei), di piccoli miglioramenti e di cadute.

Anche il cuore (inteso come organo, ma anche inteso come anima) va sulle montagne russe, con il ritmo che varia seguendo l’onda della paura e della speranza.

Ai capricci dell’organo, mi ha rassicurata una sorridente cardiologa (una aritmologa per la precisione), si può porre rimedio abbastanza facilmente, ma non esiste una cura per l’altro cuore, quello che sta più all’interno, quello che sobbalza e si rallegra e si abbatte e si nutre di piccoli segnali impercettibili e vorrebbe trovare solo un po’ di quieta serenità (in fondo non si tratta di pretendere molto).

Percorro la strada dalla fermata della navetta alla stanza di mio marito cercando di immaginare che giornata sarà, ma le mie arti divinatorie sono un po’ arrugginite e spesso ciò che trovo è diverso da ciò che mi aspetto.

Vorrei tanto poter fermare la giostra, anche solo per qualche tempo, perchè questo andare su e giù infinito mi toglie il respiro.

Milano 29 maggio 2011

Una musica per tutti.

La musica ha attraversato tutta la vita di Claudio Abbado, una vita di successi artistici con le più grandi orchestre del mondo e di impegno civile, coronata dalla recente nomina a senatore a vita (nomina contro la quale le solite persone “piccole piccole” avevano avuto da ridire, ma così va il mondo).

Abbado amava la musica, una musica colta e raffinata che, tuttavia, non considerava appannaggio di una élite in grado di comprenderla appieno, ma bene comune di tutti ed il suo impegno consisteva proprio nell’avvicinare al dono divino della musica anche coloro che, tradizionalmente, ne parrebbero esclusi.

Era un uomo di cultura, di quella cultura che quando è vera e profonda sa essere inclusiva.

A lui va il mio ricordo commosso ed un ringraziamento per aver condiviso con tutti il suo immenso talento.

Sbadigli.

Quando ero molto piccola se mi veniva da sbadigliare mia madre, sempre intenta ad insegnarmi le buone maniere, mi ammoniva preventivamente: “La manina!”.

Così, quasi automaticamente, ho imparato a coprirmi la bocca con la mano in caso di repentini attacchi di sonnolenza (o anche di un colpo di tosse).

E’ diventato un gesto tanto naturale che, anche se sono sola, non mi succede mai di sbadigliare a bocca spalancata senza occultare le fauci, succede sempre così in caso di comportamenti che abbiamo interiorizzato da sempre: ci vengono spontanei e li compiamo senza nemmeno accorgercene.

Viaggiando in metropolitana alla mattina presto o alla fine della giornata ho potuto osservare che, evidentemente, è una pratica che le mamme non insegnano più visto che spesso devo assistere allo spettacolo di ugole al vento, carie e otturazioni squadernate ai quattro venti da profondi e sonori sbadigli.

Purtroppo lo sbadiglio è anche contagioso e quindi non è infrequente assistere ad una esilarante coreografia di mandibole e mascelle che rimbalza da un passeggero all’altro.

Francamente mi sento infastidita da questa mancanza di educazione, tanto è vero che rimprovero anche i miei allievi quando sbadigliano in classe senza coprirsi la bocca.

Secondo antiche leggende lo sbadiglio sarebbe la porta attraverso la quale il diavolo entra in noi o la nostra anima se ne va: se non vogliamo coprirci la bocca per educazione facciamolo almeno come gesto scaramantico.

Pubblicità e canone.

Dall’inizio del mese di gennaio girano sui canali Rai alcuni spot per ricordare agli italiani che è ora di pagare il canone, spot che si intensificano in modo quasi ossessivo via via che la data di scadenza si avvicina.

Le storie, narrate nella pubblicità, sono molto simili: c’è una persona che sta guardando la televisione, un altro personaggio  trova la busta con ben visibile il logo “Rai” e la appallottola per gettarla via, contemporaneamente il televisore si accartoccia e lo spettatore subisce orripilanti metamorfosi che scompaiono solo quando la busta viene recuperata.

Lo spot si chiude con un arditissimo anagramma tra “deve” e “vede” (alla creatività non c’è limite).

Fin qui tutto bene: ogni anno il pagamento del canone ci viene ricordato con grande profusione di “son et lumière” e, d’altra parte, anche se il mugugno imperversa alla fin fine moltissimi si decidono a pagare.

Quello che non capisco è perché nello spot la busta reca il rassicurante logo di “mamma Rai”, mentre, nella cruda realtà, la busta porta la ben più minacciosa e inquietante scritta “Agenzia delle entrate”.

Le buste con l’intestazione “Agenzia delle entrate”, si sa,  di solito sono foriere di notizie non particolarmente gradevoli.

Contribuente e stressata….

Ascolto.

Nelle mie lunghe giornate in ospedale ogni tanto mi concedo qualche minuto di pausa per bere un caffè, per fumare una sigaretta (lo so che non dovrei, ma…): il reparto di degenza ha un terrazzino vicino all’entrata e al bar dove ci si incontra con altri parenti (figli, genitori, mariti e mogli) e, per pochi minuti, si scambiano quattro chiacchiere.

A parte qualche osservazione di prammatica sul clima (e sulle temperature torride che si registrano nei reparti) i discorsi vertono quasi sempre sui nostri cari che abbiamo lasciato nei loro letti, ma che sono sempre nei nostri pensieri.

Ascolto storie di dolore, di malattie lunghe e difficili, racconti talvolta senza speranza, voci esauste di chi lotta da tanto tempo e ha il timore di non farcela più.

E’ difficile trovare qualche parola di speranza e di conforto, si può solo essere solidali con il dolore.

Poi ognuno riprende il proprio fardello di preoccupazioni, di timori, di stanchezza e torna accanto al proprio caro, inalberando un sorriso sereno che purtroppo lo sguardo non riesce a rendere credibile.

 

Passi di notte.

Qualche tempo fa mi sono regalata una serata a Bergamo, in città alta, perché mi piace la sua atmosfera, soprattutto nelle serate invernali, quando la nebbia sale lentamente dal basso e scivola lungo le mura e i palazzi e non c’è tanta gente in giro.

E’ bello salire in funicolare mentre il panorama si allarga sulla città bassa punteggiata di centinaia di luci.

E’ bello camminare sul selciato  lucido, costeggiando i palazzi antichi e silenziosi.

Poi, quando la campana maggiore, il Campanone, ha suonato i cento rintocchi che un tempo annunciavano la chiusura delle porte, è ora di tornare a casa e allora la discesa delle scale impervie regala scorci e silenzi e suoni di passi attutiti dalla foschia.

Ogni passo nel buio ha un’eco e  percorrere le scale deserte è come immergersi nel grembo della notte.

Bergamo

Fidarsi.

Quando entri in un ospedale e cominci un percorso terapeutico ti affidi ai medici, alla loro scienza, alla loro competenza, ai loro studi, in fondo sono persone che dedicano la vita alla cura dei malati e “devi” credere che operino in scienza e coscienza per il tuo benessere.

Negli ultimi tempi, tuttavia,  si fa strada un diverso sentire, una sfiducia serpeggiante nella medicina “ufficiale”, rea di essere ostaggio delle case farmaceutiche, e una ricerca di cure alternative, talora prive di alcun fondamento scientifico, nella speranza di curare ciò che, spesso, non si può curare, di arrivare al traguardo da tutti sperato: la guarigione.

Forse è rassicurante pensare che esistano cure dolci, indolori e dall’esito positivo, forse è rassicurante pensare che ci si possa curare senza terapie devastanti, senza farmaci tossici, senza sofferenza, senza rischi, forse è rassicurante persino pensare che esistano forze oscure e malvagie che si oppongono a queste terapie.

Gli ultimi dieci anni mi hanno insegnato che la medicina tradizionale, la chirurgia, le terapie devastanti che, talvolta, sembrano fare più male che bene, in realtà allungano la vita, anche in presenza di patologie terribili, e ne migliorano la qualità.

Per questo continuo a fidarmi dei medici, anche perché il sorriso del giovane specializzando, che ieri mi ha confidato “Suo marito respira molto meglio, sono proprio contento!”, mi ispira tanta fiducia.