Archivio mensile:Dicembre 2013

Vecchi film e bollicine.

E’ la prima volta che passo la notte di Capodanno da sola, ma la solitudine non mi pesa più che tanto, non ho voglia di uscire e, a dir la verità, non ho molta voglia di festeggiare.

Sono sola, ma non mi sento sola perché ho il cuore pieno di affetti e so che questa è una ricchezza rara, in fondo si può essere più soli di così pur stando in mezzo a tanta gente della quale, magari, ci importa poco.

Nei palinsesti televisivi ho trovato una maratona di vecchi film in bianco e nero (tratti, in modo abbastanza abominevole, da alcuni romanzi di Agatha Christie) e me ne sto qui a guardarli, con occhio critico, confrontandoli con la rapida e intelligente scrittura della signora del delitto e trovando un sacco di difetti.

Verso mezzanotte mi industrierò a stappare una bottiglia di spumante perché è pur sempre la notte di Capodanno e me ne andrò a dormire poco dopo l’inizio del nuovo anno, un anno dal quale mi aspetto almeno un po’ di tranquillità.

Ornago
 

Anno nuovo, vita nuova.

Oggi ho sentito ripetere spesso questa frase (come ad ogni fine dell’anno, del resto), l’ho sentita ripetere da persone che immaginano il passaggio della notte di San Silvestro come una rigenerazione, come una porta che si chiude sul passato, con tutti i suoi problemi, le sue difficoltà, le buone e le cattive abitudini, e che si apre su un futuro che si immagina migliore.

Ma tutti sappiamo bene che allo scoccare della mezzanotte la vita continuerà a scorrere, più o meno, senza interruzioni, senza sussulti, senza svolte e ciascuno di noi, nel primo giorno del 2014 si ritroverà molto simile al giorno precedente.

Ci affidiamo ugualmente alla speranza del cambiamento, un po’ come se il tappo di spumante che salta, dopo il fatidico conto alla rovescia, fosse un rito scaramantico che esorcizza i fantasmi di ciò che non abbiamo apprezzato del passato, e ci convince che tutto può migliorare.

Ugualmente anche i più distratti e i meno superstiziosi danno un’occhiata agli oroscopi che imperversano sulle pagine dei giornali o nelle trasmissioni televisive, alla ricerca di qualche punto fermo, di qualche segno che dia una parvenza di certezza alla domanda di cambiamento che c’è in tutti noi e alimenti la speranza di un futuro migliore del passato che ci lasciamo alle spalle.

Per molti di noi l’anno nuovo non sarà molto diverso da molti anni che abbiamo vissuto: io mi auguro solo un po’ di serenità, una quieta gioia e il calore degli affetti.

Buon anno a tutti.

Rinunce.

E’ bello sciare fuori pista dopo una nevicata abbondante, soprattutto se la giornata è serena, se il sole ha un tepore raro nei mesi invernali, è bello e divertente, ma può essere anche pericoloso per sé e per gli altri.

Ed è inutile e fuorviante parlare di “montagna assassina” o di “valanga killer”: la montagna è lì, da sempre, con le sue “leggi” che vanno rispettate, chi la avvicina deve imparare ad amarla e a temerla, deve ascoltare gli avvertimenti di chi la conosce meglio, perchè vive e lavora a stretto contatto con lei, ma soprattutto deve accettare il gusto un po’ frustrante della rinuncia.

Se c’è rischio di valanghe non si scia e non si sale su pendii esposti, anche se è bello, anche se è un “peccato” perdere un’occasione, così come, in estate, non si arrampica se c’è un’allerta meteo e non si parte neppure per un’ascensione impegnativa se non si è ben attrezzati, ben allenati e in forma.

Tra le lezioni che la montagna ci riserva nella sua immensa saggezza c’è anche quella della rinuncia, la montagna (ma anche il mare e la natura stessa) ci insegna che, qualche volta, vale la pena di fermarsi, di tornare indietro, di non tentare un inutile azzardo.

Davanti alla forza della natura dobbiamo sempre ricordarci che siamo piccoli piccoli e così fragili.

Il mio pensiero commosso va alle vittime di questi giorni e ai loro cari.

Piani di Artavaggio
 

A zonzo.

Questa mattina, prima di andare al San Raffaele da mio marito, vista la giornata perfetta (dopo la pioggia battente degli ultimi due giorni), mi sono concessa una passeggiata in centro per godermi un po’ la mia città addobbata a festa e anche perché, dopo una settimana passata su una poltrona in una stanza d’ospedale, le mie gambe reclamavano un po’ di movimento.

Di solito parto dalla Galleria e arrivo fino a Piazza della Scala, che adoro perché è elegante come un salotto, poi raggiungo l’abside del Duomo, oggi occupata da un mercatino dalle tende rosse, molto natalizio.

Arrivata in Cordusio ho imboccato via Broletto, più tranquilla e meno affollata del solito, e poi ho percorso il Corso Garibaldi, dopo essermi soffermata, come sempre, a San Simpliciano, la chiesa dell’infanzia di mia madre.

Mentre camminavo a passo svelto (non riesco a rallentare nemmeno quando passeggio) ho dato un’occhiata alle vetrine già allestite per i (pre)saldi: avrei voluto fermarmi ad acquistare un maglione, ma non ho visto nulla che mi attirasse veramente.

Dopo Corso Como sono sbucata in piazza Gae Aulenti che, con i suoi edifici, mi affascina a tutte le ore del giorno, perché mi piace osservare i giochi sempre diversi dei riflessi sui vetri e nell’acqua.

Arrivata alla stazione Garibaldi ho preso il metrò.

La passeggiata mi ha fatto bene, mi ha messo di buon umore, mi ha permesso di affrontare con un sorriso la giornata.

E’ strano, ma Milano mi fa spesso questo effetto.

Milano (dicembre 2013)

 

Cenone e cappone.

Lo so che alla sera della vigilia si usa mangiare preferibilmente di magro, ma per noi è una vigilia particolare: domani trascorreremo il Natale in ospedale (perché tra un intervento chirurgico e una tomoterapia mio marito ha trovato il tempo di beccarsi una polmonite) dove sicuramente mangeremo qualcosa di veloce e allora, questa sera, abbiamo rispolverato un piatto della tradizione, un bel cappone ripieno.

L’unica variante è stata la sostituzione della mostarda con una salsa di mirtilli dal gusto un po’ più nordico.

Il cappone, brianzolo come i capponi che Renzo recava in dono al dottor Azzeccagarbugli di manzoniana memoria, è arrivato in tavola, dorato e profumato, su un piatto di portata che usiamo sempre a Natale (un piatto di mia nonna, unico superstite di un servizio che ricordo molto numeroso) ed è stato accolto con gioia.

Sì perché la gioia può essere fatta di piccole cose, di profumi, di colori, di  calore che illuminano anche una giornata buia e triste.

Buon Natale a tutti.

Cappone

 

 

Gentile signora (bis)….

Lei che viaggia comodamente seduta in orario di punta sul metrò che riporta a casa i pendolari, con a fianco (a destra e a sinistra) i suoi due pargoli (di età variabile tra i sette e i dieci anni) di ritorno, a giudicare dai borsoni, da una palestra o da una piscina o, a scelta, da un campo di calcio, lei che, mentre le persone in piedi intorno  (sicuramente più anziane e più stanche dei suoi pargoli) la guardano con un misto di odio e di raccapriccio, non si sogna neppure lontanamente di invitare l’esausta prole ad alzarsi e a cedere il posto, anzi inganna il tempo ingozzandoli di merendine senza preoccuparsi che gli involucri finiscano sul pavimento o abbandonati sul sedile, lei, dicevo, non immagina neppure il coro di muti accidenti e rimproveri sibilati tra i denti che le aleggiano intorno.

Ma se non lo immagina neppure, che glielo dico a fare?

Milano metrò

Gentile signora….

Lei che arriva alla guida di un Suv, delle dimensioni di un piccolo camion, viaggiando a una velocità molto superiore a quella consentita in un centro abitato, con l’orecchio incollato al cellulare e la mano sinistra che si stacca dal volante per gesticolare, Lei probabilmente si sente immortale.

Bene: vorrei farLe notare che io, che sto tentando di attraversare rigorosamente sulle strisce pedonali, e sono già scesa dal marciapiedi e non sono così veloce da mettermi in salvo, vorrei farLe notare, dicevo, che io non sono immortale e, a voler ben vedere, ci tengo alla pelle.

Da sciura a sciura vorrei ricordarLe che, anche se riesce a centrarmi, non è detto che riesca a guadagnare 30 punti, quindi lasci perdere il “gioco” e faccia un po’ di attenzione.

Grazie.

La luce dietro i vetri appannati.

Quando ero piccola vivevo a Milano in una casa antica dai soffitti altissimi che, in inverno, era difficile da riscaldare, nelle mattine gelide la mia mamma si alzava presto, lasciava il tepore del letto, indossava una vestaglia di flanella scozzese e andava a rinchiudersi nella vasta stanza che fungeva da cucina e da sala da pranzo e accendeva la grande stufa a carbone su cui poneva delle pentole piene d’acqua perchè, al nostro risveglio, trovassimo un ambiente caldo e potessimo lavarci in modo confortevole (dai rubinetti allora usciva solo acqua inesorabilmente gelida).

I vetri della porta che ci divideva dalla cucina a poco a poco si appannavano e quella opacità era il presagio del tepore che stava per accoglierci amorevole, come amorevoli erano le cure che nostra madre ci riservava.

La mattina di Natale il vapore lasciava intravvedere le luci dell’albero, che papà era corso ad accendere, e i  colori sgargianti dei pacchetti che ci attendevano.

Me ne stavo lì, dietro quei vetri, a spiare le luci e i colori, con i piedi scalzi che si raffreddavano, ma il freddo non riusciva a disperdere il calore della gioia dell’attesa che era quasi più piacevole dell’entrare nella stanza ed aprire i pacchetti.

Dopo pochi minuti sospesi tra il profumo della festa e la festa stessa entravo nel calore e nella luce e, finalmente, era Natale.